Marcus Tullius Cicero (Marco Tullio Cicerone; Arpino, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.) è stato un avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano.

Esponente di un’agiata famiglia dell’ordine equestre, Cicerone fu una delle figure più rilevanti di tutta l’antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica.

Attraverso l’opera di Cicerone, grande ammiratore della cultura greca, i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu senza dubbio la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano invece le Lettere (Epistulae, in particolar modo quelle all’amico Tito Pomponio Attico), che offrono numerosissime riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell’aristocrazia romana.

Cicerone occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina ed aver così ottenuto l’appellativo di pater patriae (padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza all’interno della fazione degli Optimates. Fu infatti Cicerone che, negli anni delle guerre civili, difese strenuamente fino alla morte una repubblica giunta ormai all’ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.

Marco Tullio Cicerone nacque il 3 gennaio del 106 a.C. in località Ponte Olmo, in prossimità della confluenza del fiume Fibreno nel Liri, nell’area attualmente occupata dall’Abbazia di San Domenico, oggi nel territorio di Sora ma all’epoca nel comune di Arpinum, antica città di collina fondata dai Volsci 100 chilometri a sud-est di Roma. Gli Arpinati avevano ricevuto la civitas sine suffragio già nel IV secolo a.C., e i pieni diritti di cittadinanza nel 188 a.C.; in seguito la città aveva ottenuto anche lo status di municipium. La lingua latina vi era in uso già da lungo tempo. Ad Arpino, tuttavia, era diffuso anche l’insegnamento della lingua greca, che l’élite senatoriale romana preferiva spesso a quella latina, riconoscendone la maggiore raffinatezza e precisione. L’assimilazione da parte dei Romani delle comunità italiche nelle vicinanze di Roma, avvenuta tra il II ed il I secolo a.C., rese possibile il futuro di Cicerone come scrittore, statista ed oratore.

Cicerone apparteneva alla classe equestre, la piccola nobiltà locale, e, anche se lontanamente imparentato con Gaio Mario, il leader dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla, non aveva alcun legame con l’oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus. La famiglia era composta dal padre Marco Tullio Cicerone il Vecchio, uomo colto ma di origine sconosciuta, dalla madre Elvia, di nobile casato e integri costumi, e dal fratello Quinto.

Il cognomen Cicero era il soprannome di un suo antenato abbastanza noto, che aveva un’escrescenza carnosa sul naso (presumibilmente una verruca), che ricordava nella forma un cece (cicer, ciceris è il termine latino per cece). Quando Marco presentò per la prima volta la sua candidatura ad un ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono l’utilizzo del suo cognomen, ma lui rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello degli Scauri e dei Catuli.»

Cicerone si rivelò subito un fanciullo dotato di straordinaria intelligenza, distinguendosi tra i suoi coetanei a scuola e accumulando fama e onore. Il padre, auspicando per i figli una brillante carriera forense e politica, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori del suo tempo, protettori della sua famiglia, Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio. Particolare influenza ebbe il primo su Cicerone, per cui rimase sempre modello di oratore e di statista. A Roma Cicerone poté anche formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola, eminente giurista. Tra i compagni di Cicerone c’erano Gaio Mario il giovane, Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, uno dei pochi che Cicerone considerò superiori a se stesso), e Tito Pomponio, che prese poi il cognomen di Attico dopo una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di Cicerone. In una lettera, infatti, gli scrisse: «Sei per me come un secondo fratello, un alter ego al quale posso dire ogni cosa».

In questo periodo Cicerone si avvicinò anche alla poesia cimentandosi nella traduzione di Omero e dei Fenomeni di Arato, che influenzarono, più tardi, le Georgiche di Virgilio.

