Pietro della Valle nacque a Roma nel 1586 da una nobile famiglia capitolina. Di intelligenza precoce e di versatile apprendimento, si diede ad accurati studi letterari sotto la guida di insegnanti privati, ma mise presto in luce un’indole irrequieta, egocentrica e intraprendente, che nel 1611, a venticinque anni, lo fece partecipare con valore a una spedizione spagnola contro i pirati turchi che occupavano le isole Kerkennah sulla costa orientale della Tunisia. Cardine della sua formazione fu però l’amicizia che strinse con Mario Schipani (Schipano nella grafia coeva), un naturalista calabrese e protomedico a Napoli, studioso di erbe e piante esotiche e buon conoscitore della lingua araba, oltre che poeta dilettante. Il Della Valle lo conobbe dopo aver girovagato per qualche tempo nelle regioni del centro Italia e aver trasferito nel 1609 la residenza nella città partenopea in seguito a un prolungato e infelice amore per una giovane della nobiltà romana, forse di nome Beatrice e non altrimenti nota.
Le conversazioni politiche e culturali con lo Schipani e con alcuni orientalisti nello stimolante ambiente napoletano, assieme alle innate curiosità geografiche, etniche e linguistiche lo indussero a intraprendere un pellegrinaggio in Terrasanta lungo un itinerario che, principiato da Costantinopoli, avrebbe avuto la Persia come meta finale, e nel corso del quale egli avrebbe relazionato l’amico con periodici ragguagli epistolari. Oltre al dichiarato scopo di accrescere le glorie familiari e di autocelebrarsi, la volontà di concludere il viaggio in terra persiana poggiava sul personale convincimento che fosse indifferibile una guerra di coalizione contro l’invasivo impero ottomano, barbaro anticristiano e spregiatore degli elementari diritti della dignità umana, e che l’unico condottiero capace di condurla vittoriosamente fosse lo scià di Persia Abbàs il Grande, allora considerato il più temibile avversario dei turchi e con cui era risoluto a conferire.
Dotato di cospicue disponibilità finanziarie che gli permisero di selezionare un folto corteo di accompagnatori (compreso perfino un provetto disegnatore), si imbarcò ventottenne a Venezia nelle vesti di pellegrino l’8 giugno 1614, toccò Zante, navigò in prossimità del Peloponneso, vide i siti legati alle memorie di Troia e giunse a Costantinopoli, ove soggiornò per più di un anno per formarsi adeguate conoscenze sulla civiltà e sulla lingua turca, ospite dell’ambasciatore francese. Ne ripartì il 25 settembre del 1615, dirigendosi a Rodi e ad Alessandria, per risalire il Nilo dal ramo di Rosetta e arrivare al Cairo; da qui fece diverse escursioni in terra egiziana, e non mancò di esplorare approfonditamente le piramidi e la sfinge, con puntate nell’area di Saqqara alla ricerca e all’acquisto di mummie. Dal Cairo passò nella penisola del Sinai e poi da Suez si diresse in Palestina, dove compì una meticolosa visita a Gerusalemme e ai luoghi santi.
Con lo scioglimento del voto sul Santo Sepolcro ebbe termine il vero e proprio pellegrinaggio, ma tenendo fede ai suoi propositi il Della Valle proseguì alla volta della Siria con soste a Damasco, Aleppo e Baghdad, dopo aver attraversato il deserto e la Mesopotamia; a Baghdad si ritagliò il tempo per conoscere Sitti Maani Gioerida, una diciottenne cristiana di rito nestoriano, e per sposarla nel dicembre del 1616 prima di sconfinare con lei in Persia. Giunto nella capitale Ispahan (Isfahan) il 22 febbraio 1617, nell’aprile dell’anno successivo venne ricevuto dallo scià a Escref (Ashraf) sulle costa del Mar Caspio, e accolto quale ospite di riguardo e privilegiato a corte, potè seguire da vicino i maneggi politici e bellici nelle ultime affannose fasi del vittorioso conflitto contro l’impero turco, concluso con la battaglia di Ardebil. In tale occasione riuscì a esporre davanti allo scià l’ambizioso progetto politico che gli stava a cuore, inteso a creare un’alleanza tra i persiani e i cosacchi del Mar Nero nella prospettiva di imbastire una potente lega anti ottomana fra l’Europa e la Persia.
