«If my writings should survive the writer, they will do so, I believe, less for the sake of the theories which they propound than for the sake of the facts which they record. They will live, if they live at all, as a picture or moving panorama of the vanished life of primitive man all over the world […]» [Se i miei scritti dovessero sopravvivere allo scrittore, lo faranno, credo, meno per il bene delle teorie che propongono che per il bene dei fatti che registrano. Vivranno, se vivranno, come un’immagine o un panorama in movimento della vita scomparsa dell’uomo primitivo in tutto il mondo… (Frazer, Aftermath : A supplement to The Golden Bough, 1936, p. V]
Come scritto anche nella biografia dell’autore, in Liber Liber, e come anche appunto dichiarato da lui stesso, più che per le sue tesi, a volte in parte ancora valide e forse in parte destinate ad una nuova rilettura positiva, l’opera di Frazer conserva una notevole importanza e un grandissimo interesse per l’infinità di materiale che presenta e di problemi che suscita.
L’intento iniziale di Frazer – per questo si era accinto a scrivere e lo confessa lui stesso sia nella Prefazione de Il Ramo d’oro, sia nell’Aftermath – era solo quello di spiegare un particolare rituale per la successione dei sacerdoti di Diana nel bosco nei pressi di Aricia (oggi Ariccia, cittadina a sud di Roma) in epoca preromana. Questo rituale, nella sua parte meno cruenta, comprendeva lo svellere un ramo – il Ramo d’Oro – da un albero del sacro bosco. La scena, raccontata da William Turner (1775 –1851) nel famoso quadro The Golden Bough del 1834, ispirò sicuramente Frazer. Ma a sua volta Turner era debitore ad un brano dal VI libro dell’Eneide di Virgilio, dove si legge che, alla domanda di Enea su come entrare in contatto con il defunto padre Anchise, la Sibilla gli raccomanda di portare con sé un ramo d’oro strappato dalla vicina foresta per offrirlo a Proserpina, regina dei morti:
Quod si tantus amor menti, si tanta cupido est
Bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere
Tartara, et insano iuuat indulgere labori,
Accipe quae peragenda prius. latet arbore opaca
Aureus et foliis et lento uimine ramus,
Iunoni infernae dictus sacer; hunc tegit omnis
Lucus et obscuris claudunt conuallibus umbrae.
Sed non ante datur telluris operta subire
auricomos quam quis decerpserit arbore fetus.
hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina munus
instituit. [Eneide, libro VI, 133-143]
Ma se tanto disio, se tanto amore
T’invoglia di veder due volte Stige
E due volte l’abisso, e soffrir osi
Un così grave affanno, odi che prima
Oprar convienti. È ne la selva opaca,
Tra valli oscure e dense ombre riposto
E ne l’arbore stesso, un lento ramo
Con foglie d’oro, il cui tronco è sacrato
A Giuno inferna: e chi seco divelto
Questo non porta, ne’ secreti regni
Penetrar di Plutone unqua non pote.
Ciò la bella Proserpina comanda,
Che per suo dono il chiede.
[Trad. Annibal Caro]
Potenza magica del ramo d’oro che apre le porte degli Inferi ai vivi e che da breve dissertazione su un rito italico trasforma l’opera di Frazer in una delle più documentate opere sui miti e le superstizioni nella storia dell’umanità, un’opera immensa, a volte confusa a volte ripetitiva, ma nella quale in ogni pagina emerge l’ansia di ricerca e la conferma del legame ancestrale, della relazione vitale tra l’umanità e la Natura, secondo le regole delle stagioni e dell’alternanza di morte e vita, di morte e rinascita. Il ripetersi continuo di quel ciclo viene, nel corso dei secoli e dei popoli, incarnato in Tammuz, in Attis, in Adone, in Osiride, in Dioniso e poi in Bacco, in Cristo, in Balder.
Elementi cardine dell’opera sono la magia e la religione, la loro interconnessione e l’influenza che esercitano sui popoli. Ma un elemento fondamentale e imprescindibile è anche il mito, considerato come la filosofia dei primordi della specie umana: è il mito che all’inizio cerca di rispondere alle domande sull’esistenza e sul mondo. Domande alle quali cercheranno poi di rispondere la filosofia e la scienza.
Leggendo l’opera, sarà facile trovare annotazioni che faranno riflettere anche sulla nostra condizione attuale: “la visione della Natura come una serie di eventi che si succedono in un ordine invariabile, senza intervento di azioni personali” visione della quale è parte integrante un profondo rispetto per gli animali e le piante; la distinzione tra regole di senso comune e tabù, validissima ancora nel nostro quotidiano, nel quale innegabilmente i tabù sono ancora presenti; la relazione tra individuo e religione; il concetto di conoscenza vera “poiché il miglior metodo per sembrar di conoscere una cosa è certamente quello di conoscerla davvero.” E ancora:
«Nel campo della politica, l’intrigante astuto, il vincitore crudele, può finire con l’essere un saggio e magnanimo dominatore, benedetto in vita, rimpianto in morte, ammirato e applaudito dalla posterità. […] Ma colui che è sciocco una volta lo sarà per tutta la vita: tanto piú grande sarà il potere tra le sue mani e tanto piú disastroso sarà l’uso che ne farà.»
