Giovanni Jatta nacque nel 1767 a Ruvo di Puglia, figlio di Francesco, originario di Conversano, e di Lucia Jurilli, nipote dell’insigne medico Domenico Cotugno (1736-1822), in una numerosa famiglia della media borghesia. Da ragazzo fu:
«docile agli ammonimenti, obbediente ai comandi, riflessivo nell’agire, modesto nel portamento, ed attaccatissimo allo studio» (Luigi di Siena, Elogio funebre… p.8)
Iniziò gli studi superiori umanistici nel seminario di Nola dove ebbe per maestro il presbitero Ignazio Falconieri (1755-1799), professore di eloquenza, giustiziato nella repressione borbonica della Repubblica Napoletana. Jatta seguì poi gli studi giuridici a Napoli con Michele Angelo Cianciulli (1734-1819) e fu praticante nello studio di Francesco Ricciardi, conte di Camaldoli (1758-1842). Falconieri e Cianciulli furono entrambe figure di alti giuristi legati anche al governo francese a Napoli, succedutosi a quello di Ferdinando IV. Nella città partenopea Jatta fu ospite del parente Domenico Cotugno, nella cui abitazione, quasi un museo, cominciò a conoscere le antichità archeologiche di Ruvo.
Il giovane Jatta raggiunse presto fama di valente avvocato. La prossimità con ambienti bonapartisti sviluppò in lui un pensiero di liberismo e di innovazione che lo avvicinò allo spirito che agitava gli intellettuali europei alla fine del XVIII secolo e lo spinse verso l’impegno civile. I suoi concittadini, confidando sulle sue idee liberali, nel 1794 lo designarono come avvocato della città contro le vessazioni dei baroni locali, i Carafa. Dopo tre anni di istruttoria e di ricerche d’archivio, nel 1797 era stata intentata una causa contro il feudatario di Ruvo, il conte Ettore Carafa, Duca di Andria. La causa durò quasi un decennio per la complessità e la vastità della materia, e per l’influenza della famiglia contro cui era rivolta. Il giudizio mirava ad indebolire l’organizzazione feudale, a far cessare l’usurpazione delle terre demaniali, a fissare una politica agraria più redditizia, trasformando il pascolo e il terreno a grano in coltivazioni arboree. La causa contro i Carafa fu vinta e furono ottenuti notevoli risarcimenti.
Jatta partecipò ai moti rivoluzionari del 1799 per la proclamazione della Repubblica Napoletana ma in breve, alla restaurazione dei Borbone, fu condannato a dieci anni di esilio. Nel 1805 si recò a Madrid per una causa affidatagli dal principe di Migliano contro la R. Hacienda de España, il Reale Ministero delle finanze spagnolo. Ma quando scoppiò la nuova guerra tra il re di Napoli e la Francia, una volta ristabilitosi il governo francese nel 1806, tornò a Ruvo e poi a Napoli, per esercitare l’avvocatura. Erano allora numerosi e lucrosi i processi promossi dai feudatari a difesa delle loro terre: Jatta si trovò a difendere i suoi vecchi avversari, ma solo per il riconoscimento di diritti reali di proprietà.
Nel 1809, entrato in magistratura nel quadro di riforma promosso dal governo francese, assunse la carica di Regio Procuratore di prima istanza; nel 1812 poi fu nominato Regio procuratore generale sostituto alla Corte d’appello di Napoli e Regio Procuratore Generale presso il Consiglio delle Prede Marittime, interessante branca del diritto internazionale. Nel 1815 Ferdinando IV, rientrato in Napoli a seguito del Trattato di Casalanza, mantenne in carica gli impiegati del periodo francese ed anche Jatta conservò la sua posizione. Questi aderì poi idealmente ai moti del 1820; era favorevole ad un governo costituzionale che tendesse a una seppur lenta modernizzazione del paese, ma si trovava in una posizione scomoda: per le sue opinioni era considerato con sospetto dai realisti ed in quanto magistrato era mal visto dai rivoluzionari.
Nel 1821, dopo il rovesciamento del governo costituzionale, le commissioni, create per esaminare la condotta degli impiegati, lo esonerarono da tutte le cariche. Non chiese mai di essere reintegrato e si ritirò a vita privata a Napoli, dedicandosi per breve tempo alla consulenza legale, quindi allo studio dei classici greci e latini.
Iniziò una nuova vita per Jatta. Già tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, egli si era entusiasmato per gli scavi di Ercolano e di Pompei e per il fiorire di ricerche archeologiche sia in Grecia che in Italia. Ricordiamo che ahimè furono i primi ritrovamenti alla metà del ‘700 a dare il via al saccheggio dissennato delle necropoli locali in un clima da caccia al tesoro, ad opera spesso non solo di spregiudicati ‘tombaroli’ ma anche di facoltosi appassionati archeologi dilettanti.
