Dopo la riscoperta di Casa d’altri, la critica ha forse un po’ frettolosamente messo la sordina sul “primo D’Arzo”; il filo conduttore che lega Ezio Comparoni con il suo alter ego Silvio D’Arzo può essere invece ritrovato anche leggendo questi brevi racconti, scritti in un arco di tempo piuttosto ampio, spesso inediti e rimasti allo stadio di progetto, di bozza, di “introduzione” ad opere che avrebbero dovuto avere più ampio respiro se la precocissima morte dell’autore non avesse messo fine alla sua ricerca letteraria e stilistica. Insieme a Savinio, D’Arzo è lo scrittore che più di ogni altro, nella prima metà del XX secolo, è stato capace di ricoprire di incantato stupore sogni e inquietudini che hanno caratterizzato quel periodo, non solo letterariamente. Stupore, e ironia, che fanno capolino dal suo innato riserbo, da uno stile che è tuttavia intensamente narrativo; infatti, anche se la scarna vicenda raccontata può apparire non adatta ad un intreccio più complesso, tuttavia chi legge difficilmente può evitare di farsi coinvolgere nell’ambiguità di un insolito labirinto, nel quale non manca mai la delicatezza e l’incanto che vela i lati più incomprensibili e inafferrabili della vita.
I primi sette racconti di questa raccolta – che l’editore Carabba pubblicò nel 1935 con il titolo Maschere, racconti di paese e di città – furono scritti due anni prima della pubblicazione, quando D’Arzo aveva tredici anni; balza all’attenzione di chi legge il fatto che gran parte degli spunti tematici e stilistici che caratterizzeranno la prosa darziana più matura già li possiamo trovare, pur se con qualche elemento di comprensibile ingenuità, in queste sue prime prove narrative. Osterie, paesaggi dalle tinte improbabili («i monti della Gilba rocciosa si delineavano nettamente, tingendosi di viola»), l’idea del suicidio, vecchie le cui sagome si sovrappongono all’idea della strega («Fra rosei progetti e felici disegni per l’avvenire, arrivò alla porta di casa della Gana, quella stregaccia maledetta e senza cuore, madre della Lina») sono già elementi che si saldano per costruire spazi e sensi che saranno caratteristici della scrittura di D’Arzo.
I morti nelle povere case, Una storia così, Fine di Mirko e Peccato originale furono pubblicati tra il 1940 e il 1944 su “Il Meridiano di Roma” e “Quadrivium”. In questi racconti troviamo evidenti punti di contatto con Essi pensano ad altro e L’Uomo che camminava per le strade (già disponibili in questa biblioteca Manuzio). Sono caratterizzati dalla presenza angelica che si pone come elemento di confronto con il mondo umano; in Una storia così il professor Gori nella sua dimensione angelica è sopraffatto dalla solitudine della purezza e sceglie di tornare sulla terra affrontando ansie, dubbi, incertezze. In Fine di Mirko invece è l’appesantimento della colpa che impedisce a Mirco di salire al cielo. In Peccato originale l’angelo appare alla mente di Mirco come testimone e monito. È interessante confrontare queste presenze angeliche con quelle che si presentano sotto forma di immagini e similitudini in Essi pensano ad altro.
Gli altri racconti sono stati pubblicati postumi, raccolti da minute manoscritte o dattiloscritti. Databili per lo più nella seconda metà degli anni ’40 riportano in più occasioni alle atmosfere narrative di Casa d’altri. La signora Nodier vive in una casa appartata rispetto al paese dove risiede ed è oggetto di commenti ambigui da parte dei compaesani. Si sposa non più giovane con un generale e la loro intesa, prevalentemente crepuscolare e realizzabile in ambientazioni oscure, procede con aperture verso un passato che non provoca risentimenti. Ma il generale muore in guerra. Le contingenze della vita offrono alla vedova una strada, davvero imprevedibile, perché possa realizzarsi un «…ricordo, con un’aria di mite, comprensiva presenza: qualcosa assai più di un ricordo, e quasi una pallida vita». I coniugi Grimaldi protagonisti di Due vecchi hanno venduta la loro casa per trascorrere gli ultimi anni della loro vita, dopo aver perduto un figlio in guerra, in un piccolo appartamento dove vivono un’esistenza apparentemente senza tempo, dalla quale vengono scossi da una visita inaspettata.
Non stupisce quindi leggere nel Carteggio tra D’Arzo e Vallecchi una lettera di D’Arzo a proposito della nascita di Casa d’altri: «i luoghi erano quelli che avevo visto anni prima: i personaggi, mi accorsi, li avevo da anni con me». Troviamo infatti in questi racconti i temi dell’età anziana, i luoghi chiusi e ristretti, la memoria che appare essere l’unico strumento per impedire agli accadimenti di sottrarsi al flusso del tempo. Troviamo anche in questi racconti la straordinaria capacità dello scrittore di non imporre una conclusione alla sua narrazione, ma di lasciarla sfumare in un’area di indeterminatezza il cui delinearsi è delegato alla sensibilità di chi legge. Come la sorte di Zelinda in Casa d’altri, anche quella di Giovanna Grimaldi è infatti relegata nella sfera delle enigmatiche alternative possibili.
C’è da aggiungere che con il titolo di Una storia così abbiamo anche un racconto incompiuto pubblicato la prima volta a cura di Paolo Lagazzi nel 1992 nel volume Comparoni e «l’altro» sulle tracce di Silvio D’Arzo e databile probabilmente attorno al 1950, che rientra però ragionevolmente nella narrativa darziana destinata ai ragazzi. Lo presenteremo in questa biblioteca Manuzio assieme agli altri testi ascrivibili alla narrativa per ragazzi che affiancano Penny Wirton e sua madre che già abbiamo pubblicato in edizione digitale.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Cadeva la neve sfarfallando e svolazzando come un fitto sciame di candidi coriandoli, danzando soffice e leggera come piume di cigno, indugiando un attimo sospesa fra terra e cielo, confondendosi nell’argento trasparente dell’aria, e posandosi infine sul cristallino bagliore dell’immensa distesa di spuma.
Se il gelido vento del nord, che sollevava passando raffiche rabbiose di nevischio col suo alito possente, non avesse fatto curvare verso di noi la testa verdastra di un gracile cipresso abbandonato, e se, per il cielo d’alluminio, più bianco della neve che scendeva tremula e ondeggiante, non fosse di quando in quando passato un triangolo grigio e compatto di starne dai rauchi e tristi richiami, avremmo potuto credere di trovarci sperduti in un nordico deserto desolato.
Neve e freddo, silenzio e stanchezza, attorno a noi, con noi, in noi. Nessun profilo di casolare in lontananza, nessun filo di fumo per il cielo, nulla di vivo nella fredda solitudine della pianura.
Soltanto il bianco del suolo e dell’aria, e il bianco della volta inanimata e deserta. Il freddo ci penetrava nelle ossa e lunghi brividi ci scuotevano dal capo alle piante. Ci sentivamo stanchi, e un senso di tristezza ci pervadeva. Che ci fossimo spersi? Il mio silenzioso compagno indovinò il dubbio che mi serpeggiava per il cervello, e mi rassicurò tendendo il braccio verso un punto nero lontano.