Arrivava tardi: sia pure con premesse differenti, Abbàs aveva in realtà già caldeggiato, ma invano, una simile convergenza ai sovrani dell’Occidente, e in mancanza di concreti risultati si era risolto a mantenere un endemico stato di guerra tra le due potenze islamiche, al contempo stringendo saldi legami con quegli stati europei che riteneva più vicini agli interessi economici ed espansionistici della Persia, a cominciare dall’Inghilterra. Né il Della Valle trovò migliori orecchie con la proposta di trasferire presso la capitale una colonia di famiglie siriane di fede cattolica e consistente in non meno di trecento nuclei, che col nome di “Nuova Roma” avrebbero dato vita a un insediamento progressivamente incrementabile ed esornato dalle riproduzioni dei principali monumenti antichi dell’Urbe, in simbolica funzione identitaria.
Nonché bizzarra, l’idea era a tutti gli effetti inopportuna e improvvida: inopportuna, perché veniva a interferire in talune aperture nei confronti del cattolicesimo manifestate a più riprese da Abbàs e sulle quali la diplomazia ecclesiastica stava pazientemente lavorando; improvvida, perché suggerita dallo smanioso e megalomane presenzialismo dell’interlocutore, che tra l’altro pretendeva di realizzarla nella città principale del regno, e da parte persiana avrebbe implicato l’irrealistico riconoscimento di una coesistenza religiosa paritaria fra islamismo e cattolicesimo. Viceversa il sovrano si mostrò sensibile all’intercessione per promuovere, in sinergia con Roma, interventi a favore dei cristiani della Georgia, patria di Sitti Maani, dove i cattolici erano poco e male organizzati a scapito della loro consistente compagine; a tempo debito l’iniziativa avrebbe ottenuto la piena approvazione del papa Urbano VIII, nel 1627 puntualmente edotto dal Della Valle con la memoria Informazione della Georgia, e si sarebbe materializzata con l’invio di un’apposita missione operativa dei padri teatini. Anche negli anni seguenti il medesimo pontefice si sarebbe avvalso ampiamente di lui e ne avrebbe valorizzato le competenze dopo averlo nominato cavaliere d’onore e consigliere all’attività missionaria in oriente.
Quando, all’indomani della battaglia di Ardebil, fu chiaro che lo scià avrebbe insistito in una politica di armato equilibrismo fra le due potenze euroasiatiche e che l’ulteriore permanenza alla sua corte sarebbe stata inutile, il primo di ottobre 1621 un disilluso Pietro della Valle scese allo stretto di Hormuz; era forse intenzionato a rientrare in Italia dal Capo di Buona Speranza, ma intendeva prendere il mare confidando caparbiamente di forzare il blocco nella zona che nel frattempo era divenuta teatro di violenti scontri nel conflitto fra la Persia e il Portogallo per il controllo di quel nodale punto strategico. La fortuna, che in analoghe circostanze lo aveva sempre favorito, stavolta gli voltò le spalle. Nelle pieghe degli avvenimenti poté ancora vedere le rovine di Persepoli, raccogliere qualche reperto archeologico e sostare a Sciraz, ma ormai quasi prossimo all’imbarco di Combrù (Bandar Abbas) dovette fermarsi, e a Minab, disagevole e malsano villaggio di retrovia, sopraggiunse la tragedia: la moglie, che era incinta, si ammalò, ebbe un aborto e morì. Era il 30 dicembre dello stesso anno, e il marito, sconvolto dalla perdita e disorientato sul da farsi, decise di imbalsamare la salma, chiuderla in una cassa e portarla con sé ovunque andasse, per darle infine una degna sepoltura in Italia.
