Ugo BettiUgo Betti nacque il 4 febbraio 1892 a Camerino, cittadina appenninica marchigiana situata tra Foligno e Macerata, sede di una Università fondata in epoca medievale. Il declino da antica città stato a cittadina difficilmente accessibile fu dovuto alla lontananza da importanti arterie stradali e da una situazione ferroviaria caratteristica ma non troppo funzionale. Ma la sua posizione collinare, il clima estivo favorevole e la indiscutibile bellezza paesaggistica sono forse alla base dell’affezione particolare che Ugo Betti conservò per il suo paese di origine, tornando spesso nel luogo della sua nascita e, soprattutto, introducendo l’ambiente montano a lui congeniale in molte delle sue opere teatrali e narrative.

Suo padre Tullio era un medico condotto, la madre si chiamava Emilia Mannucci. Nel 1901 Tullio Betti fu nominato sovrintendente dell’ospedale municipale di Parma. Ugo Betti, che all’epoca aveva nove anni, si trasferì quindi in Emilia con i suoi genitori, e fu a Parma che ricevette la sua istruzione secondaria. Suo fratello Emilio, di due anni più grande di lui e che in seguito sarebbe diventato un illustre giurista, rimase a Camerino con i nonni; in pratica quindi Ugo trascorse gli anni decisivi per la sua formazione caratteriale come figlio unico. Pare infatti che le attenzioni, in particolare del padre particolarmente premuroso e sentimentale, siano state quasi soffocanti. Nei quaderni lasciati dal padre si riscontrano una sollecitudine davvero straordinaria per il benessere del figlio e un orgoglio smisurato per i risultati del ragazzo. Quando Ugo era poco più di un bambino, il dottore suo padre lo portava regolarmente al suo club, dove il ragazzo suscitava la curiosità dei soci per l’evidente piacere che provava nel leggere le recensioni letterarie e le riflessioni politiche più erudite.

Prima di lasciare il liceo per proseguire come studente di giurisprudenza all’università di Parma, l’interesse di Betti per la letteratura trovò espressione concreta in una traduzione in versi sciolti, che denota notevole sensibilità, dell’Epitalamio delle nozze di Teti e Peleo di Catullo, che fu pubblicato a Camerino nel 1910.

La scelta della facoltà universitaria di giurisprudenza anzichè lettere fu dovuta da un lato all’assenza di una facoltà di lettere a Parma, ma dall’altro – motivo preponderante – ai preoccupatissimi avvertimenti di suo padre sulla precarietà di una carriera letteraria. Tuttavia, la tesi che Betti presentò per la sua laurea nel 1914 non era propriamente attinente allo studio della filosofia del diritto come avrebbe dovuto formalmente essere, ma era piuttosto un trattato politico-filosofico appassionato ma piuttosto immaturo, che prende il via dalla categorica affermazione che ogni azione umana è il prodotto della preoccupazione totalizzante delle persone per il proprio benessere personale. La discussione sull’egoismo serve da introduzione alla parte centrale della tesi, che consiste in un ingegnoso ma, in ultima analisi, abbastanza imprudente tentativo di interpretare la storia della civiltà europea in termini di egocentrismo dell’uomo. La tesi di laurea di Betti conserva costantemente sullo sfondo uno spirito di intransigente cinismo. L’amore cristiano per il prossimo è liquidato come un’ipocrita assurdità; il matrimonio è descritto come un anacronismo, che presto verrà gettato nella discarica delle istituzioni sociali obsolete – questo dovrebbe essere l’aspetto più “rivoluzionario” della tesi –, le azioni di eroismo e altruismo sono viste semplicemente come altri aspetti dell’egoismo dell’uomo, il lato opposto della stessa medaglia; le virtù sono semplicemente vizi camuffati. Appare chiara l’influenza dannunziana e del movimento futurista dal quale Betti attinge per questa sua tesi le tesi superficialmente iconoclaste che lo conducono ad acrobazie intellettuali mozzafiato. Nonostante tutta la sua futura opera letteraria fornisca abbondantemente ed eloquentemente un ottimo contrappeso a quegli entusiasmi universitari un po’ superficiali, Betti non abbandonò mai del tutto la sua prima concezione della persona come creatura incorreggibilmente egocentrica. E le posizioni della sua tesi di laurea si riflettono abbastanza spesso attraverso personaggi delle sue opere teatrali, per esempio Tomaso ne L’aiuola bruciata.

