La Commissione esaminatrice per il Premio Sabaudia 1937, del quale fu insignito questo libro di racconti, scrive nella sua relazione:
«L’opera di Fanciulli, pervasa da un commosso senso lirico della terra, scritta in forma nitida, agile e soprattutto schiettamente italiana, si distacca in modo netto dalle altre premiate al concorso e conferma le belle qualità di artista che il Fanciulli ha sempre manifestato nella sua nobile ed intensa attività di scrittore».
L’autore attinge a piene mani dalla tradizione letteraria del XIX secolo basata spesso sulla triade Dio-patria-famiglia per proporre i suoi valori tradizionali imbevuti di misticismo cattolico. Tuttavia la campagna toscana della prima metà del XX secolo, vista attraverso gli occhi di un bambino o ragazzino di famiglia benestante, assume spesso una dimensione onirica e fantastica e si capisce quindi come potesse piacere a Bontempelli che delle giurie che assegnavano premi (spesso al Fanciulli) faceva parte con regolarità. Non è difficile infatti scorgere in queste pagine – cosa certo non frequente nella narrativa per ragazzi del primo Novecento – un rimando al realismo magico del Bontempelli stesso (penso ad esempio a La Scacchiera davanti allo specchio) e in questo modo Fanciulli riesce a stemperare i frequenti rimandi al divino, alla bontà, alla carità sfuggendo quindi alle strutture tradizionali che il lettore potrebbe attendersi. In questo senso questa raccolta di racconti si stacca da quegli aspetti prescrittivi e dogmatici che sono invece costantemente presenti nella letteratura destinata alla gioventù delle ultime decadi dell’ottocento e dei primi decenni del novecento.
La prosa dell’autore è chiara e lineare e la sintassi delle frasi è di tipo “paratattico”, vale a dire simile alla lingua parlata (frequenti i dialoghi) con proposizioni brevi, indipendenti e collegate da una virgola o una congiunzione. Si scorge evidente il lavoro di rifinitura e correzione da parte dell’autore per raggiungere questo risultato, che appare il più adatto per la lettura da parte di un pubblico di giovanissimi. Il ritmo risulta veloce e conciso. La buona lettura educativa – perseguita dall’autore – quindi non risulta pesante e bigotta; gli obblighi e le prescrizioni provengono da una delicatezza femminile e materna esente quasi sempre da rimproveri e punizioni e quindi portatrice di grande rispetto per il bambino. Infatti per il Fanciulli il bambino è puro e buono per natura, a lui è affidato il compito di costruire l’uomo del futuro. L’idea pedagogica dell’autore sfuma quindi nell’influenza roussoiana, almeno per quel che riguarda l’attenzione rivolta al fanciullo.
Negli undici racconti che compongono questa raccolta lo sguardo del bambino-narratore si posa ora sulla fila, davanti alla fontana per attingere acqua, della povera gente, che guarda con ostilità alla “serva dei signori” che “potrebbero bere vino”, ora sull’ordito della tessitrice che ricorda al ragazzo la tela di Penelope. La fantasia viene riportata alla realtà dalla tessitrice stessa che dice che non si può disfare in una notte una tela tessuta a mano. Quella delle macchine sì invece, basta tirare un filo. Ma non è il caso di Penelope… Vediamo poi i canonici cacciatori, gli artigiani che destano l’interesse e la fantasia del ragazzino, dal fabbro al maniscalco, al calzolaio quasi istruito perché aveva letto Niccolò dei Lapi e aveva di conseguenza chiamato i figli coi nomi di Laudomia e Lanciotto.
Oggi che nelle strade, anche dei paesi, le botteghe dei calzolai e dei bottai sono scomparse, la lettura di questi racconti può servire a riportare l’attenzione dei più piccoli al lavoro manuale, al percorso attraverso il quale “nascevano” le cose, gli oggetti di tutti i giorni, in un mondo ancora pre-industriale e per il quale l’ammodernamento perseguito in quella fase storica dalla borghesia per mezzo del fascismo procedeva a fatica in un percorso irto di contraddizioni. Giungiamo quindi al penultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, dove i confinanti della famiglia del giovane narratore sono soffusi da un’aura di mistero particolarmente attraente. Gente estranea alla vita del paese: un ex ufficiale di Napoleone e una nobile russa e i loro animali, una tartaruga, uno sgargiante pappagallo che canta le prime parole della marsigliese e un cane insolito, un molosso danese. Ma c’è spazio anche per una fiabesca narrazione dello scavo di un profondissimo pozzo alla ricerca dell’acqua. Più che sufficiente il tutto perché la fantasia e la curiosità del piccolo osservatore venga stimolata al massimo. Ma sufficiente anche a catturare l’attenzione del lettore contemporaneo.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del primo racconto La sete:
Il paese, allora, non aveva acquedotto, e noi bevevamo acqua di cisterna. A dirlo sembrava una bella cosa; anzi, quando tornavo in città, me ne vantavo tra i miei compagni di scuola; mi piaceva anche la parola, liscia, tonda, profonda: cisterna. L’acqua, però, a beverla veramente, piaceva molto meno; aveva un sapore smorto che dopo il primo sorso scoraggiava. Sapeva di terra e di pianto. Pareva acqua appena dissepolta. «Perchè non ci siete avvezzi», diceva Domenico, il cugino grande, che ne tracannava di gran bicchieri sotto gli occhi inquieti della nonna. Quell’acqua era una ricchezza da usarsi con parsimonia: non tutti in paese avevano la cisterna.
La nostra era in mezzo al cortile: un murello circolare, di pietra bruna toppata di licheni: sopra, l’arco di ferro reggeva la carrucola lustra; e sulla gran bocca si stendeva una rete arrugginita, da alzarsi in due pezzi quando si voleva calare giù la mezzina. Un insieme di cosa forte e tetra, se non fosse stata l’erbolina che cresceva a piè del murello e vi metteva un sorriso stento. Si saliva un gradino, e si vedeva l’acqua in prigione, con tanti occhi fermi e lucidi, di là dalla rete, laggiù. (A chiamarla, non si moveva, nemmeno quando la voce rimbombando le cadeva addosso).
— È acqua piovana – mi aveva detto la Nera, sorella di Domenico.
Anche piovana è una bella parola; un gran gonfio bigio, che si rompe, e lascia venir giù la pioggia a righe.