Particolarmente attratto dalla filosofia, alla quale avrebbe dato grandi contributi, tra i quali la creazione del primo vocabolario filosofico in lingua latina, nel 91 a.C. incontrò, assieme all’amico Tito Pomponio (Attico), il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma. I due ne furono affascinati, ma solo Attico rimase per tutta la vita seguace della dottrina epicurea. Nell’87 a.C. conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare), e l’accademico Filone di Larissa, che esercitò in lui un’influenza profonda. Questi era infatti a capo dell’Accademia che Platone aveva fondato ad Atene circa trecento anni prima e Cicerone, grazie alla sua influenza, assimilò la filosofia platonica – pur rigettando, ad esempio, la teoria delle idee – arrivando spesso a definire Platone come il suo dio.

Poco tempo dopo, Cicerone incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo. Lo stoicismo era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto larghi consensi grazie all’enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla forza di volontà, che sposava gli ideali romani. Cicerone non adottò completamente l’austera filosofia stoica, ma preferì uno stoicismo modificato. Diodoto divenne poi un protetto di Cicerone, dal quale fu ospitato fino alla morte. Il filosofo, dimostrando la sua piena adozione dello stoicismo, continuò ad insegnare anche dopo la perdita della vista.

Il sogno di infanzia di Marco Tullio Cicerone era quello di “essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri”, in linea con gli ideali omerici. Cicerone desiderava dignitas ed auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga dei littori. C’era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, Cicerone era troppo giovane per approdare a qualsiasi carica del cursus honorum, ma non per acquisire l’esperienza preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. Tra il 90 a.C. e l’88 a.C., Cicerone servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra sociale, sebbene lui non provasse alcuna attrazione per la vita militare. Era prima di tutto un intellettuale. Infatti, molti anni dopo scrisse al suo amico Attico, che stava raccogliendo statue marmoree per le ville di Cicerone: “Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!”

L’ingresso di Cicerone nella carriera forense avvenne ufficialmente nell’81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell’oratoria a carattere politico, almeno secondo le testimonianze scritte a noi disponibili, si ebbe con la Pro Roscio Amerino, molto concitata ed a tratti enfatica, che conserva molto di scolastico nello stile esuberante. Qui Cicerone difese con successo un figlio ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio nell’assumersene la difesa: il parricidio era considerato tra i crimini peggiori, e i veri colpevoli dell’omicidio erano sostenuti dal liberto di Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin troppo facile eliminare Cicerone, proprio alla sua prima apparizione nei tribunali.

Cicerone divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio e tentò di provare che non era stato lui a commettere l’assassinio; nella seconda, attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine – tra cui anche un parente dello stesso Roscio – e dimostrò come l’assassinio favoriva più quelli che Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di Roscio era stato assassinato per ottenere i suoi terreni ad un prezzo conveniente, una volta messi all’asta. In forza di queste argomentazioni, Roscio fu assolto.

Per sfuggire ad una probabile vendetta di Silla, tra il 79 ed il 77 a.C. Cicerone si recò, accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall’amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia ed in Asia Minore. Particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene. Qui incontrò nuovamente l’amico Attico che, fuggito da un’Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia. Egli era poi diventato cittadino onorario di Atene e poté presentare a Cicerone alcune tra le più importanti personalità ateniesi del tempo. Ad Atene, inoltre, Cicerone visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare dall’Accademia di Platone, di cui era allora capo Antioco di Ascalona. Di quest’ultimo Cicerone ammirò la facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee filosofiche, ben differenti da quelle di Filone, delle quali era convinto ammiratore. Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, Cicerone tornò in Grecia, dove fu iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto, e dove poté visitare l’Oracolo di Delfi. Qui domandò alla Pizia in quale modo avrebbe potuto raggiungere la gloria, ed ella gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo istinto, e non i suggerimenti che riceveva.