Nemmeno la conquista persiana di Hormuz, di poco successiva, riaprì la navigazione verso il Mediterraneo; però le rotte inglesi per l’India rimanevano agibili, e dopo diverse incertezze e confuse divagazioni itinerarie là dunque egli si diresse facendo capo a Surat e a Goa, desideroso di osservare il modo di vivere degli abitanti e, soprattutto, di documentarsi sulle varie manifestazioni del politeismo indù. Trascorsero così altri due anni, che l’instancabile viaggiatore impiegò percorrendo la costa nord-occidentale fino a Calecut (Kozhikode), con alcune puntate nelle regioni interne del Guggerat: soltanto nel gennaio del 1625, infatti, ebbe inizio il ritorno in Italia, che da Mascat (Mascate) nella penisola arabica portò il Della Valle a risalire il Golfo Persico e ad addentrarsi nel deserto da Bassora ad Aleppo, di continuo taglieggiato dalle bande dei governatori locali. Visitate le rovine di Antiochia salpò da Alessandretta e raggiunse Cipro, ma la peste in Sicilia lo costrinse a un’imprevista quarantena a Malta prima di sbarcare a Siracusa e proseguire costeggiando da Messina a Napoli, dove scese il 5 febbraio e fu ospite dello Schipani. Finalmente, dopo dodici lunghi anni di assenza, il 28 marzo 1626 il grande viaggiatore concluse a Roma il suo peregrinare e tumulò nella cappella di famiglia il corpo di Sitti Maani, che era riuscito a far passare indenne fra mille peripezie.
A rientro compiuto Pietro della Valle riprese la sua multiforme attività di uomo di studio e di azione, dedicandosi principalmente a rielaborare le lettere che aveva scritto allo Schipani durante il viaggio. In un ventennio di lavoro finì la revisione delle epistole dalla Turchia e dalla Persia, e vide stampata la parte relativa alla Turchia, che comparve in Roma nel 1650 col lungo titolo Viaggi di Pietro della Valle il Pellegrino, con minuto ragguaglio di tutte le cose notabili osservate in essi, descritti da lui medesimo in 54 lettere familiari, da diversi luoghi della intrapresa peregrinatione mandate in Napoli all’erudito, e fra’ più cari, di molti anni suo amico Mario Schipano, divisi in tre parti, cioè la Turchia, la Persia e l’India, le quali avran per aggiunta, se Dio gli darà vita, la quarta parte, che conterrà le figure di molte cose memorabili, sparse per tutta l’opera, e la loro esplicatione.
Invece i volumi con le lettere dalla Persia e dall’India restarono incompleti e uscirono postumi a cura della moglie e dei figli rispettivamente nel 1658 e nel 1663, mentre l’annunciata quarta parte non procedette oltre i propositi. L’essere un cattolico ligio e praticante peraltro non lo mise al riparo dalla censura ecclesiastica, che tagliò tutti i riferimenti in materia di magia e di astrologia, due tra i suoi preferiti campi di indagine; l’intervento del Santo Uffizio non risparmiò neppure diversi brani di contenuto politico nella sezione persiana, e particolarmente gli spunti in cui la figura di Abbàs assumeva i contorni elogiativi di un sovrano perspicace, illuminato e dagli intuiti strategici di gran lunga superiori ai prìncipi della cristianità: una valutazione ovviamente sgradita alla Chiesa, che per i medesimi motivi gli aveva già messo all’indice l’operetta Delle condizioni di Abbàs re di Persia, apparsa a Venezia nel 1628.
