Nel 1527, con la rovina dei Medici ed il sacco di Roma, Guicciardini entra in disgrazia nella sua Firenze, dove fino a poco prima aveva comandato per conto del papato. Scrive queste tre orazioni come autogiustificazione anche al fine di un possibile processo a cui temeva di essere sottoposto dal nuovo regime:
- “Consolatoria” è un discorso rivolto a se stesso, in cui cerca di dimostrare i motivi che ha per non rattristarsi.
- In “Accusatoria” immagina di essere un fantomatico accusatore di tutte le colpe possibili (e anche oltre), in uno stile declamatorio e populista.
- “Defensoria” è il vero stile di Guicciardini: secco, scientifico ed efficace, con cui smonta una ad una le accuse che si era appena inventate. Quest’ultima orazione appare mutilata nella forma in cui ci è giunta.
Dall’incipit del libro:
Io non mi maraviglio, Francesco, benché io ti cognosca di animo fermo e virile, che tu ti truovi ripieno di grandissimo dispiacere, perché sono concorsi in uno tempo medesimo troppi accidenti a perturbarti; né è solo la roba in che tu patisci, ma di più la grandezza, la degnità, e quello che io credo che ti pesi sopra tutte le cose, l’onore. Hai per la ruina del pontefice perduto la presidenzia di Romagna, luogo che ti dava grandissima utilità e tanta riputazione, che ogni uomo grande e nato in maggiore grado che privato, se ne sarebbe onorato; hai perduto uno pontefice che t’aveva singulare affezione, ma molto maggiore confidenzia, e che voleva che ordinariamente tu stessi apresso a lui e consigliassi e trattassi tutte le faccende importante e segrete dello stato, e ne’ tempi della guerra t’aveva proposto a eserciti con tanta autorità che maggiore non aveva riservata a sé.