Frazer scrive “che nelle epoche primitive il dispotismo è il migliore amico dell’umanità e, per quanto possa sembrare paradossale, anche della libertà” ma questo perché, prima dell’affermarsi del potere assoluto, “la sorte dell’individuo è foggiata, dalla culla sino alla tomba, nella ferrea forma del costume ereditario […] La civiltà è possibile soltanto per la cooperazione attiva dei cittadini e la loro volontà di subordinare i loro interessi privati al bene comune.”
Nell’opera si troveranno tante spiegazioni di cose grandi e piccole che ancora oggi fanno parte del nostro quotidiano, come, ad esempio: affidare il dente caduto dei bambini al topino dei denti è per la magia ‘simpatica’ un modo perché “l’altro dente [quello nuovo] acquisti la stessa fermezza e la perfezione del dente del roditore”; la sacralità del legame prodotto dal mangiare in comune, che è un pegno di non tramare gli uni contro gli altri; la tradizione / consuetudine di dare a figlie e figli i nomi di nonne e nonni come omaggio ma a volte come tentativo di indirizzare la sorte; sopratutto tutte le idee strampalate legate alla donna e alla sua fisiologia, idee che spesso patiamo ancora oggi.
Una breve e significativa annotazione sul carattere di Frazer. L’antropologa Mary Douglas (1921 – 2007), nel suo Giudizi su James Frazer (Judgements on James Frazer), racconta che la prima edizione dell’opera (1890) si chiudeva lì dove tutto era iniziato, nei pressi del bosco sacro a Diana ad Aricia, e Frazer scriveva che dalle selve di Nemi, nei pressi di Ariccia, si udiva il suono dell’Angelus delle campane di Roma. Nell’edizione in tre volumi del 1900 troviamo scritto:
«But Nemi’s woods are still green, and at evening, while the sunset fades in the glowing west, you may hear the church-hells of Albano, and perhaps, if the air be still, of Rome itself, ringing the Angelus. Sweet and solemn they chime out from the distant city and die lingeringly away across the wide Campagnan marshes. Le roi est mort, vive le roi!»
Ma, prosegue Douglas, nella prefazione di questa stessa edizione Frazer annota:
«A proposito di un passo del mio libro, mi è stato obiettato da un famoso studioso [a distinguished scholar] che la campane di Roma non possono essere udite dalle rive del lago di Nemi nemmeno nelle migliori condizioni atmosferiche. Poiché riconosco il mio errore grossolano e non lo correggo, posso addurre l’esempio di un illustre scrittore a giustificazione della mia ostinazione? In Old Mortality [I puritani di Scozia, di Walter Scott] leggiamo che un membro della Convenzione, braccato dai dragoni di Claverhouse, sente, portato dal vento della notte, il rimbombo cupo dei timpani della cavalleria che lo insegue. Quando Scott fu ripreso per questa descrizione, poiché di notte non si battono i tamburi, replicò che in realtà gli piaceva sentir suonare i tamburi a quel punto, e che li avrebbe lasciati suonare finché il suo libro si fosse conservato. Posso prendermi la libertà di dire, nello stesso spirito, che, anche se solo con l’immaginazione, amo ascoltare dal lago di Nemi il rintocco delle campane di Roma.»
La storia editoriale del testo fondamentale di Frazer, The Golden Bough, è piuttosto complessa. Una prima edizione, in due volumi, uscì nel 1890 con il sottotitolo A Study in Comparative Religion; già nella seconda edizione (1900), in tre volumi, il sottotitolo divenne Study in Magic and Religion, che rimase poi definitivo. La terza edizione, che richiese all’autore ancora maggiori approfondimenti e un lavoro di circa 15 anni ed era composta da 12 volumi, fu pubblicata tra il 1911 e il 1915. Il dodicesimo volume era dedicato esclusivamente alla Bibliografia e all’Indice generale.
Nel 1936 Frazer pubblicò Aftermath : A supplement to The Golden Bough, che non è un trattato indipendente, ma l’integrazione del testo primario con nuove informazioni tratte in gran parte da opere apparse dopo il 1915 ed anche da fonti precedenti sfuggite nelle precedenti stesure. Questa ricca terza edizione comprensiva del Supplemento fu poi ripubblicata infinite volte.