Benché alternate a ricorrenti impegni, le cure editoriali non distolsero Pietro della Valle da una costante e accorta gestione della propria personalità di insigne orientalista e dalla costruzione, anch’essa scientemente perseguita, di una icona di se stesso che riverberasse l’alone eroico e volitivo che si era creato come viaggiatore. In successione di tempo si collocano in quest’ordine di idee le esequie funebri commemorative della moglie, celebrate con solennità nel 1627; nel 1629 le seconde nozze contratte (non senza strenue opposizioni parentali) con Mariam Tinatin di Ziba, donna di nobile nascita georgiana, da lui adottata dodicenne in Isfahan (e, col nome di Mariuccia, ancella prediletta della moglie), che l’aveva accompagnato in Italia e nel matrimonio gli avrebbe dato 14 figli; nel 1636 il ferimento a morte, e proprio sotto gli occhi del pontefice, di uno staffiere del cardinal Barberini in un accesso di collera esacerbato da futili motivi, che gli costò dapprima dieci mesi di esilio volontario, e poi una cospicua multa assieme a cinque anni di confino, sebbene tosto condonati; e nel 1641 la partecipazione, in una risorta baldanza militaresca (era ormai oltre la cinquantina), ai preliminari del conflitto suscitato dallo stato pontificio contro i Farnese per il possesso del ducato di Castro.
La fama e il prestigio accumulati svolsero un ruolo importante nell’introdurre il personaggio nei più esclusivi circoli culturali e accademici di Roma. Con lo pseudonimo di Fantastico già avanti la partenza era stato un autorevole componente dell’Accademia degli Umoristi, ma al ritorno fu anche assiduo (con Tommaso Campanella, di cui si fece amico) alle adunanze nel cenacolo di Andrea Capranica (1572-1634), e nel 1629 lo cooptò pure l’Accademia dei Lincei. A promuovere questi riconoscimenti non fu estraneo un diversificato attivismo nel campo musicale, dove nel 1606 aveva esordito appena ventenne con un’originale rappresentazione scenica di argomento drammatico, intitolata Il carro di fedeltà d’amore e messa in note da Paolo Quagliati, suo maestro di violino. Il successo aveva spinto il Della Valle ad approfondire gli studi musicologici sotto la guida dei migliori maestri dell’epoca, e come teorico, compositore e librettista (si data al 1629 il libretto La valle rinverdita. Veglia drammatica da rappresentarsi in musica), oggi lo si annovera fra i principali esponenti dell’ambiente musicale romano del XVII secolo grazie ad alcuni scritti pubblicati postumi e che lo includono nel vivace dibattito fra i sostenitori della musica dei secoli precedenti e i fautori dei più moderni indirizzi (è del resto costante, nei Viaggi, l’interesse per l’aspetto musicologico dei paesi visitati, e in specie per i canti popolari).
Sostanzialmente a nessun esito stabile approdarono invece i tentativi di innestare la musica antica nelle melodie contemporanee, che presero forma quando Pietro della Valle attorno al 1635 conobbe Giovan Battista Doni (1594-1647), il noto antiquario e appassionato musicofilo con cui mantenne un lungo rapporto di stima e amicizia. Avviato con entusiasmo, presto il piano si arenò sia per le difficoltà incontrate nelle enunciazioni teoriche sia per i limiti artistici di una musica erudita e destinata a un ridotto pubblico di cultori, che non scaturiva dall’intima ispirazione del compositore, ma in primo luogo si prefiggeva di sorprendere, destare stupore e far scena anche per mezzo di strumenti affatto nuovi e dai nomi pomposi con cui occorreva suonarla: concepiti e fatti allestire dall’eccentrica inventiva dello stesso Della Valle, il “cembalo triarmonico”, il “violone panarmonico”, la “tiorba triarmonica”, e la “chitarra coi tre manichi” non ebbero molte occasioni per farsi ascoltare, e assieme alle loro armonie non tardarono a sparire dalla scena musicale romana che li aveva introdotti fra non poche perplessità.
