Romanzo

Della produzione letteraria di Memini scrive Jolanda (alias Maria Majocchi Plattis) nella sua raccolta di impressioni sul mondo di scrittrici e scrittori Dal mio verziere (1910) presente qui in Liber Liber:

«Chi è Memini? Io non so. Ma credo di poter affermare che abbiamo a fare con una vera signora. Finalmente! si respira, in questo andirivieni di donne-scrittrici, non tutte gentili, che scambiano la sgarbataggine con la forza e fumano la sigaretta anche in letteratura! Memini, l’ho detto, è soavemente donna e signora; non perchè la sua arte ce lo confermi cincischiandosi in analisi da sarta e da tappezziere, o perchè ci fa vivere in un ambiente leggittimamente aristocratico; ma per una specie di delicata riservatezza, per la grazia semplice e tranquilla di cui si vela il suo stile, sempre, anche nei momenti del più alto lirismo, anche nei momenti della più intensa passione, raggiungendo, in tal maniera, una semplicità suggestiva e un’efficace sobrietà.»

Quindi nel 1896, data della prima edizione di Dal mio verziere, Jolanda non sapeva ancora dell’identità che si celava dietro lo pseudonimo “Memini”. Ma era certa che fosse una donna. Quando invece, nel 1886, al momento della pubblicazione della prima edizione di La Marchesa d’Arcello, Giuseppe Depanis, direttore di “La Gazzetta letteraria” scrisse per il settimanale di cui era direttore la recensione di questo importante romanzo, non conosceva neppure il sesso di Memini, anche se ipotizzava che “potrebbe anche essere una gentile scrittrice”. Ecco qui di seguito la recensione stessa, che, anche se ovviamente datata, ha il pregio di consentirci di contestualizzare il valore del romanzo stesso, sottraendoci allo sbaglio di volerlo valutare con criteri contemporanei:

«La Marchesa D’Arcello del Memini uno dei soliti romanzi i quali coi fronzoli della copertina e colla mole ingente usurpano una fama ed un successo che loro non spetterebbero. Si sa, le eleganze della copertina lasciano supporre la fiducia dell’editore, e la mole ingente spaventa i critici, che senza coraggio di leggere intero il romanzo, sono pur tanto coscienziosi da non sparlare di un libro che non conoscono. Donde quei compromessi tra la pigrizia e la coscienza così frequenti nel mondo letterario odierno e che tanto discredito contribuirono a gettare sul romanzo italiano. Come volete che il pubblico ci creda ancora, se si avvede che la critica stessa non se ne cura o cerca di gabellare il suo giudizio colle vuote ciance e colle vuote declamazioni di chi, mal pratico della materia, s’industria di reggersi alla meno peggio sui trampoli?
La marchesa d’Arcello è un romanzo stampato nitidamente, ha una copertina civettuola, e conta la bellezza di 722 pagine, dico pagine settecentoventidue, eppure è un romanzo degno della copertina e non fa rimpiangere la mole ingente. Con ciò non intendo punto affermare che sia un romanzo perfetto: oibò! Ci avanza e di assai.
Riassumere un volume di 722 pagine non è impresa né agevole né utile, anche se la tela del romanzo non è eccessivamente complicata. Basti sapere che si tratta di un misterioso adulterio compiuto, quasi inconsciamente, dalla marchesa Bianca d’Arcello: ne nasce un bambino, Alberto Stranieri, da cui la madre deve staccarsi e che poi crede morto. Il marito conosce la colpa della moglie, ma, piuttosto che muovergliene rimprovero, preferisce morire di crepacuore. Prima di morire però, egli le rivela che Alberto non è morto, che egli stesso ha provveduto al suo avvenire, e le fa promettere che non mai ed in nessuna circostanza ella lo riconoscerà come figlio onde non ne venga macchia all’onore del casato. L’infelice madre giura pur di vedere assicurata la sorte del figlio e di poterlo accostare, se non altro, come un’amica. Il marchese Bruno muore. Bianca veglia da lungi sul figlio naturale e da presso sul figlio legittimo, Febo. Ma una specie di fatalità la persegue, Il figlio legittimo si invaghisce della figlia del fattore, Zoraide, ed ella, Bianca, deve acconsentire al matrimonio, perché il padre di Zoraide conosce il segreto della sua esistenza e vocerebbe ai quattro venti il suo disonore. Ed il figlio naturale, invaghitosi della duchessa Grazia, subisce l’onta di un rifiuto, perché genitori ignoti, ed è ucciso in un duello che egli stesso ha provocato a qualunque costo. L’ultimo colpo è troppo forte per la madre: ella ha ucciso col proprio adulterio il marito, ma questi col giuramento strappatole le uccide il figlio e uccide lei stessa. Omai sono pari, e Bianca, ricevuto il terribile annunzio della morte di Alberto, cade pesantemente, come una quercia recisa alla base.
Una cosa salta subito all’occhio del lettore: la nessuna novità dell’argomento; è l’eterno tema delle colpe dei padri riversantisi sui figli, quel tema che diede già luogo ad un’odissea lacrimosa di drammi sentimentali e di romanzacci complicati. Corollario logico della nessuna novità dell’argomento è la poca novità sostanziale dei caratteri. Né questi sono i soli difetti del romanzo.
Lo sviluppo è eccessivo e rivela la mancanza di un piano nettamente stabilito a priori. Il romanzo abbraccia un periodo di tempo troppo esteso, cosicché gli episodi soverchiano l’azione principale e presentano tutti un identico rilievo a scapito dell’efficacia. Gli amori di Bianca e di Febo – fratello di Bruno d’Arcello, da non confondersi con Febo numero due, figlio di Bianca e di Bruno – e gli amori di Bianca e Stanislao – padre di Alberto – occupano l’intera prima parte del romanzo, mentre in sostanza non ne costituiscono che l’antefatto. Inoltre non mancano qua e là i mezzucci e i mezzacci, ed il romanzo, scambio di parere tragico, diventa melodrammatico. Così non è giustificato l’astio del fattore Bista contro Bianca d’Arcello, spinto sino al punto in cui è spinto nel romanzo, e sa di arena l’espediente della lettera rivelatrice conservata per anni, quasi che il fattore prevedesse che un giorno il padroncino si invaghirebbe della figliuola e la lettera sola potesse troncare di botto la resistenza della marchesa. Così tutti i matrimoni accadono malgrado la volontà di qualcuno: Bianca doveva sposare Febo numero uno e poi ne sposa il fratello; Febo numero due sposa Zoraide malgrado il desiderio della madre, ed Alberto e Grazia, che si amano veramente, poverini, non approdano a nulla. Così pure la scena della provocazione nel negozio Giacosa in Firenze fu già letta e sentita parecchie volte, e l’esclamazione della marchesa Bianca dinanzi al busto del marito: “Bruno! Ora siamo pari!” fa l’effetto di una stonatura comica nel dramma angoscioso.
Tutti questi sono difetti, e difetti gravi. Eppure, ripeto, La marchesa d’Arcello è uno dei pochi lavori apparsi in quest’anno che facciano onore al romanzo italiano e che rivelino una tempra vera di romanziere. Il Memini (che, tra parentesi, potrebbe anche essere una Memini, cioè una gentile scrittrice) con una tela non nuova, e con caratteri o non nuovi o melodrammatici ha scritto un romanzo che ha un’impronta sua propria, un carattere spiccato e che si legge da cima a fondo con vivo interesse. Ora questo è merito non lieve nelle condizioni attuali della letteratura romanzesca in Italia, in quella specialissima creata dalle settecentoventidue pagine che costituiscono il romanzo. Ed è appunto perché il Memini ha tempra di romanziere e non è lavoro volgare che io mi sono più soffermato sui difetti – od almeno su ciò che a me pare difetto – che sui pregi. I pregi formano la genialità dell’autore ed emergeranno vieppiù in altri lavori, non ne dubito; dei difetti il Memini potrà sbarazzarsi in avvenire, ed importa frattanto segnalarli onestamente. Un elogio d’incoraggiamento suonerebbe pel Memini un insulto.» (Tratto da “Gazzetta letteraria” del 10 luglio 1886 – anno X)

Nel 1915 Carlo Villani non ha più dubbi sull’identità di Memini. Scrive infatti nel suo dizionario bio-bibliografico Stelle femminili a proposito di Memini e in particolare del suo romanzo più noto:

«Memini è il pseudonimo della contessa Ines Castellani Benaglio, romanziera lombarda contemporanea, e che brilla nel firmamento delle lettere come stella fulgidissima accanto alle altre stelle. Collabora in parecchie riviste letterarie, fra le quali in “Natura ed arte”, dove lessi due suoi articoli critici: Una recente pubblicazione su Lenau e Sofia Lowental; Un recente libro di Neera (Senio). Le dobbiamo, oltre a parecchi racconti, come Vita mondana, – Un tramonto, – ecc. bellissimi romanzi tra i quali ricordiamo: Mia, elegante volume pubblicato a Milano dal Galli: La Marchesa d’Arcello, del quale leggiamo i seguente giudizio critico assai lusinghiero nella “Nuova Vercelli” del giugno 1886: “Questa signora Memini con la sua Marchesa d’Arcello piglia di carica, a mio giudizio, uno dei primi posti nella letteratura romantica, e lo constato tanto più sinceramente in quanto che, lo confesso, ho cominciato la lettura del grosso ed elegante volume con una certa diffidenza. Sin dalle prime pagine mi sentii agganciato da un vivo interessamento. Le mosse del racconto sono prese con insolita scioltezza, la mano pronta, rapida, sicura nel disegno, si manifesta nei tratti caratteristici dei tipi, nell’impostura delle situazioni, nella scorrevolezza del dialogo, nella vivacità delle descrizioni… Sono poco convinto della missione educatrice del romanzo, ma quando un libro riesce, come questo, ad appassionare e ad angosciare, strappando all’animo riposato dei lettori un profondo rimpianto, non è dubbio che l’opera d’arte ha raggiunto il suo alto significato. Di più in questa Marchesa d’Arcello, oltre a parecchie scene magistrali addirittura per vigoria drammatica, spira una profusione di sentimento e di pensiero che non lasciano campo a censurare certe risorse del vecchio scenario romantico. Il libro è turgido in ogni sua parte di esuberanze invidiabili in uno scrittore, una fluidità di stile, una ricchezza di tavolozza…” Le dobbiamo altresì: Mario, romanzo (Milano, Baldini-Castoldi); La Perichole; Anime liete; L’ultima primavera, che è un lavoro passionale drammatico, scritto in un italiano puro e semplice, e che può dirsi una vera opera d’arte, essendo esso uno studio perfetto e completo dell’ambiente aristocratico.»

Siamo quindi di fronte ad un romanzo che, pur non essendo certamente un capolavoro, godette a suo tempo di un buon successo di critica e di pubblico, con due edizioni in otto anni e una traduzione in tedesco nel 1888.

Dall’incipit del libro:

Nella pace serena del tramonto, il suono dell’organo si spandeva ampio e grandioso. Le sue vibrazioni echeggiano gravi, accentuandosi ad ogni ravvivarsi della brezza e, nell’acquetarsi repentino di questa, sembravano smarrirsi per l’aria, come uno sciame di farfalle che si dileguassero a volo.
Due uomini, avviati per la strada maestra d’una ricca campagna lombarda, si soffermarono ascoltando.
Vestivano entrambi l’abito del contadino agiato, e si somigliavano abbastanza per tradire immediatamente, nei loro aspetti, i legami della più stretta parentela. Erano infatti padre e figlio.
Il più giovane fece un lieve cenno nella direzione d’onde giungeva il suono, e interrogò collo sguardo il compagno.
Il vecchio alzò le spalle e rispose laconicamente:
— Don Bruno.
— Ah! — fece l’altro.
E si rimisero per via.

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titolo:
La Marchesa d’Arcello
sottotitolo:
Romanzo
titolo per ordinamento:
Marchesa d’Arcello (La)
descrizione breve:
Memini fu nella vita come un’eroina dei suoi libri, la Marchesa d’Arcello, Milla d’Astianello, Maria d’Ardeano, una malinconica visione circondata da figure brutali.
autore:
opera di riferimento:
La marchesa d'Arcello : romanzo / Memini. - Milano : Libr. Edit. Galli di C. Chiesa e F. Guindani, 1895 (Bergamo, Stab. Tip. Lit. Fratelli Bolis). - 16. p. 460.
licenza:

data pubblicazione:
17 novembre 2022
opera elenco:
M
descrittore Dewey:
Narrativa italiana (1859-1899)
soggetto BISAC:
FICTION / Romantico / Generale
affidabilità:
affidabilità standard
digitalizzazione:
Dario Cossi, cossdario@gmail.com
impaginazione:
Dario Cossi, cossdario@gmail.com
pubblicazione:
Catia Righi, catia_righi@tin.it
Claudia Pantanetti, liberabibliotecapgt@gmail.com
revisione:
Maria Grazia Hall, magrazia27@gmail.com