Lo scoprire che la sua Ruvo era stata un importante centro di attività di antichi ceramisti e che custodiva una ricchissima necropoli, fece esplodere la sua passione di collezionista. Dal 1809 cominciò ad affinare la sua capacità di riconoscere i reperti archeologici più significativi per raffinatezza del disegno, purezza dello stile e soggetti mitologici. Divenne un esperto, proprietario di numerosi reperti in particolare di epoca peuceta, greca e romana, acquistati al mercato antiquario di Napoli. Insieme col fratello Giulio, di sette anni più giovane, entrò a far parte di società costituitesi a Ruvo per procedere agli scavi ma ne uscì nel 1827, essendo interessato alla conservazione ed esposizione delle antichità più che ai forti ricavi procurati dal commercio di esse. In seguito promosse scavi nei fondi di proprietà di famiglia. In don Aniello Sbani trovò il professionista restauratore di fiducia al quale demandò il delicato compito di ricomporre i reperti mutili. Sbani operava a Ruvo, oltre che a Napoli, con i figli Pietro e Vincenzo, era un personaggio ambiguo ma affermato che proprio nella cittadina pugliese nel 1835 trovò la morte in circostanze poco chiare, forse legate al commercio clandestino dei reperti.
In particolare negli anni Trenta del XIX secolo, il territorio rubestino fu oggetto di una spoliazione sistematica. I frequenti rinvenimenti, talvolta eccezionali, avevano trasformato Ruvo in un vero e proprio mercato di “anticaglie” cui attingevano non solo i mercanti d’arte più spregiudicati, attivi soprattutto a Napoli – importantissimo centro di smistamento degli oggetti antichi provenienti da tutto il Regno di Napoli dove operavano commercianti d’arte provenienti da tutta l’Europa –, ma anche antiquari di grande prestigio internazionale, che acquistavano per i grandi Musei europei.
Jatta scrisse l’opera Cenno storico sull’antichissima città di Ruvo nella Peucezia, pubblicata nel 1844, che è dedicata in parte a ricordare le origini e il periodo più florido della città di Ruvo, una delle più ricche colonie della Magna Grecia per attività artistica.
Nel 1836 morì il fratello Giulio e Jatta cessò le acquisizioni, preoccupandosi sempre più della loro sistemazione. Il palazzo Jatta, per la cui costruzione molto si consultarono Giovanni Jatta e la cognata Giulia Viesti, vedova di Giulio e madre di Giovannino, fu commissionato da Giulia intorno al 1840 con la previsione che alcune stanze sarebbero state destinate a museo.
Jatta morì a Ruvo sul finire del 1844, senza riuscire a vedere la collezione sua e del fratello Giulio, riunite e riordinate nel nuovo palazzo di famiglia. Fu infatti il nipote Giovanni Francesco Gaetano Jatta detto Giovannino (1832-1895), molto legato allo zio paterno, a fondare il Museo archeologico nazionale Jatta e a catalogarne i reperti. Giovannino Jatta, rimasto orfano del padre a soli quattro anni, condivise le passioni di padre e zio per l’archeologia ed ebbe un ruolo di primo piano nella storia di Ruvo di Puglia durante gli anni dell’unità d’Italia.
Prima di morire, Jatta aveva espresso la volontà testamentaria che gli eredi, Giovannino e sua madre Giulia in qualità di tutrice, vendessero l’intera collezione allo Stato, perché fosse esposta nel Museo borbonico di Napoli come collezione autonoma, forse ritenendola una collocazione di maggiore prestigio. Ma per prima cosa Giovanni Jatta non poteva disporre che tutta la collezione venisse venduta in quanto una parte, quella del fratello, era già passata in eredità al figlio, ormai legittimo proprietario. Inoltre l’accordo familiare originario era diverso: l’intera collezione doveva rimanere a Ruvo, per questo era stato edificato il palazzo di famiglia. E così è stato.
Il Museo archeologico nazionale Jatta è uno dei rari esempi in Italia di collezione privata ottocentesca rimasta tuttora inalterata nella concezione museografica originaria. Nel 1915 ne venne purtroppo trafugata la notevole collezione numismatica. Nel 1990-1991 il Museo è stato acquistato dallo Stato ed è stato inaugurato nel 1993. Dal dicembre 2014 il Ministero per la cultura lo gestisce tramite il Polo museale della Puglia e nel dicembre 2019 il Museo è entrato a far parte della Direzione regionale Musei.
Fonti:
- Luigi di Siena, Elogio funebre alla onoratissima memoria del celebre giureconsulto napolitano Giovanni Jatta, Napoli, Tipografia di Porcelli, 1845.
- Gianluca Schingo, JATTA, Giovanni in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 62 (2004)
- https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Jatta
Note biografiche a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi
Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)
- Cenno storico sull'antichissima città di Ruvo nella Peucezia
Colla giunta della breve istoria del famoso combattimento de' tredici cavalieri italiani con altrettanti francesi ...
Questa è l’opera maggiore di Jatta, pubblicata nel 1844, frutto della sua passione per l’archeologia e dei suoi studi, che lo portarono a valorizzare i ricchi rinvenimenti di epoca greco-romana della sua nativa Ruvo. Gli scavi nell’area e l’attento collezionismo di Jatta portarono alla costituzione del Museo omonimo, che è elemento notevole del polo museale della Puglia.