Nel 1922 Frazer realizzò una edizione abbreviata in un unico volume, per rendere il libro più confacente al grande pubblico, nella quale egli aveva escluso i riferimenti al cristianesimo. Della versione ridotta del 1922 in Italia comparve per la prima volta nel 1925 la traduzione, a cura di Lauro De Bosis (1901 – 1931), scrittore, traduttore, antifascista e aviatore dilettante. Il titolo con sottotitolo era Il ramo d’oro : storia del pensiero primitivo : magia e religione.
La versione originale in sette parti per complessivi dodici volumi è così composta:
- PART I – The Magic Art and the Evolution of Kings – Vol. 1-2
- PART II – Taboo and the Perils of the Soul – Vol. 3
- PART III – The Dying God – Vol. 4
- PART IV – Adonis Attis Osiris – Vol. 5-6
- PART V – Spirits of the Corn and of the Wild – Vol. 7-8
- PART VI – The Scapegoat – Vol. 9
- PART VII – Balder the Beautiful – Vol. 10-11
- Bibliography and General Index Vol. 12
L’editrice Luni dal 2022, quindi a cento anni dalla pubblicazione in edizione ridotta, ha iniziato la pubblicazione della traduzione integrale , rispettando il piano dell’opera originale. Traduttore e curatore è Fabrizio Bagatti. Ad oggi (febbraio 2025) sono stati pubblicati i primi sei volumi cioè le prime quattro parti.
Un’ultima notazione: il testo ridotto del 1922 e che qui si presenta in italiano riporta sì un’immensità di citazioni dalle fonti che Frazer studiò e utilizzò, ma non presenta nessuna nota che indichi la fonte della citazione, per espressa indicazione dell’autore:
«Per mantenere quanto piú mi fosse possibile il testo, ho sacrificato tutte le note e con esse tutte le esatte citazioni delle mie fonti. I lettori che desiderassero accertare la fonte di ogni mia affermazione debbono quindi consultare il lavoro originale che è pienamente documentato e provvisto di una completa bibliografia.»
Come abbiamo indicato, infatti, il dodicesimo volume è esclusivamente dedicato alla Bibliografia, oltre che all’Indice generale. Peraltro anche questa edizione in Liber Liber è provvista, alla fine, di un ricco Indice analitico.
Scrive Frazer:
«Noi stiamo sulle fondamenta erette dalle generazioni che ci hanno preceduto e possiamo solo debolmente apprezzare quanto siano costati all’umanità i suoi penosi e prolungati sforzi per alzarsi sino al punto, non molto alto in fin dei conti, che abbiamo raggiunto. […] Perché… le nostre somiglianze con i selvaggi sono ben piú numerose delle differenze; e quello che abbiamo in comune con loro e che riteniamo vero e utile lo dobbiamo ai nostri progenitori selvaggi […]. Noi siamo come gli eredi di una fortuna tramandata da tanti secoli che si è persa la memoria di quelli che l’hanno costruita, sicché i possessori del momento la considerano come un possesso originale e inalterabile della loro razza, sin dal principio del mondo.»
«Ad un più vasto esame [oltre il rito di Aricia] dobbiamo ora rivolgerci. Sarà lungo e laborioso, ma avrà forse l’interesse ed il fascino di un viaggio d’esplorazione e di scoperta, in cui visiteremo molte e strane terre lontane, e strani popoli dagli ancor più strani costumi. Il vento soffia tra le sartie: spieghiamo dunque al buon vento le nostre vele […]»
Buona lettura!
Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi
NOTA: In caso di riproduzione di tutto o parte di questo testo, si prega cortesemente di citarne l’autrice e Liber Liber.
Dall’incipit del libro:
Chi non conosce il Ramo d’oro del Turner? La scena del quadro, tutta soffusa da quella aurea luminescenza d’immaginazione con cui la divina mente del Turner impregnava e trasfigurava i piú begli aspetti della natura, è una visione di sogno di quel piccolo lago di Nemi, circondato dai boschi, che gli antichi chiamavano «lo specchio di Diana». Chi ha veduto quell’acqua raccolta nel verde seno dei colli Albani, non potrà dimenticarla mai piú. I due caratteristici villaggi italiani che dormono sulle sue rive e il palazzo egualmente italiano i cui giardini a terrazzo digradano rapidamente giú verso il lago, rompono appena l’immobilità e la solitudine della scena. Diana stessa potrebbe ancora indugiarsi sulle deserte sponde o errare per quei boschi selvaggi.
Nei tempi antichi questo paesaggio silvano era la scena di una strana e ricorrente tragedia. Sulla sponda settentrionale del lago, proprio sotto gli scoscesi dirupi su cui si annida il moderno villaggio di Nemi, si ergeva il sacro bosco e il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del bosco. Il lago e il bosco erano spesso conosciuti come il lago e il bosco di Aricia. Ma la città di Aricia (l’attuale Ariccia) era situata piú di tre miglia lontano, ai piedi del monte Albano, separata per mezzo di un’aspra pendice dal lago che giace in un piccolo cratere sul costone della montagna.

