Francesco Luini nacque a Luino nel 1740. Dei genitori e del loro ambiente sociale non si sa quasi nulla, e su di lui niente si conosce fino al suo ingresso da novizio nella Compagnia di Gesù, avvenuto nel 1757; dai documenti della congregazione risulta che il vero cognome era Luvino e il nome Francesco Antonio, che da adulto abbreviò in Francesco, firmandosi sia come Luino che come Luini (di seguito si seguirà la seconda dizione, prevalente nell’uso).
Particolarmente versato nella teoresi filosofica e nella matematica, nella prima disciplina fu allievo di Pasquale Bovio nel collegio milanese di Brera, e nella seconda gli furono maestri Giovanni Antonio Lecchi e il noto astronomo Joseph Louis Lagrange; nel 1765 venne ammesso nel ciclo avanzato di scienze matematiche, che istruiva in questa materia il corpo insegnante dei gesuiti, ma alcune fortunate coincidenze gli permisero di frequentare anche Ruggiero Boscovich, dal 1764 docente nell’ateneo pavese, che per qualche tempo lo ebbe caro e approvò fra l’altro le sue prime dissertazioni di matematica pura, alcune delle quali comparvero nel prestigioso “Journal des Savants”.
Divenuto sacerdote fra il 1767 e il 1768, il Luini l’anno dopo fu chiamato a sostituire il Lagrange nell’insegnamento di matematica a Brera, e nel 1770 il governo austriaco gli affidò l’incarico di matematica elementare teorico-pratica nelle Scuole palatine di Milano, in un nuovo corso per la formazione degli ingegneri, per il quale contribuì alla stesura del piano di studi. Da tale esperienza derivarono i tre volumi delle Lezioni di matematica elementare, editi a Milano fra il 1772 e il 1773, prima parte (sola pubblicata) di un manuale pratico didatticamente all’avanguardia.
Gli esordi scientifici del trentenne Luini erano stati promettenti, ma già nel 1772 si profilarono le prime nubi sull’orizzonte di un percorso accademico che tutto faceva prevedere lineare e brillante. In quell’anno fu chiamato a dirimere lo scontro per la direzione dell’osservatorio di Brera fra il Lagrange e il Boscovich. Questi, che riteneva il Luini un fedelissimo, ne dava per sicuro l’incondizionato sostegno, senonché il discepolo, forse nell’imbarazzo di pronunciarsi sui propri insegnanti, se non anche indotto dall’opportunità di non urtarsi con i superiori, più propensi al Lagrange, preferì optare per una soluzione di compromesso, che affidò al primo la programmazione operativa e al secondo la responsabilità gestionale della specola. Permaloso e irascibile, il Boscovich vide in questa decisione un intollerabile affronto, e lasciando da lì a poco la Lombardia troncò bruscamente e per sempre i rapporti con l’allievo, che a lungo ma invano avrebbe tentato le vie della riconciliazione.
Nei primi tempi la partenza del Boscovich parve giovare al Luini in termini di carriera, perché nel 1773, col riequilibrio delle docenze conseguente alla soppressione della Compagnia di Gesù e alla statizzazione della scuola di Brera, poté passare nell’Università di Pavia, dove insegnò geometria elementare e fisica generale, e dal 1777 fisica generale e astronomia. L’anno dopo, però, sopraggiunse il secondo e più grave infortunio, quando l’ormai ex gesuita pubblicò a Pavia un’operetta intitolata Meditazione filosofica di Francesco L*** P. P., che negli intenti doveva essere la prima parte di sei lineamenti introduttivi alle sue lezioni di fisica generale.
Il libello si collocava nella scia delle dispute sul rapporto fra scienza e fede in un tema, quello creazionistico, che era allora assai dibattuto non solo nei ranghi accademici, e venne subito impugnato: ma a sollevare le critiche non fu tanto la premessa polemica da cui era scaturito e che verteva sul diffondersi dell’ateismo (sul quale il Luini non aveva esitato a chiamare in causa le gerarchie cattoliche), quanto l’impostazione dottrinale, che aderiva a una visione sostanzialmente monistica dell’origine dell’universo, e nel rapporto dialettico fra spirito e materia sconfinava nel materialismo.