Pietro della Valle si spense a Roma il 21 aprile 1652 e fu inumato nella cappella di famiglia in S. Maria in Aracoeli accanto alla moglie. I suoi tantissimi lavori rimasero quasi tutti manoscritti e, per lo più inediti, si conservano in prevalenza nella Biblioteca Vaticana, che ne fu destinataria per legato testamentario unitamente ai numerosi codici raccolti nella lunga peregrinazione. Fra il minimo affidato alle stampe giganteggiano i Viaggi, che nonostante la mole piacquero subito e furono più volte ristampati e riediti: la parte iniziale, quella sulla Turchia, venne infatti reimpressa nel 1657, appena cinque anni dopo la morte dell’autore, e ancora nel 1662; riedizioni comparvero a Bologna (1672, 1677) e a Venezia (1661, 1667, 1681-1687), fino alla più recente di Torino (1843, con la falsa indicazione Brighton e la grafia semplificata). Le traduzioni in francese, inglese, tedesco e olandese non si fecero attendere e coronarono una fortuna editoriale che è facilmente spiegabile.
A colpire fu anzitutto la novità di un metodo che non era poi tanto nuovo. Il Della Valle applicò, attualizzandolo, il principio introdotto dai logografi greci e perfezionato da Erodoto duemila anni prima: descrivere solo ciò che si è visto e riferire solo ciò che si è ascoltato con le proprie orecchie da informatori ritenuti fededegni. Ma all’esposizione meramente analitica egli unì una personalissima capacità di soffermarsi sui più minuti dettagli con la meticolosità di una precisione assoluta: dai costumi ai riti e alle sfilate, ai luoghi abitati e alle abitazioni, ai paesaggi, alle feste e agli spettacoli, alle danze, ai cibi e alle bevande giù fino agli oggetti in apparenza più insignificanti, praticamente tutto veniva “raccontato” in ogni sfumatura attraverso la lente di una vivacissima elasticità intellettuale, e in una sintesi mirabile di eclettismo e di spirito di osservazione che tanto più si affinava quanto più l’oggetto della descrizione si mostrava dissimile dalle fogge e dalle maniere occidentali.
A conferire valore aggiunto alla qualità delle notizie fu però determinante l’eccellenza culturale dello scrittore. Buon conoscitore del turco (a Isfahan nel 1620 aveva messo a punto una Grammatica della lingua turca divisa in sette libri, didatticamente innovativa e pur essa lasciata manoscritta), nel viaggio apprese il persiano, ma la facilità nell’impararle gli rese familiari altre lingue orientali, che lo misero in grado di formulare analisi comparative e svariate ipotesi sull’origine e sui reciproci rapporti fra i vari idiomi. Inoltre la padronanza delle fonti letterarie classiche gli consentì di tenerle costantemente sott’occhio durante gli itinerari e, per loro tramite, di avanzare congetture di carattere storico, archeologico e topografico, correggendo vecchi e nuovi errori in ambito astronomico, storico-etnografico, geografico, cartografico e toponomastico, in un incessante confronto con la propria esperienza di erudito e di viaggiatore.
Altro il Della Valle apprese dall’esame dei campioni naturalistici, botanici e mineralogici che, da lui sollecitato, periodicamente inviava allo Schipani assieme alle lettere; egli stesso a sua volta si diede a raccogliere esemplari di ogni tipo o, in alternativa e se trasportabili, a farne eseguire copie fedeli per studiarli più convenientemente in patria e diffonderne la conoscenza anche mediante schizzi e disegni. Non sorprende, quindi, che per un pubblico di lettori che diventavano via via più esigenti e avidi di cognizioni oggettive e realistiche, i Viaggi costituissero un repertorio enciclopedico ricchissimo di informazioni di prima mano su di un universo per loro misterioso e sfuggevole, e con l’andar del tempo acquistassero un retaggio epocale che ha inserito l’opera fra i classici dell’orientalistica e giustifica la sua recente traduzione persiana (1969).
