(Il canto del beato).
Traduzione: Ida Vassalini

Bhagavadgītā ( भगवद्गीता, pron. Bagavàdghìta), significa in sanscrito “Canto del Divino”, o “Canto del Beato”, da “Bhagavad” (come “Kṛṣṇa”, uno degli avatar, le identità che il dio assume quando scende sulla terra per ristabilire il Dharma, di Viṣṇu) e “gītā”, “canto”. È un poema di 700 versi, strutturati in 18 canti, nel contempo parte integrante della Mahābhārata, il più monumentale poema epico esistente (quasi 100000 versi, rispetto ai 15693 dell’Iliade e ai 12000 dell’Odissea), e testo sacro venerato da milioni di indiani, che indica la via verso la realizzazione spirituale. Così l’ha definita, cogliendone appieno la duplice valenza, il filosofo francese René Daumal: «Questo vangelo annunciato in pieno campo di battaglia da Kṛṣṇa, Dio fatto uomo».

Si trova nel libro VI della Mahābhārata (capitoli 25-42), che, secondo la tradizione, è stata ispirata dal dio Brahma, il Creatore, al saggio Vyasa, Krishna Dvaipayana, autore anche dei Veda e dei Purāṇa. In realtà, gli studiosi hanno riscontrato nella sua stesura una stratificazione temporale in tre distinte fasi: risalirebbe infatti al periodo fra il V e il II secolo a.C. la composizione delle vicende epiche, cui successivamente sarebbero stati aggiunti prima le dottrine del Saṃkhya-Yoga, poi i contenuti teologici riferibili al culto di Kṛṣṇa.

Nella Mahābhārata si intersecano miti e leggende dell’antica India, contenuti teologici, filosofici, etici ed anche scientifici. Il suo nucleo centrale è costituito però dalle imprese del grande sovrano Bharata e dei suoi discendenti, fino ai figli del re Vicitravirya. Alla morte di quest’ultimo, il primo figlio, Dhṛtarāṣṭra, a causa della cecità non può succedergli sul trono e deve quindi cederlo al fratello più giovane, Pandu. Questi, però, muore prematuramente, e, dato che il primogenito di Dhṛtarāṣṭra, Duryodhana, non accetta di lasciare il regno ai Pandava (figli di Pandu), le due famiglie (i cento figli di Dhṛtarāṣṭra ed i cinque di Pandu) si apprestano con i loro eserciti a disputarsi con le armi il regno dell’India.

Kṛṣṇa, avatar del dio Viṣṇu, per evitare una sanguinosa guerra inizialmente propone una soluzione pacifica, ma i Dhṛtarāṣṭra, che combattono per cupidigia e brama di potere e non credono nella natura divina di Kṛṣṇa, si oppongono. Allora Viṣṇu, pur senza intervenire direttamente nei combattimenti, con equanimità si offre di appoggiare uno schieramento con il proprio esercito e di assistere l’altro come consigliere. I Pandava, puri, devoti agli dei e mossi soltanto dal senso del dovere, scelgono l’assistenza di Viṣṇu, che si affianca come auriga sul carro da guerra al figlio di Pandu, il principe Arjuna.

Sta per iniziare la battaglia: gli eserciti sono schierati e il cieco Dhṛtarāṣṭra si fa descrivere scenario, protagonisti ed eventi dal suo segretario Sañjaya, al quale il saggio Vyasa, autore della Mahābhārata, proprio a questo scopo ha concesso la chiaroveggenza. Sopraggiunge il principe Arjuna, ma appena si trova di fronte all’esercito nemico e distingue i volti dei guerrieri, si accascia privo di forze sul carro, dichiarando a Kṛṣṇa di non essere disposto, per di ottenere gloria e potere, ad uccidere cugini, consanguinei ed amici, valorosi combattenti che stima.

Inizia quindi la Bhagavadgītā, il dialogo fra Arjuna e Kṛṣṇa, in cui quest’ultimo espone al devoto seguace i principi fondamentali della spiritualità indù. Il giovane guerriero gli rivolge le domande esistenziali che assillano ciascun individuo, e le risposte di Kṛṣṇa forniscono a tutti i credenti le linee guida per giungere alla liberazione.

Innanzitutto, tormentato dall’atroce dilemma che gli preclude l’azione, Arjuna chiede a Kṛṣṇa «il giusto che sia» (combattere o desistere dall’azione) e il dio, per fugare i suoi dubbi, lo richiama ai doveri della sua casta, quella dei guerrieri:

«Il tuo dovere considera: tu esitar non potrai,
poi che nulla conviensi di più che legittima guerra
ad un guerriero. Felici i guerrieri, Kuntíde,
cui tocca tal pugna che loro apre del cielo le porte
spontaneamente. Ma se tu combatter non vuoi
questa giusta battaglia, al tuo dovere mancando
e la tua fama offendendo, grave sarà ʼl tuo peccato.»