Pochi mesi dopo la laurea di Betti l’Italia entrò nella prima guerra mondiale. Betti si arruolò immediatamente nel Corpo Nazionale volontari ciclisti e automobilisti che però fu sciolto nel dicembre 1915. Fece quindi domanda di ammissione all’accademia militare di Torino, nella quale si diplomò come ufficiale di artiglieria nel febbraio 1916. Fu subito assegnato a un’unità di artiglieria di prima linea, dove prestò servizio con grande determinazione fino a quando fu catturato dai tedeschi, dopo aver difeso eroicamente la sua posizione durante la grande offensiva austro-tedesca che portò alla disfatta di Caporetto nell’ottobre 1917. La prima parte della prigionia trascorse a Rastatt; fu poi trasferito nel campo per ufficiali italiani a Celle, vicino ad Hannover, dove ebbe come compagni di prigionia Carlo Emilio Gadda e Bonaventura Tecchi.

Segnato dall’esperienza di guerra, sia al fronte che nel campo di prigionia tedesco, Betti tornò a casa alla fine del 1918 decisamente trasformato, più triste e, forse, più saggio del giovane entusiasta che era partito per la guerra con tanta sicurezza poco più di tre anni prima. Nella sua tesi di laurea infatti più di un paragrafo è dedicato all’esaltazione della guerra e del militarismo. Ma quando, molti anni dopo, gli fu chiesto quali lezioni avesse imparato dalla sua partecipazione attiva alla guerra, rispose che “una cosa è parlarne, un’altra è farla”. La stupidità della guerra e la stringente necessità di raggiungere soluzioni pacifiche come sbocco alle differenze ideologiche sono importanti temi solo apparentemente marginali in diverse opere di Betti; oltre al già citato L’aiuola bruciata, anche per esempio in La regina e gli insorti.

La questione della sua futura attività professionale aveva inevitabilmente occupato un posto di rilievo nei pensieri di Betti durante i lunghi mesi della sua prigionia. Era pervenuto alla laurea in giurisprudenza, ma al suo ritorno in Italia non era riuscito ad accantonare del tutto la tentazione di intraprendere una carriera letteraria a tempo pieno. Probabilmente ancora una volta fu decisiva l’opinione di suo padre, e Betti decise di riprendere gli studi legali, scegliendo il campo specialistico del diritto ferroviario, con l’intenzione finale di cercare un incarico come consulente legale per le Ferrovie dello Stato. Il frutto del suo lavoro fu una lunga e acuta dissertazione, Considerazioni sulla forza maggiore come limite di responsabilità del vettore ferroviario, che fu data alle stampe privatamente nel 1920 e che non è quasi mai giunta all’attenzione di chi si è occupato in maniera critica degli scritti di Betti. Questo trattato relativamente sconosciuto è infatti di scarso interesse, soprattutto per la sua prima parte, in cui l’autore affronta questioni generali riguardanti la responsabilità delle grandi imprese pubbliche o private. Betti sostiene con decisione il concetto di “atto di Dio” in contrapposizione al più tradizionale punto di vista concreto e materiale, ponendo così l’accento sulle responsabilità che incombono all’individuo nel ridurre la possibilità di incidenti. Le opinioni di Betti su questo argomento, insieme alla sua affermazione che la responsabilità presuppone inevitabilmente la colpa, sono spiegate con questo esempio: «se un albero viene distrutto da un fulmine, possiamo dire che l’albero è morto a causa del fulmine; ma se il fulmine colpisce un edificio su cui il proprietario avrebbe dovuto erigere un parafulmine, dobbiamo concludere che, dal punto di vista della responsabilità morale e giuridica, la vera causa del danno è stata la negligenza del proprietario». È il concetto espresso in un trattato specialistico sul diritto ferroviario ma è di particolare rilevanza per comprendere l’opera letteraria, e soprattutto teatrale, di Betti, nella quale opera il riferimento a questioni di responsabilità è tutt’altro che infrequente. Nell’opera teatrale Frana allo Scalo Nord, troviamo un giudice che invano si sforza di accertare la responsabilità di un incidente mortale sulla scena di lavori edili in relazione alla costruzione di una nuova linea ferroviaria. Il fatto che il giudice, invece di pronunciare la sentenza, indichi la compassione, la pietà, come unica forma di giustizia accettabile per un’umanità che sbaglia e vacilla, dà qualche indicazione della distanza che separa la visione professionale della giustizia di Betti da quella che aveva come artista e poeta.