Un ulteriore elemento di novità era dato dal ritmo del racconto. L’instancabile curiosità del Della Valle e la sua insaziabile vena descrittiva pungolano senza tregua l’attenzione di chi legge, e gli propongono temi, argomenti e sfondi sempre rinnovati in un incessante incastro di scatole cinesi che lo catturano e gli fanno seguire l’io narrante ovunque questi lo conduca. A solleticare la mente coopera la struttura affabulante, che (altra novità) si sviluppa su due registri paralleli: il primo è più propriamente narratorio degli eventi che si avvicendano nell’itinerario e nelle sue tappe sotto l’egida protagonistica e gigionesca di un capitano di ventura più che di una dotta guida; il secondo subentra soprattutto nelle soste sul percorso, e protagonista diventa allora la composita umanità che forma la carovana: ormai immedesimatosi nel viaggio, chi legge attende con impazienza anche quelle pause, e chi racconta non lo delude, intrattenendolo sui fatti, le vicende e gli episodi di un microcosmo di sfaccettata quotidianità.
Qui il Della Valle è spesso chiamato (e più sovente si chiama) a svolgere un compito mediatore fra il mondo islamico e il mondo cristiano, e non di rado lo risolve in una prospettiva di tolleranza e modernità di vedute che si avvicinano a matrici cosmopolite e preilluministiche, seppure inevitabilmente condizionate dal metro valutativo di chi non è sfiorato dal minimo dubbio di rappresentare una civiltà superiore, più evoluta e tanto più perfetta in quanto erede della romanità e sede del papato. In questi passi meglio che altrove emerge l’irrisolta contraddizione dello scrittore nei confronti del complessivo contesto islamico, che da un lato gli fa disprezzare aprioristicamente i suoi valori fondanti, e dall’altro lo obbliga a riconoscere la validità di parecchi aspetti positivi della sua cultura materiale, specie quando è la propria penna ad anatomizzarla: le pagine dedicate all’accappatoio e al sofà, alle incubatrici per dischiudere i pulcini e ai sistemi di ventilazione e di riscaldamento delle abitazioni, nonché alle pellicce di Astrakan e alle fabbriche del ghiaccio rimangono emblematiche al riguardo, alla pari delle notazioni agronomiche e alimentarie relative agli scerbetti, alle portate del riso pilao, allo yogurt e al caffè, che per la prima volta viene minutamente presentato al futuro consumatore occidentale.
Sorretto da una vena espressiva e stilistica di non grande respiro, il Della Valle fu nondimeno assai abile nell’adeguarla al variare delle situazioni narrative, non poche delle quali hanno acquisito e conservano il sapore di una fortuita ma accattivante modernità: tale è la sequenza dell’animata scoperta delle mummie nei cunicoli del deserto egiziano, che pare desunta da un odierno reportage; o il delizioso ritratto del gatto d’angora turco (la cui razza fu da lui immessa in Europa), che non ha nulla da invidiare alla perfezione formale di un raffinato elzeviro; oppure il clima “noir” che crea l’improvviso omicidio di un servo a Baghdad, con i congestionati sotterfugi messi in atto per sottrarre il cadavere all’occhiuta vigilanza turca; o, ancora, l’immagine dell’autore in cupa e angosciata solitudine accanto alla moglie morente, che richiama certi clichés di doloroso intimismo familiare tràditi dalla letteratura ottocentesca.
La flessibilità del modulo espositivo non deve comunque trarre in inganno, poiché il lettore smaliziato non tarda ad accorgersi che il disegno dei Viaggi è costruito sui canoni di una meditata imitazione letteraria condotta anche sul modello di significative e talora scoperte correlazioni: basti pensare, per esempio, agli atteggiamenti della moglie, che aderiscono da vicino al comportamento delle eroine nella prediletta “Gerusalemme liberata”, o alla rappresentazione della salita al monte Sinai, che ricalca l’ascesa del Petrarca al monte Ventoux. Un’imitazione d’altronde in linea con gli ingredienti di quel clima culturale seicentesco che è mirabilmente riflesso nella poetica della “stupita meraviglia” di Giambattista Marino, e che, tradotto nell’esperienza del Della Valle, emana dall’ostentazione sontuosa ed enfatica della sua partenza per l’oriente; si diffonde nella fastosa teatralità di una carovana capace di attirare accoglienze di pari magnificenza; si insinua nelle stravaganti invenzioni di strumenti musicali tanto appariscenti quanto inutili, e aleggia nel funebre barocchismo della cerimonia rievocativa di Sitti Maani, lasciandoci per sempre nel dubbio che il movimentato trasporto della sua salma attraverso tre continenti non fosse dovuto alla sola pietà familiare.
