Scritto nel 1829, quando Hugo aveva solo ventisette anni, questo racconto è un manifesto contro la pena di morte. Non sappiamo nulla del condannato e del suo crimine, se non, da poche frasi che Hugo lascia trapelare, il fatto che sia di una classe sociale elevata: “Il vedersi maltrattato, me ingentilito dall’educazione” e “La mia camicia di tela battista, solo brano che mi rimanesse di quello ch’io era altra volta”. Il silenzio sulle sue vicende ha chiaramente lo scopo di estendere a tutta l’umanità le considerazioni che l’autore fa sulla vicenda del singolo.
Incontriamo il protagonista già in tribunale, dove viene condannato a morte, ed impedisce al proprio avvocato di richiedere la commutazione della pena: ritiene la condanna ai lavori forzati peggiore della condanna a morte. Avrà a pentirsi nelle ultime pagine di questa scelta.
L’esecuzione con la ghigliottina veniva propagandata come un atto di umanità: la morte era immediata e meno dolorosa rispetto alle alternative, ma l’autore si domanda se la vera condanna non sia quel mezzo secondo in cui avviene l’esecuzione, ma i mesi, i giorni e le ore precedenti, in cui il condannato si tormenta, al pensiero di chi lascia (per il protagonista soprattutto la figlia di tre anni) o rievocando i momenti lieti della propria fanciullezza.
Rinchiuso nel carcere di Bicêtre il condannato, ancora prima di sperimentare in prima persona l’angoscia della sua esposizione al pubblico (“la plebaglia”) curioso di vederlo morire, assiste ad uno spettacolo analogo quando dal carcere viene mandato alla colonia penale di Tolosa un gruppo di condannati. La spettacolarizzazione della condanna è un altro dei temi principali del racconto.
Lo scopo dell’autore è chiaramente esposto con questa frase:
«Forse questa lettura gioverà a rendere la mano più lenta, quando si tratterà di far balzare una testa pensante, una testa d’uomo su quella che chiamano la bilancia della giustizia!»
Per un caso fortuito, due diversi volontari hanno preparato questo testo servendosi di due diverse edizioni. Quella che qui vi presentiamo è la prima traduzione italiana, del 1837, a cura di Giovanni Battista Carta. Il linguaggio utilizzato dal traduttore è arcaico, ed ostico al nostro orecchio moderno. Per chi fosse interessato alla questione della lingua, è sicuramente interessante un confronto con la traduzione di pochi anni dopo che pubblichiamo col titolo Gli ultimi giorni di un condannato a morte.
Sinossi a cura di Claudio Paganelli
Dall’incipit del libro:
Condannato a morte!
Ecco cinque settimane ch’io men sto con questo pensiero, solo sempre con esso, sempre agghiacciato dal suo aspetto, sempre incurvato sotto il suo peso.
In altro tempo, che mi sembra sieno anzi anni che settimane, io era un uomo simile ad altr’uomo; ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, possedeva la sua idea; la mia mente, giovane e splendidissima, riboccava di fantasie e compiacevasi a svolgerle dinanzi a’ miei occhi le une dopo le altre, senz’ordine e senza scopo, intessendo con inesauribili rabeschi questa rozza ed esile stoffa della mia vita. Erano vezzose donzelle, magnifiche cappe di vescovi, battaglie vinte, teatri ricolmi di frastuono e di luce; poscia giovani donzelle ancora e cupe passeggiate la notte sotto le ampie braccia degli ippocastani. Sempre allietata era la mia imaginativa, libera la mia mente, libero tutto me stesso.
Ora io sono prigioniero; il mio corpo in ceppi in una segreta, il mio spirito avvinto da un’idea; orribile, sanguinolente, implacabile idea! Non altro mi rimane se non un pensiero, un convincimento, una certezza. Io son dannato a morte!