E infatti, per tutta la sua vita, Betti fu sottoposto a impulsi contrastanti, tirato da un lato dalla professione legale e dall’altro verso la letteratura. Durante gli anni Venti, attenuatosi il suo interesse per il diritto ferroviario, ottenne la nomina a pretore nella cittadina di Bedonia, in provincia di Parma, e prestò servizio nella stessa veste in diversi altri piccoli centri della stessa regione prima di diventare magistrato nella stessa Parma. Allo stesso periodo appartiene la pubblicazione del suo primo volume di versi (Il Re pensieroso, del 1922, raccolta di poesie che aveva scritto durante il periodo trascorso come prigioniero di guerra) e del suo primo volume di racconti (Caino, 1928), così come la composizione delle sue prime tre opere teatrali (La padrona, 1926; La casa sull’acqua, 1928; L’isola meravigliosa, 1929).

Né la sua attività letteraria divenne meno intensa dopo il 1930, l’anno del suo matrimonio e del suo trasferimento a Roma in seguito alla nomina a giudice della Corte d’appello. Si era nel pieno della dittatura fascista, e l’indipendenza della magistratura era abbondantemente traballante; quando, nel 1943, il crollo del regime fascista portò a una faticosa riedificazione democratica con più attenzione alla separazione dei poteri, la carriera di Betti in magistratura si concluse prematuramente, e negli anni che seguirono fu oggetto di molti biasimi e censure per il sostegno che aveva occasionalmente espresso, in interviste ai giornali prima della guerra, al governo fascista. Tuttavia Betti non fu mai un fascista attivo, e non c’è traccia di propaganda politica o di retorica in stile “regime” in nessuna delle sue opere teatrali, poesie o racconti.

Gli ultimi anni della vita di Betti non presentano avvenimenti particolarmente significativi. Dopo il suo ritiro dalla magistratura, lavorò brevemente come archivista e bibliotecario in quello stesso palazzo di giustizia dove aveva precedentemente occupato una posizione certamente più prestigiosa, il che probabilmente spiega perché, nelle sue ultime opere teatrali, ci siano occasionali riferimenti agli archivi legali, che uno dei suoi personaggi (in Corruzione al palazzo di giustizia, 1944-5) descrive come un cimitero, verso il quale il carrello dell’archivista trasporta ogni giorno una nuova spedizione di fascicoli chiusi, come un carro funebre che trasporta i corpi dei defunti. In un’altra delle sue opere teatrali (Acque turbate, 1948-9), il personaggio principale è un funzionario statale che viene relegato, come capitò allo stesso Betti, in una posizione di minore importanza a causa di una purga seguita a un cambio di governo. Corruzione al Palazzo di Giustizia è la sua opera più nota e gli valse il premio dell’Istituto Nazionale del Dramma nel 1949 e il Premio Roma nel 1950.

Negli ultimi anni della sua vita, Betti agì come consulente per le questioni legali presso la S.I.A.E. (Società Italiana Autori ed Editori), il cui ufficio era a poche porte di distanza dal suo appartamento in Via Valadier a Roma, dopo aver fondato assieme a Massimo Bontempelli e Sem Benelli il Sindacato Nazionale Autori Drammatici.

