Giuseppe Pietro Giacomo Cava nacque a Savona il 12 marzo 1870. Il padre, Antonio, era meccanico presso lo stabilimento Tardy e Benech, fu combattente nelle guerre d’indipendenza, in seguito alle quali ebbe riconoscimenti e decorazioni. La madre, Elisabetta Viola, lavorava come sarta e stiratrice. La vita familiare era serena e ricca di affetti.
Nel 1876 iniziò le scuole elementari presso i Padri Scolopi. Conseguita la licenza elementare, si iscrisse alla Scuola Professionale d’Arti e Maestri diretta dal prof. Federico Baldi che in futuro considerò sempre suo Maestro serbando sentimenti di grande riconoscenza.
Al termine degli studi trovò impiego nello stesso stabilimento dove aveva lavorato il padre. Qui entrò per la prima volta in contatto con le istanze del movimento operaio formando la sua coscienza, dapprima da anarchico e poi socialista.
Ma il lavoro in fabbrica lo condusse a un grave infortunio. Lubrificando un macchinario (una locomotiva adibita a trasporto interno dello stabilimento, alla cui conduzione era preposto), cadde producendosi una grave ferita ad una gamba. La degenza dapprima nell’ospedale civile di Savona e successivamente all’ospedale «Duchessa di Galliera» di Genova, dove fu trasportato all’apparire dei primi sintomi di infezione, fu lunga e dolorosa. Fallito ogni altro tentativo ai medici non rimase che ricorrere all’amputazione dell’arto.
Nonostante la gravità di un fatto simile e in così giovane età , Beppin da Cà , come fu chiamato in seguito, grazie ad una volontà decisamente fuori dal comune, seppe riprendersi e dedicarsi all’apprendimento di un nuovo mestiere. Sotto la guida di Stefano Ciarlo, uno tra i più esperti professionisti savonesi, apprese quindi il mestiere di tipografo.
Da questo, e abbastanza in linea coi tempi nei quali spesso la figura del tipografo tendeva a identificarsi con quella del giornalista, soprattutto per quel che riguarda i giornali locali, venne lo stimolo a iniziare l’attività di scrittura.
Meticoloso come sempre e consapevole dei propri limiti culturali, riprese a studiare soprattutto con particolare attenzione alla storia e alla letteratura. Ma scrivendo di temi inerenti alla vita quotidiana non dimenticò quello che aveva maturato nell’esperienza di fabbrica, e utilizzò i suoi scritti per affrontare le tematiche relative alle condizioni di lavoro dell’operaio.
Cava si costruì quindi un posto non trascurabile nella storia del movimento operaio savonese dell’ultimo ventennio dell’800. Come già detto, militò dapprima nell’ambito del movimento anarchico, fondando a Savona il fascio operaio assieme ad Angelo Moneta, e organizzando il primo maggio 1891 la prima manifestazione savonese per quella ricorrenza; mitigò poi le sue idee rivoluzionarie e si avvicinò al Partito Socialista e, forse maggiormente, al Partito radicale, anche in conseguenza della sua ammirazione per la figura di Felice Cavallotti, la cui morte, nel 1898, aveva suscitato nel Cava profonda emozione. Non abbandonò tuttavia mai il suo spirito libertario e nemico di ogni tirannide.
La figura del giovane Cava emerse, dunque, ben presto, dal quadro grave e contemporaneamente pittoresco costituito dagli eventi politici e sindacali dell’epoca.
L’8 maggio 1894 fu condannato dal Tribunale di Savona a sei mesi di carcere e lire cento di multa per avere partecipato ad una riunione anarchica, in un casetta sul colle di Cadibona. Per evitare l’arresto decise di lasciare l’Italia viaggiando in Francia, Germania e Svizzera, dove maturò nuove esperienze politiche e culturali. Le autorità svizzere lo riconsegnarono comunque alla polizia italiana e Cava scontò la pena e trascorse un periodo di domicilio coatto.
