Edizione UTET a cura di Vittore Branca.
La raccolta di novelle è stata quasi certamente scritta fra il 1349 e il 1353, all’indomani cioè della terribile pestilenza che dal 1348 devastò l’Europa. Come dice il titolo grecizzante l’azione si svolge e si chiude nel giro di dieci giorni.
Dopo un “proemio” indirizzato alle “vaghe donne” che per prova conoscano l’amore, la lunga introduzione alla prima giornata dà un quadro terrificante dell’atmosfera di orrore e di morte che circonda Firenze in preda alla peste. Boccaccio immagina che sette fanciulle e tre giovani uomini si rifugino in una villa dei vicini colli per sfuggire al contagio e per trascorrere un po’ di tempo allegramente fra amabili conversari, banchetti e danze.
Ogni giorno, tranne il venerdì e il sabato dedicati a pratiche religiose, i giovani si radunano su un prato, per raccontare novelle, una per ciascuno; queste si svolgono intorno a un tema prestabilito, proposto ogni volta dal re o dalla regina eletti quotidianamente dalla compagnia. Dopo ciascun gruppo di racconti trova posto una “conclusione” suggellata da una ballata.
Dall’incipit del libro:
Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovinezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto.




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