Dall’incipit del libro:
Alcuni tentativi di organizzare unità combattenti sulle montagne, in modo indipendente dal Comitato di liberazione nazionale, ci offrono l’occasione di esaminare un atteggiamento che può esercitare qualche influenza sulla gioventú, specialmente studiosa.
La bandiera cui si appellano i promotori di questi organismi è l’apoliticità o meglio l’«antipartitismo». «Non vogliamo – essi affermano – sentir parlare di partiti. C’è un partito unico che è la patria, una sola parola d’ordine: la cacciata dei tedeschi. Ogni discussione politica non può che disperdere forze che sarebbero preziose sul terreno concreto della lotta partigiana.»
Noi non vogliamo scendere nell’esame dettagliato di queste organizzazioni e della loro attività (e, per quanto ne riferiscono le cronache, mancanza di attività), non vogliamo, per ora, disconoscerne la buona fede, ma, tuttavia, vogliamo dimostrare come l’atteggiamento da esse assunto, lungi dal promuovere l’unità delle forze sane, determini invece scissioni e, giocando sull’inesperienza di larghi strati giovanili, possa mascherare manovre reazionarie.
Si fonda, essenzialmente questo atteggiamento, su una sottovalutazione della funzione dei partiti nella presente congiuntura e si richiama, forse inconsciamente, a certe situazioni del nostro Risorgimento e specialmente alla formazione della Società nazionale nel 18571. Ma sono richiami astratti dalla realtà storica e ad essi sfugge la profonda differenza tra il moto nazionale del decennio cavouriano e il moto che tende a restituire indipendenza, unità e libertà all’Italia di oggi.














