Castelvetro rimase chiaramente scioccato dalla parzialità degli Inglesi per la carne ed una dieta povera di verdure verdi ma ricca di zuccheri. Pertanto si accinse a scrivere il Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano (1614). Il manoscritto, redatto in italiano, circolò fra i suoi sostenitori. Come molti italiani, egli era appassionato di giardinaggio.
All’epoca in cui scriveva, il palato britannico stava solo iniziando ad assorbire i sapori culinari del continente. Aspetti della cucina francese e olandese erano stati assimilati dalla cucina britannica ma le abitudini alimentari erano ancora incentrate sul consumo di grandi quantità di carne. L’entusiasmo di Castelvetro per una dieta varia precedette il trattato di John Evelyn, del 1699, che parimenti esortava gli Inglesi a mangiare più verdure in insalata.
Il trattato di Castelvetro è una miniera di informazioni storiche sulla società italiana del diciassettesimo secolo. È inframmezzato di minute osservazioni ed aneddoti tratti dalla sua vita a Modena e Venezia. Menziona l’apprendimento del nuoto da parte di bambini nel Brenta attaccati ad enormi zucche come salvagenti. Parla inoltre di sciacquette tedesche, dame veneziane ed intime conversazioni con reali scandinavi.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Giacomo_Castelvetro
Dall’incipit del libro:
Più volte meco medesimo pensando e sottilmente quante cose al vivere umano giovevoli questa nobile nazione da un cinquanta anni in qua s’abbia apparato a seminare e a mangiare dal concorso di molti popoli rifuggiti in questo sicuro asilo per ischermirsi e per salvarsi da’ rabbiosi morsi della crudele et empia Inquisizione romanesca, le quali erano prima da quella come cattive a mangiare sprezzate e come nocive alla salute de’ corpi loro aborrite, mi son grandemente maravigliato di vedere che oggidì molti ancora, o per trascuraggine o per ignoranza, assai altre di seminare si rimangano, le quali pure non son men buone a mangiare né meno salutifere a’ corpi nostri che quelle si sieno; il veder poi alcuni pure alcune di queste seminare, ma non già per voglia di cibarsene, ma sì più tosto spinti da vaghezza di riempire i colti loro di varie qualità d’erbe ciò farsi. Queste considerazioni adunque han mosso me a cercar di porre per iscritto (al meglio mi saprò ricordare) non solo il nome di tutte quelle radici, di tutte quelle erbe e di tutti que’ frutti, che nella civile Italia si mangino, ma ancora di mostrare come, per trovare le predette cose buone, si vogliono cuocere, e in compagnia di che, crude, s’usino a mangiare, acciò che, per falta di questo, non s’astengan più da seminarle né da mangiarle. Sì che, per dar principio a questa mia per aventura non afatto disutile fatica, comincierò, col nome di Dio e con un ardente desio di giovare al prossimo mio, da quelle erbe che nella verdeggiante e vaga primavera prima fuori della terra appaiono.