Benché latente, questa posizione bastò per denunciare l’eterodossia dell’opera al Sant’Ufficio, che sul finire del 1778 la mise all’Indice: a nulla valsero le giustificazioni dell’autore, che probabilmente aveva sottovalutato l’impatto dello scritto o sopravvalutato le proprie ragioni nel difenderlo, sebbene forti dubbi censorii si fossero manifestati già prima della stampa, peraltro avvenuta in circostanze poco chiare; il fatto, poi, che a opuscolo pubblicato nessuno avesse preso le parti del Luini e fosse pure rimasta tiepida la cerchia dei suoi estimatori (fra cui l’astronomo de Lalande), fu da molti interpretato come un indice eloquente che la condanna non pareva ingiustificata.
L’allontanamento dello studioso dalla cattedra pavese fu inevitabile. Poco dopo l’avrebbe occupata Alessandro Volta, che entrò nel mondo accademico giusto in seguito all’incidente occorso al Luini, mandato a sostituirlo nell’insegnamento di fisica al liceo di Como: non più, dunque, una ambita cattedra universitaria, bensì una scuola superiore che, sia pure rinomata, non evitò il rapido eclissarsi di una figura divenuta scomoda.
Tranne alcuni incarichi di routine, a Como non si hanno apprezzabili notizie della sua attività, e così pure a Mantova, dove si trasferì forse nel 1783 (si ignora se per sua scelta o per volontà governativa), come insegnante di matematica nel locale ginnasio. Qui alternò l’attività scolastica a quella svolta nell’Accademia Virgiliana, di cui era socio fin dal 1775, e qui nel 1792 si ammalò e morì nei primi giorni di novembre (secondo altri il decesso avvenne a Milano, forse presso gli ex confratelli nel palazzo di Brera).
Per paradosso del destino l’unico lavoro che ha assicurato nel tempo la notorietà al matematico Luini è un’opera letteraria: le Lettere scritte da più parti d’Europa a diversi amici, e signori suoi nel 1783, un volumetto edito a Pavia nel 1785, nel quale egli raccolse 28 missive e cinque postille (da lui denominate “Frammenti”), che per la sorvegliata cura stilistica si devono considerare una meditata rielaborazione delle epistole originali.
Furono scritte nel corso di un viaggio che l’autore (mai prima né in seguito uscito dai confini lombardi) effettuò tra l’aprile e l’autunno del 1783 accompagnando il nobile Luigi Malaspina nella Savoia, in Francia e in Inghilterra, e rientrando attraverso le Fiandre e dalla Svizzera. La condanna della Meditazione contribuì a distrarre l’attenzione dei contemporanei anche da quest’altro libro, che, esaminato oggi a mente libera, rivela non pochi aspetti degni di nota sulla altrimenti sfuggente personalità dell’autore, mettendone in luce un eclettismo vivace, versatile e tanto più inatteso in uno studioso di scienze esatte.
Se, infatti, nemmeno il Luini appare del tutto esente dai manierismi salottieri e affettati dei dotti protagonisti della vita culturale e mondana dell’inoltrato XVIII secolo, è invece personalissimo e originale il suo concetto del viaggio. Per lui il viaggiatore è un privilegiato “contemplatore del mondo”, ovvero l’unico, fra chi intende girarlo, che sia in grado di percorrerlo con spirito critico, e il solo capace di ricomporre in una visuale unitaria le diverse parti visitate. La novità del libro sta qui, in questo modo di atteggiarsi a “veder costumi, e terre” che a buon diritto potremmo definire preromantico, e che tende a emergere ogni volta che l’autore si sofferma sull’indole degli abitanti a scapito degli aspetti descrittivi delle loro città.
In effetti, sebbene non manchino felici spunti narrativi (tale, nella lettera II, il resoconto del passaggio del Moncenisio in una bufera di neve e vento), a incuriosire e intrigare il Luini più che le terre sono principalmente i costumi, e soprattutto quell’insieme di abitudini e di stili di vita che determinano la fisionomia caratteriale di un individuo, e in più larga prospettiva cosmopolita distinguono il popolo che lo rappresenta. Oggetto precipuo delle sue considerazioni sono in primo luogo i parigini e i londinesi (e, per riflesso, i francesi e gli inglesi), delineati in un succedersi di impressioni comportamentali che restano emblematiche nella letteratura odeporica dell’epoca.
