Dall’incipit del libro:
Questo non vuol essere un saggio sul Pusckin; ma, piuttosto, l’esposizione di certi fatti e di certe osservazioni critiche, che si ricollegano alle prose del Pusckin, e potrebbero giovare a una piú compiaciuta e penetrante lettura.
Soprattutto una cosa io non vorrei: che in queste prose si badasse solo al «fatto» o, per il pregiudizio che i russi abbian da essere sempre maestri di psicologia, all’«analisi»; tanto piú che allora non ci si troverebbe niente, o ben poco. Se molti critici si sono comportati cosí, si sono poi tratti indietro quasi prima d’aver guardato; e infatti non è da loro che c’è da aspettarsi un elogio giustificato e convinto. Semmai, furono gli artisti a mostrar d’intendere meglio un fascino cosí severo e profondo: il Gogol notava l’ingenua superficialità di chi s’era lasciato indurre in inganno dall’aspetto disadorno di quella ch’era precisione poetica; il Dostojevskij, coll’entusiasmo che il Pusckin suscitava sempre in lui, esclamava: «Comparire con Il negro di Pietro il Grande e col Bjélkin vuol dire comparire davvero con una geniale parola nuova, che finora non era stata affatto detta, in nessun luogo né mai». Una speciale finezza di discernimento, una esperienza profonda dell’arte avevano suscitato quei giudizi: il pubblico si disinteressava un poco di queste «opere minori» che ammirava per convenienza, ritornando, con un amore che non si affievoliva, all’Onjéghin, al Boris, alle liriche. Il fenomeno è curioso solo in apparenza: ricercandone l’origine c’è modo di chiarire anche la natura di queste prose.