Arjuna, non ancora convinto, chiede quindi al dio le giuste motivazioni per un agire corretto, guidato dalla saggezza. Kṛṣṇa, dopo avergli rivelato che «di saldo pensiero colui/che è imperturbato nel dolore e al piacere non tende.», lo invita a combattere, incurante del frutto delle sue azioni, libero da “brama” ed “ira”, “disciolto da ogni vincolo”, a ricercare la conoscenza e la sapienza «onorando, servendo/e interrogando i saggi» e ad offrire sacrifici agli dei.

Arjuna vuole quindi conoscere l’essenza della divinità e Kṛṣṇa, in un emozionante passo di grande poesia, gli svela la propria natura, che anche se impercettibile permea l’intero universo:

«… L’ātman io son, Guḍākeśa,
ch’è d’ogni esser nel cuore; de gli esseri tutti principio,
mezzo e fine son Io. […]
Tra i grandi ṛṣi Bhṛgu; la mistica sillaba sono
tra le parole; tra i sacrifici son mormorata
preghiera; e lo Himālaya son tra le immobili cose.
L’aśvattha fra gli alberi; e Nārada sono fra i ṛṣi
divini: fra i Gahdharva Citraratha; Kapila sono
l’asceta fra i Siddha; e fra i cavalli Mi chiamo
Uccaiḥśravas nato da l’ambrosia, ed Airāvata sono
fra i nobili elefanti; e fra tutti gli uomini il sire.
La folgore tra l’armi; tra le vacche Kāmaduh sono;
Kandarpa, fonte di vita; e Vāsuki sono tra’ serpi.
Ananta tra i nāga; Varuṇa tra i mostri marini;
tra i Mani sono Aryaman e sono tra i giudici Yama.
Tra i daitya Prahlāda, tra i calcolatori, o Pṛthíde,
il Tempo io sono; e tra le belve il leone,
e tra gli uccelli sono di Vinatā il figlio.
Tra i purificatori il vento Io sono; l’eroe
Rāma son tra i guerrieri, tra i pesci Makara, e il Gange
tra i fiumi, o Kuntíde. De l’universo il principio
Io sono, il mezzo e il fine; tra le scïenze, de l’ātman
la conoscenza, e di chi disputa il vāda.
Fra le lettere son l’a; il dvandva in mezzo ai composti;
sono il Tempo imperituro; il creator che dovunque
il suo sguardo rivolge; e anche la Morte che tutti
rapisce, e il germe di quanto godrà de la vita.»

Ajuna dichiara quindi di aver compreso gli insegnamenti del dio e di essere pronto ad agire per compiere il dovere affidatogli, e Kṛṣṇa solo allora gli si mostra nel suo vero aspetto, per spiegargli infine quale sia la via per arrivare alla liberazione.

«E ancor M’è caro chi né gode né odia né soffre
né ha desideri, tutti i frutti spregiando, e i cattivi
e i buoni, a Me fedele: colui che nemici ed amici,
onore e disonore, ardore e gelo, gioie ed affanni
impassibil riguarda; per biasmo immutabile e lode,
silenzïoso, lieto sempre e di stabil dimora
schivo, con mente ferma, con devozione profonda.
E oltre modo M’è caro chi questa dottrina immortale
venera pio, a Me solo fedele e devoto.»

La grandezza della Gita l’ha resa secondo molti un Vangelo universale per i valori che trasmette ad ogni uomo, a prescindere da provenienza, razza, lingua ed epoca: a testimonianza di ciò, nel 2014 il Primo Ministro indiano, Narendra Modi, che ritiene la Gita “Il più grande dono dell’India al mondo”, ne ha regalato una copia al Presidente Obama in occasione di una sua visita negli U.S.A..

Hanno detto della Bhagavadgītā:

«Se le varie tragedie che hanno costellato la mia vita non mi hanno lasciato nessuna cicatrice, è solamente dovuto agli insegnamenti della B. G.» (Mahatma Gandhi);

«L’opera più istruttiva e sublime che esista al mondo.» (A. Schopenauer);

«Il prodigio della Bhagavad-gita è nella sua rivelazione, davvero bella, della saggezza della vita, che rende possibile alla filosofia di fiorire nella religione.» (R. W. Emerson);

«Forse l’opera più profonda ed elevante che il mondo possa offrire» (A. Von Humboldt);

«Quando leggo la Bhagavad-Gita e rifletto su come Dio creò quest’universo, ogni altra cosa mi sembra così superflua» (Albert Einstein).

