Questa conferenza del 1913 di Pierangelo Baratono si inseriva nelle attività della “Società di Lettura e Conversazioni Scientifiche”, una delle più antiche e longeve società culturali genovesi, che ha tra i fondatori Arturo Issel, Giorgio Ramorino, Jacopo Virgilio, Enrico Morselli. Numerose le personalità che ebbero un ruolo importante nella “Società”, da Eugenio Montale a Ruggero Bonghi, Mommsen, Fogazzaro, Vilfredo Pareto, De Gubernatis. Fin dal 1870 la società diede vita a una pubblicazione periodica che divenne nel 1900 la «Rivista ligure di Scienze, Lettere ed Arti» e durò fino al 1917.
Baratono affronta il problema del teatro contemporaneo cercando di separare il teatro di osservazione e analisi da quello di arte e poesia. E per esemplificare questa divisione parte dall’esempio, in negativo, del dramma Al telefono di De Lorde e Folley, all’epoca oggetto di un clamoroso (e immeritato, secondo Baratono) successo di pubblico. Per contrapposizione ci viene presentato come teatro d’arte quello di Shelley, Ibsen, Björnson, Strindberg e Becque, oltre agli italiani Giacosa e Butti. Si può quindi riprodurre attentamente l’osservazione della realtà oppure fornire l’immagine del mondo interiore che ispira l’autore di teatro. Esempio di questa contrapposizione sono da una parte il Cyrano di Rostand e dall’altra il Socrate di Bovio. La conferenza, se pur in modo informale, offre interessanti spunti di riflessione.
Per una storia della “Società di Lettura e Conversazioni Scientifiche” può essere consultata questa pagina: https://letturescientifiche.jimdo.com/storia/
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Un onesto ciarlatano, il quale, ottenuto il permesso dalle autorità competenti, si disponga ad aprire un suo baraccone nella grande fiera delle vanità, di cui tutti, più o meno, siamo spettatori ed attori, parte convenuta e parte… lesa, deve, se pur non desideri assomigliare al melanconico saltimbanco, visto da Baudelaire e fissato con meraviglioso bulino in un suo «poemetto in prosa», conoscere l’abici della professione, volontariamente o per fame abbracciata: e deve, sovra ogni cosa, sapere che non virtù abbagliante di lumi elettrici o modesta di candelotti, nè civetteria di ampi specchi, nè profusione di colori su tele da imballaggio, elevate a dignità di quadri quasi viventi, bastano, da sole, a far accorrere il pubblico in folla e a donare ai volti della moltitudine quell’apparenza di mascheroni tragi-comici, ondulanti in cima a dei pali, che James Ensor con così mostruosa caricatura e profonda verità riprodusse nei suoi disegni «L’entrata di Gesù a Bruxelles» e «La cattedrale». Non bastano, dico; poichè, voglia il degno ciarlatano mostrar statue di cera o fenomeni umani, silfidi folleggianti nell’aere o belve chiuse tra spranghe di ferro e debitamente, per maggior precauzione, impagliate, voglia esporre le opere di altri o le proprie, le idee che non ebbe mai o quelle, che s’illude di avere, non un soldo vedrà piovere nel suo vorace e lagrimoso cassetto se, prima, non avrà con robusti polmoni ed esuberanza di gesti richiamato dai quattro punti cardinali la gente, di un tratto resa avida di ascoltare il suo imbonimento.

