Eugenio Garzolini nacque a Trieste nel 1873, primogenito di Giuseppe Lorenzo, pittore e appartenente a una famiglia di irredentisti originaria di Enemonzo del Friuli.

Fin da giovanissimo prese parte attivamente alla vita politica e culturale della città. A soli 18 anni era già maestro e fu fervente patriota al punto che il Consiglio della Città gli affidò l’incarico di fondare la prima scuola italiana a Trieste, la civica scuola di Guardiella. In veste di dirigente più volte Garzolini si frappose alla repressione austriaca che non vedeva di buon occhio il sorgere di una scuola italiana parallela alla tradizionale scuola slovena. La sua carriera scolastica proseguì poi nel primo dopoguerra e fu direttore scolastico.

Narra lui stesso come la passione per il collezionismo lo abbia raggiunto precocemente quando acquistò una vecchia chiave di ferro da un venditore ambulante:

«Una mattina – avevo appena diciott’anni – giunto alla mia scuola, la trovai chiusa, perché all’ora di apertura mancava una ventina di minuti. Per ammazzare il tempo, pensai di fare quattro passi in quei paraggi. Allora, ai due lati delle contrade adiacenti numerosi venditori di stracci, di cappelli stinti, di mobili scardinati, di scarpe smesse, esponevano ogni giorno al sole e alla pioggia le loro cianfrusaglie. Quel giorno io andai a godermi quella pittoresca esposizione, così, per isbolognare quei pochi minuti. Né i cappelli, né le vesti, né i mobili fermarono la mia curiosità. Fui attratto invece dalla foggia strana d’una vecchia chiave arrugginita, che si trovava fra migliaia di chiavi, serrature, viti, chiodi e altri ferrivecchi, gettati alla rinfusa sopra una stuoia messa a terra. Raccolsi quella chiave, la girai e rigirai in ogni senso, richiamando la sospettosa attenzione del venditore, che mi ammonì a metterla giù, come se avessi avuto l’intenzione di appropriarmene! “Quanto costa?” domandai per tutta risposta. “Cinque soldi”, mi rispose brusco il venditore. Trassi i cinque soldi dalla tasca e glieli consegnai in cambio della chiave, certo di aver trovato un oggetto raro. A casa, il mio babbo, vedendo la chiave, mi chiese un po’ canzonatorio: “E la serratura?”, rendendomi pensoso al punto che, il giorno dopo ritornai a cercare sulla stuoia la serratura, che non trovai; ma, per dieci soldi, acquistai invece, lì appresso, da un altro rigattiere, che aveva le sue carabattole su un carretto coperto da un tappeto sdruscito (che non so quante volte mi son poi pentito di non aver acquistato!) un barattolo di maiolica, che conservo tuttora, proveniente dall’antica farmacia Rondolini, che in quegli anni esisteva ancora a Trieste. Non ostante questo secondo ritrovamento, i miei primi passi di collezionista furono direi istintivamente dominati dal pensiero di raccogliere i documenti dell’evoluzione della serratura, in modo da testimoniare la complessa storia di questo simbolo del possesso. E lentamente, perché i miei guadagni erano scarsi, riuscii, a forza di ricerche e sacrifizi, a formarmi una collezione di chiavi romane, bizantine, gotiche, del Rinascimento, per salire fino alla metà dell’Ottocento. Chiavi di tutti i tipi, di tutte le dimensioni, di tutte le deformazioni, tutte le curiosità del genere: da quelle delle città, che venivano consegnate come pegno al signore o al vincitore, che vi entravano trionfatori, a quelle delle case, degli armadi, dei forzieri, degli scrigni, dei cofani, delle cassapanche, delle casseforti, delle carceri e persino delle tombe. […]
Ma in breve la passione del collezionista oltrepassò la linea che mi ero fissata, soffermandosi ai ferri battuti propriamente detti. Quando non li trovavo a Trieste, andavo a cercarli nel Friuli, in Istria, in Dalmazia, nel Veneto; più tardi nelle Marche, nell’Emilia, in Toscana, in Umbria e giù fino a Salerno, annodando relazioni coi più seri collezionisti […] In questi miei viaggi avvicinai altresì i così detti “trucchisti”, come si chiamano in gergo antiquario tutti i rifacitori, gl’imbonitori e i falsificatori d’antichità […]. Contatto questo salutare quant’altro mai, perché affinò siffattamente il mio intuito e siffattamente accrebbe la mia esperienza, da immunizzarmi, spero per sempre, contro le malefatte di certi stoccatori che speculano sulla dabbenaggine altrui». (E. Garzolini: Il Museo «Garzolini» di Trieste, in Atti del primo convegno internazionale per le arti figurative. Firenze 1943, pag.190-191)