Ma ormai dedicava la maggior parte delle sue energie mentali alla scrittura di opere teatrali e di numerosi articoli per la “terza pagina” di vari quotidiani. Tuttavia nel 1950 ebbe la nomina a consigliere di Corte d’Appello ed entrò a far parte dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. Scrivere era, tuttavia, un’occupazione prevalentemente mattutina e i suoi pomeriggi li trascorreva quasi sempre sui campi da tennis. In gioventù, Betti era stato uno sportivo completo di notevole abilità, avendo giocato a calcio partendo dalle formazioni giovanili del Parma; sembra che la sua parte nell’ideazione della nota maglia della squadra di calcio del Parma – croce nera in campo bianco – non sia stata secondaria. La sua passione per lo sport rimase inalterata fino all’insorgere della malattia che lo avrebbe condotto a morte. Aveva iniziato a giocare a tennis nel 1937. Era autodidatta e il suo stile era poco ortodosso, ma si esercitava con tale regolarità e determinazione che persino a sessant’anni fu incluso dall’Associazione Italiana Tennis su Prato nella sua lista ufficiale dei giocatori di terza categoria, una classifica che molti giocatori più giovani avrebbero guardato con invidia.

Quando Ugo Betti morì per un tumore alla gola all’età di sessantuno anni il 9 giugno 1953, la somma totale dei suoi scritti pubblicati comprendeva tre volumi di poesie oltre alla traduzione di Catullo, tre volumi di racconti, un romanzo, vari saggi e articoli e ventuno opere teatrali complete. Un ulteriore gruppo di poesie (Ultime liriche) e quattro ulteriori opere teatrali (Favola di Natale, Acque turbate, L’aiuola bruciata e La fuggitiva) furono pubblicati postumi.

Il critico Giuseppe de Robertis non fu benevolo verso Butti poeta: nel suo volume di saggi Scrittori del novecento mette in dubbio la sincerità dell’ispirazione e sottolinea l’artificiosità dei suoi versi. Ma il suo saggio è del 1937, e forse le opere di poesia migliori di Betti sono successive, radunate in Ultime Liriche, tra le quali critici come Eurialo De Michelis e Arnaldo Bocelli individuano «alcuni degli esemplari più perfetti di versi italiani contemporanei».

Per quanto concerne gli scritti narrativi Betti si è espresso quasi esclusivamente per mezzo del racconto breve, genere letterario che ha lunga e nobile tradizione in Italia, da Verga a Svevo, da Buzzati a Calvino. Nei suoi racconti Betti delinea con efficacia la “Weltanschauung” che caratterizza poi la sua attività certamente più importante di drammaturgo. Per questo, anche se forse aggiungono poco di originale alla tradizione narrativa italiana, tuttavia portano i valori tradizionali di stile e contenuto su un piano drammatico molto moderno e i suoi personaggi, in genere “poveri diavoli”, assumono un rilievo esemplare facendo spesso leva sulla povertà e una vita miserabile come potenti fattori per dipingere il pessimismo che colora la maggior parte delle storie. Pessimismo molto diverso da quello di Pirandello, che mette sotto la luce delle sue indagini una sezione trasversale più ampia e completa dell’umanità, o di Verga, i cui romanzi e racconti descrivono una società in stato di decadenza a tutti i livelli; tuttavia una qualche affinità con il secondo si può rintracciare nella narrativa di Betti.

L’unico romanzo di Betti è stato La Piera Alta, pubblicato nel 1948. Pare che originariamente fosse stato concepito come una sceneggiatura cinematografica, cosa che forse giustifica la sua relativa brevità e alcune vizi di natura tecnica. Qui lo scrittore si lascia alle spalle i deprimenti isolati di case popolari urbane in cui è ambientata la maggior parte delle sue novelle, per respirare invece l’aria sana di una valle montana.

Ma è come drammaturgo che Betti lascia il segno più importante e duraturo nella letteratura del XX secolo. Silvio D’Amico, il principale critico teatrale della generazione di Betti, non ha mai avuto dubbi sulla qualità notevole del lavoro teatrale di questo autore. Ma il riconoscimento quasi unanime lo ebbe solo nel dopoguerra dopo che due suoi drammi erano stati rappresentati con successo a Parigi.

