Angelo Gualandris nacque nel 1750 a Padova da una famiglia bergamasca non benestante, sulla quale tutto si ignora a parte l’esistenza di due fratelli, uno abate e l’altro medico. Nell’ateneo della città pure lui si laureò in medicina nel 1771, ma i suoi interessi si estesero anche alle discipline geologiche, mineralogiche e agrarie, in un multiforme eclettismo che non stupisce: erano gli anni in cui l’università patavina si apriva con maggiori attenzioni alle scienze della natura, soprattutto per merito di Antonio Vallisneri senior (1661-1730), personalità di spicco nel campo medico, biologico e botanico, nonché pioniere nelle ricerche geologiche.
A Padova, inoltre, fin dal 1546 funzionava il primo Orto botanico istituito in Italia, e da non molto era stato aperto un pubblico Museo di storia naturale che era subito divenuto un indispensabile punto di riferimento per ricercatori e appassionati, senza contare l’attività istituzionale e sperimentale promossa dalla locale Accademia agraria, che da lì a poco sarebbe confluita nella patavina Accademia di Scienze, Lettere e Arti; e sempre a Padova operavano due personaggi insigni nell’ambito mineralogico, vulcanologico e paleontologico: Giovanni Arduino (1714-1795), fondatore della stessa Accademia agraria assieme al fratello Pietro (1728-1805), e l’abate Alberto Fortis (1741-1803).
Del resto la geologia e l’orittologia (così allora si definiva la disciplina che studiava i fossili) stavano assumendo una crescente rilevanza anche per le loro implicazioni dialettiche e speculative, poiché le indagini promosse dalla neonata geologia stratigrafica andavano evidenziando uno stridente contrasto col racconto della Bibbia (e quindi con gli assiomi dell’interpretazione cristiana), e mostravano come non fosse più sostenibile la teoria basilare che faceva risalire l’origine delle montagne al tempo della creazione, sollecitando perciò l’urgenza di reimpostare l’intera materia su presupposti metodologici rinnovati.
Ambizioso e volitivo, tra questi variegati filoni il Gualandris si legò alle tematiche indagate dagli Arduino e in specie da Pietro, diventando per suo tramite vice segretario dell’Accademia agraria già da studente, e coltivando la mal celata aspirazione di poter presto conseguire una cattedra universitaria che il progresso delle proprie ricerche e l’appoggio dei due fratelli gli facevano auspicare.
Grazie al loro insegnamento, infatti, aveva acquisito una precoce e inusuale competenza interdisciplinare, e volendo inserirla in un orizzonte scientifico più organico e di più vasto respiro, nel 1775 decise di compiere a sue spese un lungo viaggio di perfezionamento in Europa: il programma mirava ad apprendere nuove conoscenze botaniche, naturalistiche e agronomiche, maturare più approfondite cognizioni sulla natura dei suoli e sulle tecniche di estrazione mineraria, incontrare i principali geo-naturalisti, e procurarsi materiale da collezione e raffronto nelle visite a musei e collezioni raggiungibili lungo il percorso.
Principiato nel luglio 1775 dal Bellunese lungo la strada che unisce Brescia al lago d’Iseo, l’itinerario proseguì nel Bergamasco, passò in Svizzera con sosta a Zurigo, e da qui puntò sulla Germania facendo tappe a Strasburgo, Mannheim e Kirn; successivamente il Gualandris scese in Francia, recandosi a Parigi e nei suoi dintorni prima di giungere in Inghilterra da Calais e concedersi una sosta a Londra, preliminare alle visite nei centri minerari del Derbyshire. Rientrato a Londra, ritornò a Parigi e raggiunse Lione, per concludere l’ultima tappa a Torino agli inizi di aprile del 1777.
Nelle intenzioni il viaggio avrebbe dovuto durare di più, se a interromperlo non fosse intervenuta la morte di Antonio Vallisneri junior (1708-1777), docente di scienze naturali nell’ateneo patavino. Ritenendosi sicuramente appoggiato e ormai maturo per succedergli, il Gualandris rientrò subito a Padova, e con giovanile baldanza unita a una buona dose di presunzione e di esuberante autostima si propose come supplente alla cattedra, presentando al corpo docente un innovativo piano didattico.