Tornato a Roma dopo la morte di Silla (avvenuta nel 78 a.C.), Cicerone diede inizio alla sua vera e propria carriera politica, in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C. si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum. I questori, eletti in numero di venti, si occupavano della gestione finanziaria, o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica per la città di Lilibeo (l’odierna Marsala), nella Sicilia Occidentale, svolse il lavoro con scrupolo ed onestà tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti del luogo. Durante la sua permanenza in Sicilia visitò a Siracusa, la tomba di Archimede. Grazie all’interesse di Cicerone per lo scienziato siracusano sono in nostro possesso alcune importanti informazioni su di lui e in particolare la migliore testimonianza sul suo planetario. Al termine del mandato, i Siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, reo di aver tiranneggiato l’isola nel triennio 73-71 a.C. Cicerone raccolse con zelo le prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari (Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l’ex governatore, oberato da prove schiaccianti, scelse l’esilio volontario. Le cinque orazioni preparate per le successive fasi del processo (che costituiscono l’Actio secunda) furono pubblicate più tardi e costituiscono un’importante prova del malgoverno che l’oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme sillane. Attaccando Verre, Cicerone attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta, ma non l’istituzione senatoria, anzi fece proprio appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i membri indegni. Acquisì, inoltre, un enorme prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il più grande avvocato dell’epoca: “sconfitto”, Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse preso da Cicerone. Nonostante l’episodio, i due strinsero poi un buon legame di amicizia. Ad Ortensio, anzi, che elogiò anche nel Brutus, Cicerone dedicò un’intera opera, non pervenutaci, l’Hortensius.

L’oratoria e l’attività forense erano, a Roma, uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti, in quanto non esistevano documenti scritti di argomento politico, ad eccezione degli Acta Diurna, che godevano di scarsa diffusione.

Contro Cicerone, però, rimaneva la naturale diffidenza dei nobili verso chi era un homo novus, accresciuta dal fatto che l’ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico era stato il concittadino dello stesso Cicerone, Gaio Mario. Anche lo stesso Silla, tuttavia, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni provvedimenti che permettevano e facilitavano l’ingresso degli equites alla vita politica, dando così a Cicerone la possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum.

Il successo ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un governo umano ed ispirato ad onestà e filantropia, portò Cicerone in primo piano sulla scena politica: nel 69 a.C. venne eletto alla carica di edile curule (all’età di 37 anni), nel 66 a.C. diventò pretore con una elezione all’unanimità (a 40 anni). Nello stesso anno pronunciò il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra mitridatica. In questa occasione Pompeo era appoggiato dai cavalieri, interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli era contraria la maggioranza del senato. Il motivo dell’impegno di Cicerone in una causa ostile all’alta aristocrazia (che d’altronde era restìa ad accoglierlo tra le proprie file) sta nell’importanza che essa aveva per i pubblicani e gli affaristi, minacciati nei loro interessi da Mitridate VI. La provincia dell’Asia Minore, minacciata dal sovrano del Ponto, era, infatti, particolarmente attiva dal punto di vista dell’economia e del commercio.

Nel 65 a.C. Cicerone presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console per l’anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal fratello Quinto in un’opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso Cicerone?), Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale. Per un gioco delle classi, Cicerone risultò eletto con il voto di tutte le centurie. Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio Ibrida, zio di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell’arpinate, accusato dallo stesso Cicerone (In toga candida, orazione – pervenutaci in condizioni frammentarie – tenuta in senato come candidato poco prima delle elezioni del 64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina. La fiducia riposta in Cicerone dalla classe equestre venne ripagata già all’inizio del consolato con la pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la proposta di redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio Rullo.

Durante il proprio consolato Cicerone dovette contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina. Questi era un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con probabili brogli elettorali e infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica. Catilina contava soprattutto sull’appoggio della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell’ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad assumere un potere monarchico o quasi. Venuto a conoscenza del pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio, Cicerone fece promulgare dal senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli. Sfuggito poi ad un attentato da parte dei congiurati, Cicerone convocò il senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria.

Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.

Grazie alla collaborazione con una delegazione di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, Cicerone poté però trascinare anche Lentulo e Cetego davanti al senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati in modo del tutto fittizio, e i documenti caddero nelle mani di Cicerone. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, ed avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte.

Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio 62, in battaglia assieme al suo esercito.

Cicerone, che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la salvezza dello stato (si ricordi il famoso verso di Cicerone sul suo consolato: Cedant arma togae, trad: “che le armi lascino il posto alla toga [del magistrato]”), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l’appellativo di pater patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l’appello al popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo.