In molte sue opere Betti, per sua stessa ammissione, cerca di “dimostrare l’esistenza di Dio”. Tuttavia, pur non mancando mai l’elemento religioso nei suoi drammi, corre sempre in parallelo con questo il tema della Giustizia, che risulta essere il motivo conduttore principale e sempre vibrante in tutta la sua opera teatrale. La giustizia umana, con tutta la sua intrinseca fallibilità, è vista come un elemento necessario dell’ordine sociale, ma rimane comunque la più flebile ombra di quella giustizia superiore e perfetta per cui l’umanità ha un desiderio insaziabile. Ma il massimo livello che è possibile raggiungere è quello di un reciproco sentimento di tolleranza e compassione. Quando scrisse la prefazione per il suo primo dramma del 1926, La Padrona – che vinse il premio patrocinato dalla rivista romana “La scimmia e lo specchio” – stampato la prima volta nel 1929, Betti espose in maniera succinta ma efficace il filo conduttore che legherà tutta la sua opera. Betti è pienamente consapevole, come Pirandello e a differenza di D’Annunzio, della netta distinzione che esiste tra vita e arte, è acutamente consapevole del contrasto tra l’innato desiderio dell’uomo di armonia e giustizia da un lato e il suo inalterabile egoismo dall’altro, ed è fortemente attratto dalla convinzione che esista una divinità che plasma i nostri fini, anche se un esame imparziale delle motivazioni umane suggerisce spesso una conclusione diversa. Il suo dannunzianesimo espresso nelle prime poesie e all’inizio del suo percorso letterario è quindi superato. Lo afferma lui stesso nella già citata prefazione scrivendo: «questi brividi fermati come farfalle ad uno spillo d’oro, tutte queste fosforescenze che pure qualche volta m’hanno sorpreso» gli sembrano adesso testimonianza esclusiva della preoccupazione di vantare la propria intelligenza, mentre lui adesso può affermare che ciò che è veramente importante è «tutto il resto»: «la nostra fatica, il nostro amore, e la gioia, che talvolta sentiamo allargarsi dentro di noi come una sorsata calda, e soprattutto il dolore, così reale, anche quello che non deriva da una ferita fisica, che qualche volta m’è parso proprio di poterlo premere con la mano qui dentro; e poi gli istinti, i bisogni, e tutte le condanne che portiamo sopra le spalle, e questa implacabile ombra del tempo, che sale lentamente sopra noi, e il nostro lavoro, e il nostro pane, e la morte, della quale bisogna pure ricordarsi: perché vogliamo pensare anche alle cose che ci sgomentano, senza di che ci sentiremmo indegni di questa grave corona sul nostro capo, che è la coscienza.» Ecco che risulta quindi evidente la stretta relazione tra questo “catalogo” di cose importanti e l’intera opera letteraria – e soprattutto teatrale – di Betti.

Fonti:

  • Centro studi internazionali Ugo Betti, Ugo Betti. Viaggio nella memoria 1892-1953. Roma 2001.
  • P. Quazzolo [a cura di], Ugo Betti. Un intellettuale tra diritto, letteratura, teatro e nuovi media. Trieste 2022.
  • S. D’amico, Palcoscenico del dopoguerra. Torino 1953.
  • A. Fiocco, Ugo Betti. Roma 1954.
  • A. Di Pietro, L’opera di Ugo Betti. Bari, 1966.
  • G. H. McWilliam, Introduction, in Two plays. Manchester University Press, 1963.

Note biografiche a cura di Paolo Alberti

Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)

  • Novelle edite e rare
    Questa ricca raccolta di novelle di Ugo Betti, edita nel 2001 dopo un ampio lavoro filologico di cura, riunisce tre raccolte edite precedentemente ed altri testi sparsi, offrendo a lettrici e lettori quasi l’intero corpus narrativo, sempre di profondo interesse e di piacevole lettura, di un autore, noto, ingiustamente, soprattutto in qualità di drammaturgo.
  • Il re pensieroso
    È innegabile l’abilità dell’autore di riportare chi legge le poesie di questa raccolta all’atmosfera dei racconti delle fate, nelle quali sono presenti le note fiabesche ma anche un clima di mistero, di inquietante pericolo. I versi sembrano rielaborazioni di filastrocche popolari soprattutto toscane.
 
autore:
Ugo Betti
ordinamento:
Betti, Ugo
elenco:
B