La Bhagavadgītā può essere anche apprezzata come una grande opera poetica. Kṛṣṇa, per meglio farsi comprendere dal discepolo (e dai fedeli di ogni tempo), utilizza spesso le similitudini, che gli consentono di evocare i concetti attraverso immagini tratte dal mondo naturale. Questa figura retorica (che anche Dante secoli dopo userà per evocare ciò che non è descrivibile nella Divina Commedia) viene privilegiata nella Bhagavadgītā per le sue peculiarità: risponde infatti ad esigenze didattiche (permette di esemplificare il concetto attraverso esperienze fisiche note a tutti i lettori), “economiche” (l’immagine evita lunghe spiegazioni) e poetiche (evoca scene solitamente emozionanti e coinvolgenti):

«Come il vento su i flutti la nave travolge, de’ sensi
così il tumulto l’animo turba e sovverte.»
[…]
«E come le acque riceve il mar che immutato nel fondo
resta né spezza i limiti, così sol consegue la pace
chi tutti i desideri accoglie ed alcun non seconda.»
[…]
«Come il fuoco ardendo riduce
le legna in cenere, così ridotte son tutte
le azioni dal fuoco de la conoscenza, o Pṛthide.»

La traduttrice è Ida Vassalini (1891-1953), laureatasi prima in filologia classica a Padova e poi in filosofia a Milano, docente di filosofia nei licei, filosofa, poetessa; affascinata dalla cultura indiana, inizia a studiare il sanscrito per tradurre poi le Upanishad, la Bhagavadgītā e il Dhammapada. Nella prefazione, esplicitamente dichiara gli obiettivi della sua traduzione:

«Tale il vangelo eterno dell’India nella sua atmosfera e nelle sue linee essenziali: il lettore riviva l’ora di tregua concessa all’eroe in mezzo al campo di battaglia, e nella serena conciliazione di tanto diverse visioni dimentichi le voci discordi, vicine e lontane nel tempo e nello spazio: che al suo spirito giunga almeno una tenue eco del ritmo dei versi immortali.»

In appendice ha inserito un “Indice dei nomi indiani”, un utile glossario dei termini religiosi e dei personaggi citati, nonché dei numerosi patronimici dei due personaggi del dialogo, Kṛṣṇa e Arjuna.

Fonti:

Sinossi a cura di Mariella Laurenti

Dall’incipit del libro:

Diceva Dhṛtarāṣṭra:
A me rispondi: Là, nel sacro campo di Kuru,
quando vennero a fronte, di lotta ardenti e di strage,
che mai fecero, o Sañjaya, i Pāṇḍuidi ed i nostri?

E Sañjaya disse:
O Dhṛtarāṣṭra, poi che de i Pāṇḍava scorse
l’esercito schierato, s’accostava Duryodhana il sire
al suo Maestro, e così il parlar gli volgea:
«Guarda, o Maestro, questo esercito grande de’ figli
di Pāṇḍu che il Draupadio, di te saggio alunno famoso,
ordinava in battaglia. Là sono gli eroi, là gli arcieri
nel pugnare valenti di Bhīma e d’Arjuna al pari:
Yuyudhāna, Virāṭa, Drupada, guerrieri superbi;
e Dhṛṣṭaketu e Cekitāna e di Kāśi
l’illustre re, e Purujit e Kuntibhoja e de’ Śibi
il nobile sovrano, e Yudhāmanyu possente
e l’ardito Uttamaujas, di Subhadrā il figlio, ed i figli
ancor di Draupadī: e tutti su carri di guerra.

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titolo:
Bhagavadgītā
sottotitolo:
(Il canto del beato).
Traduzione: Ida Vassalini
titolo per ordinamento:
Bhagavadgītā
descrizione breve:
Bhagavadgītā è un poema di 700 versi, strutturati in 18 canti, parte integrante della Mahābhārata, il più monumentale poema epico esistente (quasi 100000 versi, rispetto ai 15693 dell'Iliade e ai 12000 dell'Odissea), e testo sacro venerato da milioni di indiani, che indica la via verso la realizzazione spirituale.
autore:
opera di riferimento:
Bhagavadgītā : (Il canto del beato) / traduzione in esametri dal sanscrito e introduzione di Ida Vassalini. - Bari : Gius. Laterza & Figli, 1943. - 138 p. ; 21 cm.
licenza:

data pubblicazione:
26 marzo 2024
opera elenco:
B
soggetto BISAC:
RELIGIONE / Generale
affidabilità:
affidabilità standard
digitalizzazione:
Cristina Rosanda, cristina.rosanda@gmail.com
impaginazione:
Cristina Rosanda, cristina.rosanda@gmail.com
pubblicazione:
Catia Righi, catia_righi@tin.it
Claudia Pantanetti, liberabibliotecapgt@gmail.com
revisione:
Mariella Laurenti, mariella.laurenti@gmail.com
traduzione:
Ida Vassalini