A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e pubblicani, e dell’accordo tra Cesare e Pompeo ai danni dell’oligarchia senatoria, Cicerone scivolò da parte. L’ultima possibilità di rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione dell’accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a Cicerone di appoggiare la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. Cicerone, tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell’aristocrazia, ma anche per l’attaccamento all’ordine legale e sociale di cui gli ottimati si proclamavano difensori.

Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all’inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio, fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all’esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in realtà, di un’abilissima mossa politica di Cesare (che per l’appunto prima di partire per la Gallia attese che Cicerone fosse fuggito da Roma) che, attraverso il suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più tenaci, che lo avrebbero potuto osteggiare durante la sua ascesa al potere. Cicerone fu dunque processato per la sua condotta durante il processo ai Catilinari Lentulo e Cetego ma, costretto all’esilio, non si diede pace, implorando le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che Cicerone non si potesse neppure avvicinare al confine dell’Italia, e che le sue proprietà venissero confiscate. In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, ed una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum. Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo a Cicerone di tornare e ricominciare la sua lotta contro il tribuno della plebe.

Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l’orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico: l’alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica. Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares. Possidenti e plebe si scontravano con l’uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio. Al processo per omicidio, tenutosi nel 52 a.C., Cicerone difese Milone, ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio nel foro, Milone venne condannato all’esilio (una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando modo di verificare come fosse un’orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico).

Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso, nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia, proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell’oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo che spingeva Pompeo all’intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Quando Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l’Italia per unirsi a Pompeo. Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C..

La speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne troncata dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere. L’oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico ed oratorio. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una giovinetta.

Quando Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso Cicerone, si avviò una nuova fase politica, che avrebbe avuto termine solo con l’avvento dell’impero.

Cicerone non fu, certamente, colto di sorpresa dall’assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l’uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò Cicerone definendolo l’uomo che avrebbe ristabilito l’ordine nella repubblica.

Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per congratularsi dell’assassinio di Cesare.

La data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla congiura. L’espressione « quid agas quidque agatur » la indicherebbe come scritta prima che Cicerone si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio dopo l’assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e protetti dai gladiatori di Bruto.

Cicerone, infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori leader della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma Cicerone fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva l’impunità a Bruto e Cassio. Poco dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.

Tra Cicerone ed Antonio, comunque, i rapporti non erano dei migliori, e i due, d’altra parte, si trovavano all’esatto opposto in ambito politico: Cicerone era il difensore degli interessi dell’oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico ed incostituzionale. Intanto, un’altra figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e suo erede designato nel testamento. Ottaviano decise di adottare una politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.

Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l’ordine. Cicerone sperava, infatti, nell’affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso Cicerone, riportasse la pace e riformasse la repubblica. Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.

Tornato a Roma, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l’agonizzante repubblica, e l’allontanamento dal senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente. Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di riforma della repubblica. Cicerone fu costretto ad accettare che sarebbe ora stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest’ultimo, allora, nonostante l’opposizione di Ottaviano, decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.

Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome Filologo, poterono trovarlo fin troppo facilmente. Cicerone, accortosi dell’arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche, che furono esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori del triumvirato.

Una volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone, come collega per il consolato, e proprio Marco comminò le pene di Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.

Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che leggeva le opere di Cicerone, gli prese il libro, e ne lesse una parte. Una volta che glielo ebbe restituito, disse: “Era un saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria”.

Fonti

Note biografiche a cura di Pier Filippo Flores.

Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)

  • Il Catone Maggiore, di Marco Tullio Cicerone
    Ovvero Dialogo intorno alla vecchiezza fra Catone, Scipione e Lelio, dedicato a Tito Pomponio Attico
  • Della natura degli dei
    Cicerone orchestra una conversazione tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza.
 
autore:
Marcus Tullius Cicero
ordinamento:
Cicero, Marcus Tullius
elenco:
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