Federico Hermanin de Reichenfeld nacque a Bari nel 1868. Entrambi i genitori, Federico Leopoldo e Camilla Marstaller, erano di origine austro-tedesca e di religione luterana. Il padre, ufficiale di stato maggiore e aiutante di campo onorario di Umberto I, prese la residenza a Bari dove era presente una folta comunità tedesca e austriaca. La famiglia si trasferì spesso da allora, ma Federico rimase legato a quella comunità straniera e il legame si fece più stretto quando sposò Margherita Hausmann, figlia del console di Danimarca a Bari. Dopo aver seguito la famiglia di origine in vari spostamenti, Federico arrivò a Roma e in questa città fissò definitivamente la sua dimora.
Qui egli compì gli studi universitari e nel 1895 si laureò con una tesi di filologia sulla diffusione in Italia del poema Tristano, l’opera fondamentale del poeta medievale Gottfried von Straßburg (1180 c. – 1215 c.). Subito dopo passò ad approfondire lo studio della storia dell’arte, seguendo i corsi di specializzazione appena istituiti da Adolfo Venturi (1856 – 1941), volti a formare i funzionari che avrebbero occupato i posti di direttore museale o di funzionario delle belle arti nell’amministrazione pubblica. Nel giro di un anno, nel 1896, vinse una borsa di studio bandita dalla neonata scuola di specializzazione.
Gli studi filologici incentrati sull’analisi delle fonti erano, secondo Hermanin, perfettamente applicabili allo studio delle opere d’arte, studi nei quali, sulla scorta degli insegnamenti di Venturi, era sempre presente la ricerca delle origini. In quest’ottica il giovane Hermanin affrontò lo studio dell’importantissima scoperta, nel 1900 durante un sopralluogo nella basilica romana di S. Cecilia in Trastevere, del grande affresco del Giudizio universale che egli subito e senza esitazione attribuì al pittore romano Pietro Cavallini (1240 c. – 1330 c.). Da quel momento e su quell’argomento Hermanin scrisse prima una breve relazione sulla scoperta (Un affresco di P. Cavallini a S. Cecilia in Trastevere, in “Archivio della Regia Società romana di storia patria”, 1900, XXIII, pp. 397-410); poi un articolo (“L’Arte”, 1901, IV, pp. 239-244) in cui evidenziò la raffinatezza e la qualità dell’opera dell’artista romano; infine uno studio più approfondito, dal titolo Gli affreschi di Pietro Cavallini a Santa Cecilia in Trastevere, nel quale inserì il Giudizio universale nel contesto più ampio della figura e dell’opera di Cavallini e dell’arte a Roma alla fine del Duecento (“Le Gallerie Nazionali Italiane. Notizie e documenti”, 1902, V, pp. 61-115). Questo studio fu il frutto anche di un’indagine svolta da Hermanin per conto del Ministero a Napoli, Assisi e Firenze per completare il catalogo delle opere dell’artista romano ed approfondire la relazione tra questi e l’opera di Giotto ad Assisi. Ma naturalmente l’importante tema non si esaurì in questi tre documenti, avendo toccato uno dei problemi fondamentali legati alla nascita dell’arte ‘moderna’ e se questa ‘nascita’ andasse attribuita a Giotto o a Cavallini.
Dopo un articolo del 1923 (Il maestro di Giotto, in “Almanacco di Roma”, Spoleto), nel quale Hermanin esponeva chiaramente la sua idea indicando Cavallini come maestro dell’artista toscano, e dopo altre comunicazioni ed articoli, solo nel 1935 Hermanin riuscì ad avviare la sua opera fondamentale sull’arte medioevale a Roma (L’arte a Roma dall’VIII al XIV secolo), quando ricevette l’incarico dell’Istituto nazionale di studi romani, opera che fu data alle stampe solo nel 1945.