Tornato a Savona, aprì una piccola tipografia e iniziò nel 1902 la pubblicazione de «Il Marciapiede» settimanale politico-amministrativo illustrato, nel quale sottoponeva a critica arguta e spietata i protagonisti della politica e della cultura savonese dell’epoca. Le stesse illustrazioni erano curate dal Cava. Su questo settimanale comparvero le prime poesie in vernacolo savonese, dove la grafia era ancora incerta e priva di sistematicità , tendente a rispecchiare semplicemente la pronuncia. L’esperienza de «Il Marciapiede» si esaurì dopo cinque anni anche a causa dell’ostilità di cui era oggetto da parte dell’autorità che aveva ormai preso la decisione di far sorvegliare sistematicamente la tipografia.
Cava decise quindi di limitarsi semplicemente a fare il tipografo — tiene aperta la tipografia fino al 1924 — e, limitato ulteriormente nelle sue iniziative con l’avvento del fascismo, ad affinare maggiormente la sua attività di poeta dialettale. In questo suo allontanarsi dalla politica attiva ebbe un peso importante il susseguirsi di eventi da tristi (la rottura con la sua compagna) a luttuosi (la morte in età infantile dapprima del primo figlio, poi della figlioletta e infine del padre) che lo colpirono con ritmo incalzante.
Una delle ultime sue stampe è, nel 1923, un calendario (A strenna de Savunn-a) comprendente trentaquattro sue poesie in dialetto.
Confrontando la grafia di alcune poesie tra questa edizione del 1923 e il volume del 1930, si notano inequivocabili scelte grafiche e linguistiche alle quali era pervenuto il poeta.
Il 1930 fu infatti l’anno nel quale venne pubblicata la sua prima raccolta di liriche con il titolo «In to remoin» (Nel vortice). Fu un grande successo, agevolato anche dalle opinioni positive di noti poeti, tra i quali Angiolo Silvio Novaro e Angelo Barile e dalla recensione positiva di uno studioso come Filippo Noberasco.
Soprattutto nelle sette poesie dedicate alla scomparsa prematura della figlioletta Thea la critica riscontrò gli elementi per considerare la poesia di Cava “pura elegia”. Scrive Francesco Marengo, noto poeta dialettale savonese, in una lettera del 1946 indirizzata al figlio di Giusppe Cava:
«È un canto che sgorga dall’anima profonda con getto spontaneo di grazia e venustà . V’è tutto il pathos del tormento lancinante che l’opprime. Il poeta commosso in questo si eleva più che nelle altre strofe. Ad onta della sua posa di ateo, qui c’è qualchecosa di mistico e di credente. Non mancai un giorno di farglielo osservare, rileggendo gli ultimi versi. Tentennò il capo, ma due grosse lacrime gli rigarono le gote. Il vecchio cuore dolorante gli parlava della sua Thea».
Sempre Marengo scrive: «I mirabili sonetti dialettali per la defunta figlia Thea non temono il confronto con i versi del Carducci che piangeva in Funere mersit acerbo e in Pianto antico il figlio Dante, al quale aveva avviticchiate tulle le sue gioie, tutte le sue speranze, tutto il suo avvenire; non lo cedono a Giuseppe Chiarivi che in Lacrimae piange pure il morto suo figlio in tenera età ».
Angiolo Silvio Novaro, in una lettera del 21 marzo 1931 diretta allo stesso Cava scrive: «Ella possiede una delicata sensibilità e vivezza di fantasia, ed una facoltà non comune di espressione, che pur sotto la rusticità della veste dialettale raggiunge effetti talvolta squisiti. Ora arguta, ora soave, ora sorridente, ora lagrimante, la sua Musa mi piace sempre, perchè sinceramente commossa e schiettamente umana».
Altri suoi componimenti in versi compaiono nel 1931 — con quelli di Marengo e Minuto — nel volume Cansonette savoneixi cantae da-a squaddra do Brandale.
Cessata l’attività tipografica intraprese quella di cartolaio e nel suo negozietto si industriava a riparare giocattoli. Anche in questo campo la sua ingegnosità non era banale… Un imprenditore svizzero gli fece proposte vantaggiose per poter sviluppare industrialmente alcune idee, ma il Cava rifiutò sempre, fedele al suo spirito di indipendenza.
Nel 1934 partecipò al terzo Concorso Canzonette, bandito dalla società savonese «A Campanassa», e lo vinse con Seia de Zenà , A tramontann-a e Serenata senza lunn-a.
