Il testo è stato preparato in collaborazione con Giuseppe Bonghi, responsabile del sito “Biblioteca dei Classici Italiani” (http://www.classicitaliani.it/), e con Dario Zanotti, responsabile del sito “Libretti d’opera italiani” (http://www.librettidopera.it/).
Dall’incipit del libro:
FABR. Questa è la lettera che va al marchese di Cappio.
GIU. Sentiamo. Illustrissimo Signore, Signor mio colendissimo. Perché non ci avete messo il Padrone?
FABR. Perdoni; mi pare che scrivendo una dama ad un cavaliere che non è più di lei, non le convenga usare questo titolo di umiliazione.
GIU. No, no, io penso diversamente. Se esaminiamo i titoli che si danno, e quelli che si usano nelle soscrizioni, sono per lo più eccedenti alla verità, e qualche volta contrari all’animo di chi scrive. Ma dall’uso ne è derivato l’abuso. Mio Signore e mio Padrone suonano l’istessa cosa, e siccome questo titolo duplicato a me niente costa, e niente reca di più a chi scrive, io soglio usarlo prodigalmente. Molto più volentieri abbondo in termini di rispetto e di umiliazione con quelle persone dalle quali desidero qualche cosa; e spesse volte un titolo rispettoso, un’espressione di stima, move l’animo di chi legge, e ricompensa l’onore col benefizio. Io son contenta finora del mio sistema. Non ho mai trovato che la cortesia mi pregiudichi. Ho riscosso dagli altri quella civiltà medesima che ho praticata. Ho mantenute non solo, ma aumentate di giorno in giorno le corrispondenze, e sono a portata di far piacere agli amici, di far del bene ai raccomandati, e di superare qualunque impegno.
FABR. Savissimo è il pensamento della padrona; ma mi permetta il dirle, che il signor don Properzio pensa molto diversamente.