Il soprintendente Luigi Pavan – che negli anni ’80 fece finalmente aprire le casse nelle quali dal periodo bellico era rimasta chiusa nelle soffitte del Miramare la collezione Garzolini – chiama questa fase iniziale «periodo del ferro», rifacendosi direttamente alle parole del Garzolini stesso. In questa “fase” raccolse chiavi, serrature, alari, acciarini, ferri da stiro, morsi da cavallo, speroni. Il suo interesse si estese poi ai bronzi (statuine, testine, busti, mortai da farmacia dal XV al XVI secolo, accessori per mobili), alle miniature d’avorio di fine Settecento e Ottocento, ai corni da caccia, ai sigilli gentilizi, punzoni e timbri di ogni genere, calchi di pietre dure che riproducono esemplari romani e di epoche più recenti. Leggiamo come narra lui stesso questo ampliamento dei suoi interessi:

«Intanto un nuovo orizzonte più ampio si apriva dinanzi a me. Spinto sempre a cercare ciò che di più originale m’avveniva di trovare, non ebbi più pace. Rubando le ore al riposo, girai tutta la Penisola arrampicandomi fino ai più sperduti paesetti di montagna, scendendo nelle valli, vagando di casolare in casolare, rovistando in ogni più riposto meandro. Così vennero i bronzi: figure, busti, testine, placchette, medaglioni, mortai; vennero i rami: secchielli, secchie, scaldini, stampi; vennero gli ottoni, vennero i peltri. Poi sigilli gentilizi, punzoni, timbri, corni da polvere, miniature, smalti, tabacchiere, bastoni, ventagli, maioliche […] Infine terracotte naturali e policromate, stucchi, sculture in legno, croci processionali […]
Di oggetto in oggetto, questo materiale si arricchiva sempre più, assumendo a mano a mano la sua consistenza, le sue ramificazioni, le sue proporzioni, da principio confusamente, poi limpidamente, disponendosi in tutti gli angoli della casa dalla cantina alla soffitta.
Qui devo per altro convenire che la fortuna mi soccorse, in primo luogo, col farmi conoscere il dott. Bruno Molajoli – Soprintendente ai Monumenti e alle gallerie della nostra Regione – il quale richiamò l’attenzione delle Autorità superiori sul significato delle cose mie, che sia pure modestamente, rappresentano presso che tutte le attività artigiane d’Italia attraverso i secoli; poi, col darmi la possibilità di adunare, ordinare ed esporre i singoli “pezzi” fondendo la poesia del passato con la poesia del presente, in una vecchia villa triestina, sul colle di Scorcola […] un bel giorno il Ministero della Pubblica Istruzione mandò un perito di sua fiducia – il direttore dell’Istituto d’Arte di Firenze, Ferruccio Pasqui – a constatare l’importanza e il valore del materiale raccolto, col preciso incarico di riferirgli. […] un brutto giorno (brutto, perché veniva a togliermi la mia creatura) mandò un Ispettore generale alle Arti e alle Antichità, per riesaminare le cose mie e studiare l’opportunità di assicurare ai Musei statali l’intiero complesso, che nel frattempo – cioè in quaranta e più anni di febbrile avventurosa esistenza – aveva superato i ventimila “pezzi”, diciottomila dei quali passarono in proprietà dello Stato […]
Conclusione felice, cui si potè arrivare anche grazie all’appoggio del Comune e della Provincia di Trieste, che si assunsero l’onere dell’affitto, affinché il Ministero, o chi per esso, potesse trasformare la mia villa in un “Museo Artigiano”, o in un “Museo delle Arti Minori”, o in un “Museo delle Arti applicate”, che dir si voglia: non in un cimitero d’Arte, ma in un vivaio della genialità italica, creato per dare nutriti germogli alle tradizioni del nostro Pese, intonandole alle nuove esigenze di vita. Apportatore di nuovi sviluppi d’Arte a incremento del nostro Artigianato, questo Museo non dev’essere considerato alla stregua degli altri musei: vale a dire non un luogo d’arrivo o di sosta, dove si raccolgono in uno stato di dissolvimento i detriti della storia, sì piuttosto un luogo di partenza verso altre più fulgide vette! Museo che, per la vigile solerzia dell’arch. Fausto Franco – attuale Soprintendente ai Monumenti e alle Gallerie della nostra Regione – da un pezzo sarebbe già aperto al pubblico, se lo scoppio del secondo conflitto mondiale non avesse guastato il progetto, ritardandone la sistemazione e rimandandone la inaugurazione al giorno in cui la pace tanto auspicata finalmente lo permetterà.» (E. Garzolini: Il Museo «Garzolini» di Trieste, in Atti del primo convegno internazionale per le arti figurative. Firenze 1943, pag.191-192)

