Il giornalista Arnaldo De Mira è un uomo inquieto, in costante fuga da sé stesso e da un passato che tiene gelosamente nascosto. Egli è circondato da alcune donne che alimentano la sua vanità, che crede di amare e di esserne riamato.
Adriana, la colta collega, lo ama devotamente nonostante per l’amato sia “solo” la dolce sorella d’elezione. Adriana alla fine si ritroverà «spaventata davanti all’egoismo di quel debole carattere d’uomo che tutto si rivelava, comparendo, per la prima volta, arido, impotente».
Arnaldo, lascia il lavoro di Milano e tenta di sottrarsi alla frequentazione della vanitosa baronessa Carmelita che lo ama quasi solo come trofeo da esibire nei suoi ricevimenti salottieri.
A Como Arnaldo intraprende il nuovo lavoro. Qui incontra l’ingenua e romantica Dora che si innamora perdutamente di lui, ma la giovane rimarrà amaramente delusa da questa fatale e per lei tragica passione.
L’antica amante Matilde fa una fugace apparizione, ciò che fa riemergere il misterioso passato di Arnaldo che, smascherato, lo costringerà a una nuova fuga verso il nulla.
Sinossi a cura di Dario Cossi
Dall’incipit del libro:
La giovane donna era brutta — e bellissima. Ella si chiamava Adriana, e aveva un tipo spiccato, meridionale: occhi neri, vivacissimi; bocca larga, sensuale, denti piccini e forti: una ricca massa di capelli neri, incorniciatura forse troppo abbondante per il piccolo viso rotondo, da monella impenitente. No, certo: non aveva un’aria distinta, ma dalle mosse rapide e ardite, delle fiere audacie da popolana, degli scatti d’entusiasmo, delle potenti rivolte quasi maschili — e tutto ciò unito a delle risolute cortesie da giovinetto convinto del proprio ingegno, che sa d’esser destinato a grandi cose, e non chiede protezioni. Col suo contegno poco femminile, e coi suoi lineamenti irregolari, Adriana apparteneva a quel genere di donne che gli uomini temono, ammirano, e non amano forse per paura di adorarle.
Quella sera, nell’elegante salottino della redazione, Adriana Errera leggeva attentamente il nuovo romanzo di Arnaldo Da Mira, senza curarsi del biondo e roseo giovinotto, che scriveva presso di lei. La penna di Fabio Sorrenti, scorrendo ardita sulla carta lucida, e bianca, sembrava raccontare di cose maligne, mentre il giornalista ripeteva due, tre volte ogni parola, ad alta voce, fermandosi spesso per rileggere quel brano scandaloso di cronaca che gli usciva dalla mente come uno squarcio di poesia dell’epoca romantica, irto di punti d’esclamazione, infiorato di interrogazioni, ricco, straricco di puntini di sospensione. Con quale prodigiosa rapidità si succedevano quelli scellerati puntini! Fitti, fitti, regolari, uno dopo l’altro, a regolare distanza, tre volte malevoli: calcolata civetteria di una prosa perversa, che nell’insieme assomigliava assai a quelle lettere stupide e cattive che provano tutto e non provano nulla: frutto della passione, negazione dell’amore.