La reggenza però premeva pure al Fortis, che oltre a essere stato tra i più diretti collaboratori del Vallisneri vantava una maggiore esperienza e un prestigio consolidato dal sostegno di ragguardevoli scienziati veneti e toscani, mentre il Gualandris appariva uno studioso ancora in formazione, seppur valido e in grado di contare sull’influente spinta di Giovanni Arduino, vulcanologo e mineralogista di chiara fama, e forse il più rinomato geologo del momento.
Gli indugi del corpo docente alimentarono un incauto ottimismo nel più giovane aspirante, ma il Fortis non era l’unico rivale, e finì che il posto non toccò a nessuno dei due. Tuttavia da parte sua il Gualandris non si perse d’animo e si ricandidò, stavolta a una cattedra di Farmacia chimica per gli studenti di medicina: e fu un’altra delusione per il velleitario e impulsivo proponente, tanto orgoglioso di sé quanto del tutto inesperto degli equilibrismi politici perseguiti dal senato accademico, e privo delle entrature determinanti per condizionarli a proprio favore; né miglior esito avrebbe ottenuto quando, nell’inoltrato 1783 e ormai in rotta con Padova, col medesimo malaccorto atteggiamento si sarebbe indirizzato allo studio di Venezia nella vana speranza di ottenervi un insegnamento di Chimica medica.
Nel mezzo delle ricusazioni universitarie intervennero più gravi e pesanti assilli. Di modeste risorse, per realizzare il viaggio il Gualandris si era pesantemente indebitato, tra l’altro riponendo eccessiva fiducia nelle promesse ricevute dai Deputati alle miniere della Repubblica veneta, cui si era rivolto per ottenere le necessarie credenziali. Fiutando il tornaconto di poterlo utilizzare a breve per la ricerca di giacimenti minerari nel territorio della Serenissima (come di fatto sarebbe avvenuto), costoro approvarono il progetto facendogli balenare uno sbocco occupazionale al suo rientro, insieme con la promessa di una compartecipazione alle spese del viaggio in cambio di periodiche relazioni da redigersi durante il soggiorno.
Ma a ritorno avvenuto e a conti fatti il contributo risultò di ben poco peso, e un prolungato e angustiante dissesto economico andò a sommarsi all’avvilimento per le cattedre mancate e alle frustrazioni per un’affermazione che il Gualandris riteneva di meritare anche in seguito ai buoni frutti che adesso scaturivano dalle esperienze e dagli apprezzamenti conseguiti in quel viaggio: nel 1777, infatti, era stato cooptato nella Società Fisiocratica di Lunden, e l’anno successivo era uscita la sua elogiata traduzione dal latino dell’opera di Giovannantonio Scopoli, Principi di mineralogia sistematica e pratica; nel 1778 era stata poi la volta delle Osservazioni geologiche sopra il Monte Rosso, uno degli Euganei del Padovano, con riflessioni orittologiche intorno alla natura e all’origine de’ materiali di esso Monte, e di altri analoghi, un rilevante contributo sul controverso problema dell’origine del basalto apparso a puntate nel quotato “Giornale d’Italia”.
La situazione parve a una svolta quando, facendo leva sulle sue competenze tecniche, nel 1781 il patrizio Giacomo Nani lo convinse a esplorare le montagne del Vicentino per verificare la potenziale esistenza di filoni minerari sfruttabili a livello industriale. Il Gualandris espletò diligentemente l’incarico, e dopo aver scoperto un giacimento di carbon fossile presso Arzignano si rimase d’accordo che gli sarebbe toccata la direzione dell’impianto assieme a una consistente percentuale sugli introiti; senonché il Nani, titolare dello sfruttamento, da lì a poco disattese i patti, e il Gualandris si vide costretto a imbarcarsi in una causa giudiziaria che si sarebbe penosamente prolungata nel tempo e addirittura oltre la fine dei suoi giorni.
È in questo clima di precarietà e di incertezze esistenziali che va inquadrata la pubblicazione delle Lettere odeporiche, l’opera sua più rappresentativa. Edita a Venezia nel 1780 sotto forma di epistole inviate a un corrispondente anonimo e probabilmente fittizio, è l’esposizione del lungo viaggio in Europa concluso tre anni prima, che il Gualandris assemblò dai propri appunti con lo scopo non recondito di avvalersene in quella prospettiva accademica che giusto allora toccava l’apice delle sue malriposte aspettative.
