La prima stesura dell’opera coincide con l’idea di rinunciare alla carriera di storico, difatti in quegli anni aveva già architettato una Storia dell’Ucraina con intenti quasi messianici, volendo porsi da guida e maestro. Questa novella storica invece nasce da una libera rievocazione di atmosfere storiche che vanno dal XV al XVIII secolo nella quale al posto delle fredde cronache trova posto l’epica popolare.
In questa opera emergono le tematiche della duma, del canto popolare ucraino, dell’eterna lotta fra cattolici e ortodossi, dell’autonomia dei cosacchi ed il codice di onore e di dedizione che lega gli abitanti tra loro.
Ambientato all’incirca nell’Ucraina del XVII secolo, devastata dai tatari, governata dai polacchi e messa a ferro e fuoco dalle scorribande di cosacchi, tale racconto narra le imprese di uno dei condottieri di questi ultimi, Taras Bul’ba. Affiancato dai figli Andrej ed Ostap, assalta la città di Dubno, ma Andrej, per amore di una polacca, tradisce i suoi, passando nelle schiere nemiche. Durante uno scontro sarà poi isolato in una selva, avvicinato dal padre, convinto a scendere da cavallo e ucciso da questi a sangue freddo con un colpo di fucile.
Ostap, intanto, viene fatto prigioniero e portato a Varsavia dove viene torturato e giustiziato. Nonostante il nuovo Etmano dei Cosacchi abbia concluso un accordo di pace con i polacchi, Taras giura vendetta, penetra in Polonia seguito dai cosacchi a lui fedeli ma, dopo scontri che lo vedono vincitore sul campo, viene fermato dal generale Potocki, alle porte di Cracovia. Catturato verrà torturato e in seguito arso vivo, legato ad un albero.
Note biografiche tratte da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Taras_Bul’ba
Dall’incipit del libro:
«Ma vòltati in qua, figliuolo! Quanto sei buffo! Che specie di sottane vi hanno messo addosso? E vanno tutti in giro così alla accademia?». Con queste parole il vecchio Bulba accolse i suoi due figliuoli che avevano studiato al seminario di Kiev e ora tornavano a casa dal padre.
I figliuoli erano appena smontati da cavallo. Erano due giovani dall’aspetto ancora impacciato, come seminaristi allora usciti di scuola. I loro visi energici, sani erano coperti da una lanuggine non per anco tocca dal rasoio. Confusi per quell’accoglienza del padre, stavano immobili, con gli occhi fissi in terra.
«Fermi, fermi! Lasciate che vi guardi un poco», seguitò il vecchio, rigirandoli da tutte le parti, «che lunghi palandrani avete addosso! Non ce ne sono dei simili al mondo! Si provi a correre uno di voi altri! Starò a vedere se non inciampa nelle falde e ruzzola in terra».
«Non ridere, non ridere, padre!»; disse finalmente il maggiore dei due.
«Guarda come pigli fuoco! E perchè non dovrei ridere?».
Contiene “Il pastrano” dai Racconti di Pietroburgo.

