Dall’incipit del libro:
Se gli uomini avessero seriamente atteso ai successi che si narrano dopo questa dispersione delle genti e princìpi di tanti regni ed imperi sopra la terra stabiliti, a quella religione che fu da Noè tramandata a’ suoi figliuoli e da questi a’ loro posteri, alle loro leggi e costumi, ed a’ premi che speravano ed a’ castighi che temevano; certamente che saremmo ora fuori di tante vane larve e di tanti errori ed illusioni e di tanti vani timori e pregiudizi che abbiamo succhiato col latte delle nostre madri. Ci han dipinta quest’infausti e malaventurosi indovini tutta la posterità di Noè per una massa perduta e dannata, e che tutti gli uomini dopo il peccato d’Adamo per propria natura ed original vizio fossero destinati alla perdizione e ad eternamente penare nel Tartaro ne’ più profondi e ciechi abissi dell’inferno, dove in compagnia de’ neri e tristi diavoli che furon scacciati come ribelli dal cielo, miseramente dovran essere tormentati ed afflitti; che l’essere stati alcuni sottratti dal comune flagello, come gl’antichi patriarchi Noè, Abramo, Isaac, Giacobbe, e tutti coloro che furono a Dio cari, ciò gli avvenne per ispecial sua grazia e privilegio e fuori del natural corso della loro condizione, che gli porta tutti all’inferno come a suo centro ed ultimo fine; che perciò niuno ha ragione di dolersi perché fu riposto fra l’infinito numero de’ reprobi e non in quello assai corto degl’eletti, poiché niun torto od ingiustizia se gli fa, avvenendo ciò per proprio e natural istinto; e siccome niuno si maraviglia perché l’acqua corre all’ingiù, così non dobbiamo maravigliarci, e molto meno dolerci, se tutti come massa dannata corriamo alla perdizione; né dev’esser tocchi d’invidia se Iddio alcuni pochi sottraga da questa fatal rovina, avvenendo ciò per suo special favore grazia, che dispensa gratuitamente a suo arbitrio ed a chi gli piace, valendosi della parabola dell’Evangelio e di quelle parole: «Amice, non facio tibi iniuriam, tolle quod tuum est et vade».


