Dall’incipit del libro:
Intorno al 1850 il generale Guglielmo Pepe, esule a Parigi, sentendosi vecchio ormai per rifare la patria, consegnava ad un suo ufficiale di Venezia, Giuseppe Sirtori, una preziosissima spada: la spada che dal console Bonaparte era passata in Egitto al generale Murat, e che dalle mani di questi – fatto Re – era venuta nelle mani del Duca di Roccaromana, grande scudiero del regno, il quale l’aveva poi donata al suo comandante nella campagna di Russia, il generale Florestano Pepe. Da Florestano la spada era passata infine nelle mani di Guglielmo, e da queste («piaccia ai destini italici che possiate in breve servirvene» scriveva il Pepe), nelle mani del Sirtori. Onde la spada predestinata divenne in sessant’anni – come la storia nostra – di napoleonica, garibaldina. Questa vicenda, che non mi sembra senza significato, sempre mi si para dinanzi, quando io penso alla origine regionale dell’Abba. Anch’egli – nato in terra sonante di fasti napoleonici, Cairo Montenotte – muove poi sul mare nostro per conquistare con altri all’Italia l’Italia. Anch’egli si compiace di aver tratto le radici da terra di combattenti, e trae ammaestramento dalle prime guerre bonapartesche, che nelle Langhe avevano fatto balenare il nome d’Italia libera. Insomma la sua figura, ch’è quella per eccellenza rappresentativa dell’uomo garibaldino, sta bene allacciata così alla vicenda napoleonica, che fu in Italia il preludio del Risorgimento.