Nel 1902 Hermanin scoprì, nei pressi di Magliano Romano, la Grotta degli Angeli o Eremo di San Michele Arcangelo. In una suggestiva zona immersa nei boschi venne alla luce, dopo un degrado ed abbandono di secoli, un ambiente, scavato nella roccia forse da monaci orientali nel VI secolo, con solo l’abside e due colonne, in cattive condizioni, decorata con affreschi forse dell’XI secolo, che a scopo conservativo, furono staccati e collocati nella Chiesa di San Giovanni a Magliano. È stata fatta l’ipotesi che l’ambiente sostenesse un edificio di culto più vasto, di cui si hanno testimonianze fino al XVI secolo ma oggi del tutto scomparso. Il luogo può essere ancora oggi meta di interessanti escursioni.
Terminata la sua formazione ‘sul campo’ per la borsa di studio di specializzazione, collaborando alla catalogazione e al riordino della raccolta di disegni e stampe conservati nel Gabinetto nazionale delle stampe presso la Galleria nazionale d’arte antica di Palazzo Corsini, dove era direttore Venturi, Hermanin iniziò a lavorare in Galleria prima come assistente straordinario (1898) ed entrando poi nell’organico come viceispettore (1904). L’interesse di Hermanin per il mondo delle incisioni e il desiderio di renderne fruibile la conoscenza proseguì negli anni e lo spinse a curare mostre periodiche, a partire dalla prima nel 1897, che riscuotevano un vasto interesse. Proprio per la grande conoscenza acquisita, Hermanin nel 1899 ricevette dal Ministero un incarico ispettivo sulle più importanti collezioni di stampe in Italia e sul loro stato di conservazione. Nel 1921 costituì il Gruppo Romano Incisori Artisti, con il compito di raccogliere gli incisori più rappresentativi che in quegli anni operavano nella Capitale. Il gruppo aveva un proprio statuto e un preciso regolamento.
Nel 1898 aveva iniziato una stretta collaborazione con la rivista “L’Arte” fondata in quell’anno da Venturi. Tra il 1901 ed il 1904 ebbe una breve esperienza di docenza universitaria a Roma, prima con letture di iconografia artistica, poi con un corso alla scuola di specializzazione. Lui stesso chiese di non essere riconfermato nell’incarico, in considerazione che il suo vero interesse era l’amministrazione delle belle arti. Dal 1907 pubblicò anche sul “Bollettino d’arte”, rivista ufficiale del Ministero della pubblica istruzione. Nel 1904 Hermanin ebbe poi l’incarico di studiare i monasteri di Subiaco e dal suo lavoro scaturì la pubblicazione di Le pitture dei monasteri sublacensi (in I monasteri di Subiaco, Roma 1904, I, pp. 405-531).
Si affievolì la comunanza con Venturi, che nel 1904 aveva lasciato la direzione della Galleria nazionale d’arte antica di Palazzo Corsini, ma, sostenuto da Corrado Ricci (1858 – 1934) – studioso ricordato per aver riportato alla luce i Fori imperiali a Roma –, nel 1908 Hermanin divenne direttore della Galleria. Egli rimase alla direzione fino al 1933, sviluppando una forte politica di acquisizioni di opere pittoriche del Seicento e del Settecento – nel 1914 accolse in dono il famoso Narciso di Caravaggio –, ma anche opere in altri settori (disegni architettonici, bozzetti di scenografie, caricature, grafica recente, immagini della ‘Roma sparita’); egli si preoccupò anche attivamente della sistemazione degli spazi e delle moderne tecnologie di conservazione.
Nello stesso 1908, oltre alla direzione della Galleria,Hermanin ebbe anche un incarico provvisorio per la direzione del Museo nazionale romano e per la Galleria Borghese e nel 1910 assunse per solo un anno la direzione della soprintendenza alle Gallerie e Musei della Toscana, di cui faceva parte la Galleria degli Uffizi. Nel frattempo, oltre a questi incarichi di tipo prettamente museale, diresse il restauro di numerosi monumenti e opere d’arte del Lazio. Infine nel 1913 divenne soprintendente alle Gallerie e ai Musei del Lazio e degli Abruzzi e mantenne questo incarico fino al pensionamento nel 1938, pur continuando a collaborare fino al 1945.
