Margherita Pusterla nata Visconti (Milano, XIV secolo – 1341) è stata una nobile italiana.
Figlia di Uberto Visconti, Margherita sposò nella prima metà del XIV secolo il nobile Francesco Pusterla, membro di una delle più importanti famiglie patrizie milanesi. È la protagonista di un romanzo storico di Cesare Cantù, dal titolo omonimo, che la rese famosa, e di un dramma anonimo in sei atti di inizio Novecento.
Margherita pagò cara la sua bellezza, che attirò l’interesse di molti uomini, in particolare quello del cugino Luchino Visconti. Questo, una volta salito al potere e divenuto signore di Milano, cercò più volte di approfittarne. Venuto a conoscenza del comportamento di Luchino Visconti, Franciscolo Pusterla, marito di Margherita, per vendicarsi, organizzò una congiura contro di lui, assieme ad altre famiglie nobili milanesi, tra cui gli Aliprandi.
Scoperta la congiura, il Visconti imprigionò la famiglia Pusterla (composta da Margherita, Franciscolo e il loro figlio Venturino), e successivamente li fece decapitare. Nel romanzo, a questa storia principale se ne intrecciano altre, come per esempio quella di frà Buonvicino, il quale da giovane s’innamorò di Margherita, che lo rifiutò con grazia. Buonvicino seguì quindi la vocazione e diventò un frate colmo di fede e carità.
Sarà proprio lui ad assistere Margherita nei giorni precedenti alla sua esecuzione. Un altro personaggio di rilievo è Alpinolo, devoto servitore di Margherita e scudiero di Franciscolo, che cerca di farli evadere dal carcere, finendo anch’egli giustiziato. Poco prima della morte scoprirà chi era suo padre.
Il romanzo ottocentesco Margherita Pusterla di Cesare Cantù può esser paragonato in più punti al famoso romanzo storico del contemporaneo Manzoni: “I Promessi Sposi”.
Note tratte da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Margherita_Pusterla
Dall’incipit del libro:
Nel 1834 l’autore di questo libro trovavasi nelle prigioni di Stato dell’Austria. Il suo processante, Paride Zajotti, trentino, era letterato, e però conscio del tormento che maggiore dar si può ad un letterato, quel di privarlo di ogni mezzo di leggere e di scrivere. Brutalità tanto peggiore in quanto, al fine dell’inquisizione, si dovette dichiarare che non reggevano alla prova neppure gli indizj e i sospetti, pei quali era stato sì lungamente carcerato; e in quanto agli altri detenuti non letterati si permetteva perfino di abbonarsi a gabinetti di lettura. In quella atroce solitudine, il Cantù trovò modo di farsi dell’inchiostro col fumo della candela, penna cogli steccadenti; e su carte straccie, dategli per altri usi, scrisse il presente romanzo. Egli si ricordava del fatto in di grosso e dei tempi: gli mancavano i nomi proprj e le date sicure, talchè i personaggi nacquero con nomi suppositizj, siccome variarono alcune circostanze di fatto allorchè, sprigionato, potè limare il suo lavoro, e dopo lunga quarantena alla censura di Vienna, perchè la censura milanese non credette poterlo ammettere, il diede alla stampa.
Questi fatti non importano al pubblico, eppure sono tutt’altro che indifferenti per intendere molte parti del lavoro, nel quale l’autore volle ritrarre, o forse non volendo, ritrasse i proprj patimenti e le proprie consolazioni sotto figura altrui, mentre Silvio Pellico aveva in persona dipinto i suoi.
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