Resoconto di un originale tour di formazione scientifica, il libro rientra in una tipologia poco rappresentata nella letteratura italiana di viaggio, ed è da giudicarsi tanto più atipico e singolare se lo si rapporta alla giovanissima età del viaggiatore-studioso, che appena venticinquenne e mai prima uscito dall’Italia, affrontò l’impegnativa trasferta con la sola compagnia di se stesso. La particolare struttura dell’opera, i suoi specifici contenuti e il linguaggio tecnico lasciano poco spazio a tematiche diverse dagli argomenti specialistici affrontati ed esposti da un uomo di scienza apparentemente insensibile a tutto quanto esulasse dalla rigida osservanza del suo programma operativo, al quale era d’altronde vincolato dalla consapevolezza di muoversi col denaro contato.
Nel libro, perciò, il lettore non troverà né cercherà notazioni paesaggistiche, descrizioni monumentali e cronache di intrattenimenti mondani, ma potrà seguire il giovane Gualandris nei suoi incontri emozionali con i più bei nomi dei naturalisti del tempo, lo accompagnerà in una miriade di raccolte e di musei pubblici e privati; assieme a lui si aggiornerà sulle discussioni del momento, e in particolare sulle dispute che stavano appassionando il mondo scientifico in merito all’impiego dell’anidride carbonica (l’“aria fissa”, come veniva chiamata) e sulla reale esistenza del “flogisto”, ineffabile sostanza che si riteneva insita nei corpi combustibili; comparteciperà alle misurazioni della temperatura a Parigi e all’analisi dell’acqua della Senna; percorrerà le campagne in lungo e in largo per informarsi sui sistemi di coltivazione e di sfruttamento agricoli; e spesso si calerà nei cunicoli di ogni sorta in cave e miniere che, minuziosamente descritte assieme alle loro macchine, fanno oggi delle Lettere odeporiche una rilevante testimonianza documentaria nel campo storico-minerario.
Nel suo specialismo è dunque un libro insolito, da cui emerge una figura eminentemente pragmatica e dotata di una capacità di osservazione acuta, meticolosa e a tratti pedante, ma sempre pronta a cogliere gli aspetti utilitaristici dello sfruttamento delle risorse naturali, nel solco della migliore tradizione dell’illuminismo scientifico.
Attorno al 1768, per presumibile interessamento di Pietro Arduino, il Gualandris era entrato in relazioni di lavoro con la marchesa Maria Teresa Cristiani Castiglioni (1735-1803), una nobildonna mantovana assai colta, influente e di ampie relazioni altolocate. Rimasta vedova in giovane età, era una proprietaria terriera di larghe vedute e aperta alle innovazioni dischiuse nell’ambito della cosiddetta “agricoltura pratica”, che volentieri sperimentava con l’aiuto di esperti consiglieri, fra i quali il nuovo arrivato si guadagnò presto una posizione di rilievo. Dagli iniziali formalismi la frequentazione con l’andar del tempo si trasformò in un lungo e via via più stretto rapporto amicale, che peraltro mai sconfinò in un più stabile legame affettivo: cosa che alla marchesa forse non sarebbe dispiaciuta, se a inibirla non avessero concorso il troppo accentuato divario di età (tra i due c’erano quindici anni di mezzo), le vincolanti remore della differente collocazione sociale, e il carattere individualistico dello stesso Gualandris, restìo a subordinare gli impegni occupazionali alle ragioni dei sentimenti.
A ogni buon conto la Cristiani Castiglioni non tardò a prendere a cuore i casi di un interlocutore capace e suo malgrado inconcludente, ne raccolse le confidenze progettuali, lo seguì durante il viaggio europeo attraverso le notizie epistolari che egli le andava comunicando con insospettate doti affabulatorie, e lo consolò nelle ripetute disillusioni dei miraggi accademici; a sua volta, insomma, ne divenne una preziosa consigliera, e, condividendone le sempre più incalzanti preoccupazioni economiche, con pazienti maneggi si adoperò presso il governo austriaco, riuscendo finalmente ad assicurargli una decorosa sistemazione: il che avvenne nel 1783, con la chiamata alla cattedra di Storia naturale e botanica officinale nel regio ginnasio a Mantova. Non era la tanto sospirata chimera universitaria, che comunque il Gualandris avrebbe continuato a inseguire fino all’ultimo (è del 1787 un ulteriore ed estremo tentativo a Pavia), però la disciplina si attagliava perfettamente al suo profilo professionale, e Mantova lo accolse con reciproca soddisfazione.