Questo compito di soprintendenza lo coinvolse nel recupero delle opere d’arte dopo il terremoto della Marsica (1915). Il Ministero scelse di trasferire molte delle operenel Palazzo di Venezia a Roma. Da questo accidente nacque l’impegno museografico più rilevante di Hermanin: egli concepì un futuro per il Palazzo di Venezia, progettando i restauri e l’allestimento di quello che, nella sua mente, sarebbe dovuto diventare il Museo del Medioevo e del Rinascimento di Roma, per giungere a documentare fino al Risorgimento. Alla piena realizzazione del progetto di Federico Hermanin si è arrivati solo nei nostri giorni con il VIVE, uno degli “istituti di rilevante interesse di livello generale del Ministero della Cultura dotati di autonomia speciale, ovvero scientifica, finanziaria, contabile e organizzativa: istituito nel 2019, il VIVE è divenuto operativo dal 2 novembre 2020”, istituto che riunisce il Museo del Vittoriano con le sue collezioni risorgimentali e le collezioni del Palazzo di Venezia.
Il progetto sul Palazzo di Venezia è stato dunque il progetto della vita di Hermanin, quello su cui si è condensata la sua maggiore idea di museologia, la sua idea di amministrazione e gestione pubblica dei beni culturali, la sua concezione di uno spazio organico nel quale ogni tipo di bene culturale, anche le opere d’arte cosiddette minori (ceramiche, bronzetti, vetri, avori, tessuti, armi, strumenti musicali) concorressero a creare un’immagine completa, oggi diremmo a 360°, dell’arte e della cultura di un luogo e di un periodo storico. Nel caso particolare Roma dal medioevo al Risorgimento.
Scelto il Palazzo, che era stato sede dell’ambasciata di Venezia a Roma al tempo dei Papi, la realizzazione del progetto, avviato nel 1917 – ma al quale Hermanin pensava già dal 1906 –, trovò infinite difficoltà, che ne allungarono i tempi per oltre venti anni. Una prima apertura, in poche sale, avvenne nel 1921, grazie all’appoggio di Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione. Dopo una ‘preoccupante’ presenza saltuaria nel palazzo già dal 1924 di Mussolini, il quale ne vedeva le potenzialità di comunicazione alle folle riunite nella Piazza antistante, una brusca battuta d’arresto al progetto di Hermanin fu nel 1929, quando il governo fascista fissò nel Palazzo la sua sede di rappresentanza. Venne allora istituito un comitato per i lavori di sistemazione e Hermanin fu nominato direttore per la parte artistica e subito si impegnò nel restauro della sala del Mappamondo e della sala Regia, dove scoprì tracce di affreschi che attribuì a Mantegna e a Bramante. I lavori di circa trenta sale furono terminati nel 1936. Hermanin allestì una sorta di scenografia museale, ricca di importanti opere d’arte, che comunque non fu mai aperta al pubblico. In quell’anno egli fu incaricato di scrivere il volume Il Palazzo di Venezia, ma la guerra e la caduta del fascismo ritardarono la pubblicazione fino al 1948.
Sempre per il suo incarico di soprintendente alle Gallerie e ai Musei del Lazio e degli Abruzzi, nel 1930 diresse i restauri di Villa Farnesina. Nel frattempo Hermanin scrisse vari saggi di tipo più divulgativo (sulla Farnesina, sul mito di Giorgione, sull’appartamento Borgia in Vaticano, sul ritratto barocco romano, sulla vita quotidiana nelle stampe italiane, …) ed altri di maggiore rilevanza scientifica come i due volumi degli Artisti italiani in Germania (1933-1934), promossi dal Ministero degli affari esteri.