Un nucleo della sua raccolta era dedicato agli orologi da tasca di un’epoca che va tra la fine del XVII e la metà del XIX secolo, prevalentemente provenienti dalla Svizzera francese. Raccolse inoltre ventagli, bastoni da passeggio, cassepanche e cassette databili tra il quattrocento e il settecento. Nella sua collezione si trovano inoltre croci processionali e arredi sacri, impugnature di spada, posate, forbici, temperini, pesi e misure, fibbie, utensili da artigiano e persino armi. Collezionò anche quadri antichi, disegni, tempere e acquarelli di pittori ottocenteschi o del primo novecento nati e vissuti a Trieste. Questi ultimi furono posti in vendita dagli eredi alla sua morte avvenuta nel 1952. Nel 1938 Garzolini donò al Museo Teatrale Carlo Schmidl di Trieste una collezione di programmi e libretti d’opera che comprendeva 2730 pezzi. La Collezione Garzolini fu già oggetto di notifica d’importante interesse nel 1923 da parte della Soprintendenza, notifica annullata nel 1927.

L’abitazione del Garzolini in via Romagna era ormai quasi trasformata per intero in spazi museali e aveva destato l’interesse del responsabile dell’artigianato italiano Vincenzo Bronzo nel 1933. Qualche anno dopo fu visitata dal ministro per l’educazione nazionale Giuseppe Bottai e studiata da Antonio Morassi. Nel 1938 il sopraintendente Bruno Molajoli stipulò il primo contratto d’acquisto. Durante la guerra la collezione fu tenuta in considerazione anche nei progetti di protezione antiaerea, mentre il patrimonio artistico veniva concentrato a Villa Manin. La collezione Garzolini era ormai divenuta il Museo Arte Applicata e successivamente diverrà museo di Stato. La prima occasione di apertura al pubblico si ebbe nel 1983 quando l’opera di catalogazione e restauro avviata dall’iniziativa di Pavan fu tale da poter produrre un primo catalogo, pubblicato poi nel 1986. Questa prima mostra si svolse in Sala Franco a palazzo Economo.

Garzolini era divenuto nell’immediato secondo dopoguerra presidente del Curatorio del Museo Revoltella. Fu anche poeta, pubblicando alcune raccolte di poesie. Morì nel 1952.

Si è dato spazio in questa nota soprattutto alla sua attività collezionistica che è sfociata nell’allestimento di interessanti iniziative museali perché è stata questa senza dubbio l’attività primaria della vita e dell’attività di Eugenio Garzolini. La sua attività poetica, non memorabile certamente, ha tuttavia rappresentato un lato significativo dell’indole e della sensibilità di questo autore.

Fonti:

Note biografiche a cura di Paolo Alberti

Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)

  • Intermezzi
    Quattro poemetti
    Al di là della monotonia del verso, troviamo uno scorrere poetico fluido e disinvolto e può emergere una sincera e istintiva schiettezza che rende piacevole la lettura.
 
autore:
Eugenio Garzolini
ordinamento:
Garzolini, Eugenio
elenco:
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