Bibliografia:
Un quadro esauriente del personaggio anche sotto il profilo bibliografico è fornito dalle tre monografie di R. Salvante, Il “Pellegrino” in Oriente. La Turchia di Pietro della Valle (1614-1617), Firenze 1997; C. Cardini, La porta d’Oriente. Lettere di Pietro della Valle (Istanbul 1614), Roma 2001 (con l’elenco completo delle edizioni e delle riedizioni dei Viaggi alle pp. 27-28 e 276-277, e il regesto delle opere manoscritte alle pp. 269-275); e S. Parodi, Cose e parole nei “Viaggi” di Pietro della Valle, Firenze 1987. A esse sono da affiancare la voce curata da C. Micocci e S. La Via nel Dizionario Biografico degli Italiani, 37 (1989) pp. 764-771 (la seconda sezione è interamente riservata al musicofilo e musicografo), e l’ulteriore aggiornamento di G. Venditti, Un episodio ignoto nella vita di Pietro della Valle, in Studi in onore del Cardinale Raffaele Farina, II, Città del Vaticano 2013, pp. 1099-1142. Ai suddetti contributi abbiamo principalmente attinto nel redigere le presenti note, che hanno pure tenuto conto dei più rapidi lineamenti biografici di C. Falconi, nel Dizionario Bompiani degli Autori di tutti i tempi e di tutte le letterature, I, Milano 1968, p. 622, e di M. Guglielminetti nell’antologia Viaggiatori del Seicento, Torino 1967, pp. 329-330. Il nome di Pietro della Valle non manca nei migliori repertori storici della letteratura italiana, fra cui si segnalano specialmente i lineamenti di M. Scotti, in La fine del Cinquecento e il Seicento (Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato), Roma 1997, pp. 1155-1158; e di E. Raimondi, in Il Seicento (Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno), Milano 1988, pp. 261-267, assieme al sapido articolo dello stesso Cecchi, Mummie e mammoni, nella raccolta di saggi Qualche cosa, Firenze 1943, pp. 36-42. Per una comprensione introduttiva dei rapporti fra occidente e mondo islamico nella prima meta del XVII secolo restano imprescindibili i riferimenti di G. Spini, Storia dell’età moderna, II, Torino 1982, pp. 467-478 e 492-501.
Note biografiche a cura di Giovanni Mennella
Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)
- Viaggi di Pietro della Valle, il Pellegrino. Volume primo
Descritti da lui medesimo in lettere familiari all'erudito suo amico Mario Schipano : divisi in tre parti cioè: la Turchia, la Persia e l'India, colla vita e ritratto dell'autore
Questo è il primo dei due volumi dell'opera più importante e più tradotta della letteratura italiana di viaggio del Seicento. L’autore, nobile romano di vasti interessi culturali, descrive l’itinerario del suo lunghissimo viaggio durato ininterrottamente dal 1614 al 1626, - Viaggi di Pietro della Valle, il Pellegrino. Volume secondo
Descritti da lui medesimo in lettere familiari all'erudito suo amico Mario Schipano : divisi in tre parti cioè: la Turchia, la Persia e l'India, colla vita e ritratto dell'autore
In questo secondo dei due volumi dell'opera più importante e più tradotta della letteratura italiana di viaggio del Seicento, Pietro Della Valle prosegue la narrazione del suo lunghissimo viaggio che lo porta ora in Persia e India.