Il regime fascista era molto interessato allo sviluppo di studi che rafforzassero l’immagine di Roma come grandiosa capitale di uno Stato moderno, ma Hermanin mantenne sempre nel suo lavoro un assoluto rigore scientifico, allargando il suo campo di indagine anche al territorio laziale, fondando nel 1923 la rivista “Roma” (che divenne la rivista dell’Istituto di studi romani), partecipando attivamente alla Società filologica romana e alla Società romana di storia patria.
Soprattutto concentrato sull’arte a Roma, di ogni epoca – a partire dal medioevo – e di ogni disciplina artistica, Hermanin studiò e scrisse di Piranesi (Giambattista Piranesi, Roma 1923) e arrivò anche ad interessarsi all’opera dei XXV della Campagna romana, artisti a lui contemporanei.
Hermanin è ricordato dal Gruppo dei Romanisti, proprio perché, nonostante le origini germaniche e la religione non cattolica di famiglia, nella sua attività di storico dell’arte seppe leggere la cattolicità della città di Roma nel suo cammino artistico dal medioevo al periodo barocco. Il Gruppo – nato nel 1929 per riunire persone amanti della cultura romana e valorizzare il patrimonio storico-artistico della città, le sue tradizioni, il suo dialetto e dal 1940 promotore della pubblicazione annuale la “Strenna dei Romanisti” ancora oggi attiva – riconobbe con gratitudine la ‘romanità’ dello studioso e i suoi meriti nei confronti della cultura romana, come la scoperta degli affreschi di Cavallini a Santa Cecilia (1903) o come l’organizzazione di mostre periodiche a Palazzo Corsini o come il recupero, nel primo dopoguerra, del Palazzo di Venezia, operazione che andò ben oltre il restauro architettonico rendendolo una sede museale di grande prestigio ed importante spazio espositivo.
Hermanin sì impegnò anche nell’allestimento della Pinacoteca di Bari favorendo l’ampliamento delle raccolte con opere provenienti dalla Puglia, da Roma e da Napoli. La sede risultava quasi ultimata nel dicembre 1929.
Morì a Roma nel 1953.
Nell’Archivio centrale dello Stato sono conservate numerose buste dedicate a Federico Hermanin, sia nei faldoni del Ministero della pubblica istruzione sia in quelli della famiglia Hermanin, dove è custodita anche una memoria autografa. Una copia di questa, con il titolo Una vita per l’arte : memoria/diario 1880-1950 è stata presentata alla Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e selezionata tra i finalisti dell’edizione 2021 del Premio Pieve. Rinvenuta dalla studiosa Serenella Rolfi, l’opera racconta vari aspetti della vita privata di Hermanin, a partire dagli anni giovanili e spensierati, e la relazione tra lo storico dell’arte e varie personalità di spicco. Il diario rivela quanto la scoperta dell’affresco del Giudizio universale a Santa Maria in Trastevere si rivelò un avvenimento determinante per la vita e gli studi di Federico.
E come, a seguito di una telefonata improvvisa, il 25 dicembre 1922, che lo convocava a Palazzo di Venezia e dove fu accolto da Benito Mussolini e Margherita Sarfatti per illustrare il suo progetto museale sul Palazzo, – progetto che egli sentiva quasi come una missione –, ebbe chiaramente la dimostrazione di quanto poco interessasse la bellezza dell’arte all’uomo, appena reduce dalla marcia su Roma e che presto sarebbe diventato capo del governo. Fu una sensazione dolorosa che la Storia confermò, anche con la decisione di Mussolini, nel 1929, di fare di Palazzo di Venezia un luogo di rappresentanza dello Stato. Il Museo non nacque mai, Hermanin presente, perché, a guerra finita e Italia liberata, lo storico dell’arte fu considerato vicino al regime ed esonerato dagli incarichi:
«27 Febbraio 1945. Oggi ho lasciato, dopo ventidue anni, Palazzo di Venezia. Seccato, angustiato da persecuzioni, da articolacci di giornali comunisti, che volevano fuori dal Palazzo quelli che vi erano stati con Mussolini, schifato per il contegno della direzione generale per le antichità e belle arti, dopo avere visto ingiustamente accusato e perseguitato il mio economo e trasferiti i miei vecchi custodi, rei solo di avere fatto la guardia alle opere d’arte, rimaste nel Palazzo, dopo che Mussolini vi aveva messo la sua residenza, me ne sono andato, prima che mi mandassero via. Chi mi conosce sa che non sono mai stato fascista e che ho semplicemente lavorato e sofferto perché Roma e l’Italia avessero un museo di più e non certo indegno.»