Sempre nel 1934 iniziò un’attività più consona alle sue attitudini e interessi entrando a far parte del personale straordinario della Biblioteca Civica di Savona «A. G. Barrili».
Nel 1935 vinse un concorso, bandito dal Direttorio per la popolaresca dei costumi, con E stelle dò mae chéu.
Aveva ormai settant’anni, quando una sua opinione espressa in una discussione relativa alla guerra civile spagnola e al giudizio che ne dava un collega sostenitore del regime fascista, provocò una delazione, e in seguito un interrogatorio, al quale venne sottoposto da una speciale commissione d’inchiesta, affrontato dal Cava con grande dignità e determinazione perché non apparisse che la sua sistemazione presso la civica biblioteca potesse essere interpretata come tacita accettazione dell’intolleranza del regime.
Il 22 marzo 1938 la Prefettura intimò al Comune di provvedere al suo licenziamento, il che avvenne il 25 dello stesso mese.
Fu anche ammonito politicamente e soggetto a speciale sorveglianza.
Ridotto quindi in estrema povertà , intensificò la collaborazione a «Il Lavoro» che per l’interessamento di Umberto Cavassa e di Giuseppe Callandrone fu il solo giornale ad ospitare le sue pubblicazioni. Qui videro la luce quindi i suoi scritti, in italiano, sulla vecchia Savona e sui tipi più bizzarri della città . In dialetto scrisse alcune commedie, mai rappresentate.
Si cimentò anche nella esperienza per lui nuova del romanzo d’appendice. Ambientato negli Stati unititi venne pubblicato a puntate L’accusa infame nel 1939 e nel 1940 L’incatenata, ambientato nella riviera ligure.
Proprio nel momento in cui si era deciso a una riedizione del suo volume di poesie lo colse la morte, il 30 marzo 1940 dopo una breve degenza all’ospedale San Paolo. La riedizione, secondo le sue stesse parole, aveva comportato una «buona risciacquata in Bisagno, per quanto vi è di vocaboli in comune alle due parlate, senza togliere alle chiare acque del Letimbro il buon diritto di portare l’intero bucato alla definitiva nettezza e candore».
Il necrologio del 2 aprile 1940 su «Il Lavoro» fu scritto dal poeta Angelo Barile; vi si legge fra l’altro: «Alcune liriche del Cava sono tra le più belle scritte mai in dialetti d’Italia… Ma il destino dei poeti dialettali, specie di un dialetto come il nostro, così arduo e irraggiungibile ai “foresti”, non è un lieto destino. Più di tutti gli altri alunni delle muse essi cantano veramente “sibi et paucis”. La loro opera, il loro nome varca di rado i confini della provincia o della regione. I più fortunati hanno tuttavia il compenso di guadagnare in profondità – in profondità di affetto e di consenso nella loro terra natale – quel che non possono avere in larghezza di riconoscimenti.
Bibliografia:
Poesia
- In to remòin, Savona, Vacca, 1930; poi Sabatelli, Savona-Genova 1968.
- A tramontann-a, con 20 disegni originali di Gigi Caldanzano, Savona, Sabatelli 1992.
Prosa
- L’accusa infame, «Il Lavoro» (Genova), 1939
- L’incatenata, idem, 1940
- Vecchia Savona, Savona, Sabatelli, 1967
- Macchiette e osterie della vecchia Savona, con illustrazioni di Gigi Caldanzano, idem, 1968, poi 1975
- Te veuggio ben Savona-a, Savona, Marco Sabatelli, 2001 (a cura di Giovanni Farris).
Fonti:
- Sebastiano Amande: Giuseppe Cava, in In to remoin, Sabatelli, Savona-Genova 1968
- Federica Pastorino, Marilena Venturini; coordinamento di Francesco De Nicola: Dizionario degli scrittori liguri: (1861-2007); Genova, De Ferrari, 2007
- Giuseppe Milazzo, Giuseppe cava il poeta di Savona, Sabatelli, Savona, 2007.
Nota biografica a cura di Paolo Alberti.
Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)
- In to remoin
Versci in dialetto savoneize - Vecchia Savona