Organizzatore entusiasta e di eccellenti capacità didattiche (ma, a detta di qualche coevo detrattore, anche decisionista spocchioso e sprezzante delle altrui opinioni), già l’anno dopo fu chiamato a dirigere il locale Orto botanico in qualità di prefetto, e lo trasformò in un funzionale laboratorio che affiancò all’insegnamento in una funzionale simbiosi teorico-pratica volta soprattutto a formare gli aspiranti medici, i farmacisti e gli speziali. Oramai esclusivamente assorbito dall’attività agronomica, alternava i doveri della docenza alle pubbliche lezioni, e presto ammesso nell’Accademia mantovana di Scienze, Belle Lettere e Arti diventandone pure socio onorario, come attivo consulente e instancabile animatore, rivitalizzò la gestione della Colonia agraria, istituita dall’amministrazione austriaca in seno alla stessa Accademia per elaborare e promuovere la ripresa agricola nell’ex territorio dei Gonzaga.
Il suo zelo non sfuggì al governo asburgico, che nel 1785 gli conferì il gradito incarico di ispettore agrario provinciale, mediante il quale compì dettagliate verifiche nelle campagne, corredandole con puntuali relazioni ispettive e principiando dalle situazioni più povere nell’Alto Mantovano: qui si prodigò per introdurre la coltivazione degli ulivi e per portare l’irrigazione nelle terre incolte, e dall’esperienza nacquero i Dialoghi agrari tenuti in Cavriana l’anno 1786, editi nel 1788.
Era nel pieno dei suoi compiti quando all’improvviso la salute cominciò a vacillare e declinò per cause poco chiare, che gli altalenanti attacchi febbrili curati con insistite terapie di china farebbero però individuare nel rapido e funesto evolversi di una sindrome malarica, probabilmente contratta nel corso delle ispezioni rurali. Inattesa, la morte sopraggiunse il 6 dicembre del 1788: Angelo Gualandris aveva da poco compiuto 38 anni.
Bibliografia:
Esponente di una branca non umanistica del sapere, Angelo Gualandris non compare nelle storie e nei repertori letterari, e per il precipuo carattere regionalistico di quasi tutti i suoi numerosi scritti (in gran parte rimasti inediti) su di lui tacciono anche le opere enciclopediche correnti. D’altronde solo da poco si è assistito a una rivalutazione se non a una scoperta del suo nome, adesso compreso nell’ampia antologia di N. Clerici, Scrittori italiani di viaggio, I (1700-1861), Milano 2008, con una premessa biografica (p. 737), e la pubblicazione dell’epistola dell’8 marzo 1777 contenuta nelle Lettere odeporiche (pp. 740-755); altrettanto recente è poi l’esauriente monografia collettiva Angelo Gualandris (1750-1788). Uno scienziato illuminista nella società mantovana di fine Settecento, Mantova 2018 (dalle cui informazioni si è principalmente attinto per il presente profilo): oltre ai contributi dedicati alle tappe geologiche e mineralogiche (F. Baraldi) e alle esperienze nel settore agrario e agronomico (E. Camerlenghi), spicca lo studio di N. Azzi, che ricostruisce l’evolversi dell’affettuosa amicizia con Maria Teresa Castiglioni Cristiani attraverso la loro inedita corrispondenza, e mette in luce i risvolti umani di un personaggio finora confinato nello stereotipo cliché di un esclusivo uomo di scienza. Sull’ambiente formativo del Gualandris restano imprescindibili i riferimenti di F. Venturi, Settecento riformatore, V. 2, L’Italia dei lumi (1764-1790): La Repubblica di Venezia, Torino 1990, pp. 58-63.
Note biografiche a cura di Giovanni Mennella
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- Lettere odeporiche
Resoconto di un originale tour di formazione scientifica, il libro rientra in una tipologia poco rappresentata nella letteratura italiana di viaggio, ed è da giudicarsi tanto più atipico e singolare se lo si rapporta alla giovanissima età del viaggiatore-studioso, che appena venticinquenne e mai prima uscito dall’Italia, affrontò l’impegnativa trasferta con la sola compagnia di se stesso.