Fonti:
- Museografia italiana: Federico Hermanin e l’esperienza di Palazzo Venezia, in “Bollettino d’arte”, s. 6, LXXXV (2000), 114, con i testi di Serenella Rolfi, Appunti dall’archivio di un funzionario delle Belle Arti: F. H. da Cavallini a Caravaggio (pp. 1-28) e Paola Nicita, Il museo negato. Palazzo Venezia 1916-1930, (pp. 29-72). L’articolo di Rolfi ripercorre gli studi e la carriera di Hermanin, sottolineando la vivacità del dibattito culturale dell’epoca, che coinvolse, oltre ad Hermanin, i grandi nomi della ricerca e della storia dell’arte ed artisti. L’articolo di Nicita si concentra sul lavoro di Hermanin per il Palazzo di Venezia, esaminando le premesse culturali del progetto nel costituirsi di una cultura museografica, la storia travagliata dei lavori di restauro e di allestimento fino all’insediamento di Mussolini nel 1929. I due articoli sono frutto di un ampio studio dei documenti d’Archivio.
- Paola Nicita, Hermanin, Federico, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 61 (2004)
https://www.treccani.it/enciclopedia/federico-hermanin_(Dizionario-Biografico)/ - https://www.beweb.chiesacattolica.it/menschen/person/1889/Federico+Hermanin
Riporta esattamente il testo di Nicita. - https://www.gruppodeiromanisti.it/wp-content/uploads/2015/04/HERMANIN-Federico.pdf
- https://illaziodeimisteri.wordpress.com/tag/federico-hermanin/
- Andrea Leonardi, «La Pinacoteca è già più di una promessa». 1930. Federico Hermanin nel Palazzo del Governo a Bari, Abstract 2020
https://ricerca.uniba.it/handle/11586/259131 - https://patrimonio.archivio.senato.it/inventario/scheda/benedetto-croce/IT-AFS-021-009777/federico-hermanin-cesare-de-lollis
La busta contiene una lettera inviata da Hermanin nel 1921 allo storico della letteratura Cesare De Lollis (1863 – 1928) in cui esprimeva tutta la sua preoccupazione che, dopo tanta dedizione e tante fatiche, la direzione del Palazzo di Venezia venisse da Benedetto Croce, allora Ministro della pubblica istruzione, affidato ad altra persona. Ricordo che il Ministero per i beni culturali e l’ambiente fu istituito solo nel 1974, raccogliendo alcune competenze su antichità, belle arti, accademie e biblioteche che erano prima del Ministero della pubblica istruzione. - https://it.wikipedia.org/wiki/Federico_Hermanin
- http://archiviodiari.org/images/immagini_archivio/premiopieve2021/Libretto_Premio_Pieve_2021.pdf
- https://www.youtube.com/watch?v=xLoErnT4GZA
Note biografiche a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS
Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)
- Gli affreschi di Pietro Cavallini a Santa Cecilia in Trastevere
Il giovane Hermanin, fresco dei suoi rigorosi studi, nel 1900 si trova di fronte ad una scoperta sensazionale: durante lavori di restauro e di rimozione di un coro ligneo in S. Cecilia in Trastevere scopre un grande affresco del Giudizio universale. Egli studia l’opera e senza esitazione l’attribuisce al pittore romano Pietro Cavallini (1240 c. – 1330 c.). Il racconto dell’evento è affascinante.