Al netto dei condizionamenti frapposti dalle fin troppo evidenti idiosincrasie personali verso gli intellettuali di Parigi e in specie dei docenti della Sorbona (salvo poche personalità, come il Laplace e il D’Alembert), dopo qualche esitazione di principio le simpatie del Luini propendono nettamente per gli inglesi, benché prevalga infine anche per lui, uomo del proprio tempo, la pregiudiziale deterministica che in definitiva sia la forma di governo a forgiare la mentalità del singolo cittadino e di conseguenza la condotta morale di una nazione.
Accanto alle lettere di viaggio, diverse missive scoprono più palesemente le matrici formative del Luini quando illustrano taluni esperimenti scientifici da lui svolti “in itinere”, o quando indulgono in speculazioni ontologiche sulla natura e sul destino dell’umanità (così, per esempio, nelle lettere V, VI, IX e X); altre ancora lo mostrano perfettamente inserito nel clima riformista del secolo, e sono forse le più ricche di riflessioni interessanti, come l’epistola VIII: preso lo spunto dal miserabile spettacolo degli accattoni incontrati a Chambery, il Luini vi abbozza un dettagliato “progetto pel mantenimento, e diminuzione de’ poveri di una città”, che non aggravi oltre il lecito le finanze pubbliche e sia applicabile a un qualsiasi centro urbano (ma si coglie fra le righe che il modello di riferimento è italiano e specificamente lombardo).
Sul filo di una sottile vena polemica contro l’attendismo ecclesiastico, l’approccio pragmatico al problema finisce col coinvolgere l’aspetto educativo delle classi inferiori inurbate, e gli suggerisce proposte di pionieristica modernità che in ultima analisi lo portano ad auspicare l’abolizione del latino dalle scuole professionali di ogni ordine e grado (“Alle tante e tanto inutili scolette di lingua latina, entro cui da’ figli de’ bottegai si perdono tanti anni inutilmente, si sostituiscano scuole libere di bella scrittura, di aritmetica, di disegno, di materia epistolare, di lingua patria. Oh se di un colpo risoluto e forte si tagliasse dallo stato la latinità in tanti, e inutili rami suddivisa!”).
La medesima intenzione educativa non disgiunta da un concreto obiettivo di progresso zootecnico sta poi alla base della lettera XIII, in cui il Luini illustra l’opportunità di istituire una facoltà di veterinaria preferibilmente a Como, di nuovo stilandone un puntuale progetto: qui la sollecitudine intesa ad assicurare la promozione sociale dei meno abbienti (tra le varie iniziative il piano prevede antesignane borse di studio per giovani in disagiate condizioni), si fonde con un proposito utilitaristico altrettanto innovativo che, attraverso la creazione di un corso universitario decentrato (in piena controtendenza con la prassi di allora), garantisse un apprendimento seguìto da un immediato lavoro pratico e “sul campo” in un’area della Lombardia dove, a pareri concordi e dal Luini condivisi, il settore dell’allevamento costituiva una risorsa economica sottostimata e perciò ampiamente sostenibile.
Scienziato, pensatore, viaggiatore e riformista, Francesco Luini merita un posto di qualche rilievo fra gli esponenti dell’illuminismo lombardo della seconda metà del XVIII secolo. Fatte ovviamente le debite proporzioni anche per il differente contesto che lo vide operante, non è difficile scorgere più di un punto di contatto fra certe sue idee promotrici della pubblica utilità e quelle che in parte compongono la produzione “civile” di Giuseppe Parini (1729-1799), al quale del resto lo accostano alcune singolari convergenze esistenziali: l’uno e l’altro lombardi, entrambi nati nella zona dei laghi, ambedue di fatto coetanei, e tutti e due non superficiali portatori dei valori positivi proclamati dal secolo dei lumi, ma non entusiasti al punto dall’esserne profondamente permeati e dal tradurre i propri convincimenti in una totale e conclamata adesione ai suoi princìpi.
Bibliografia
La biografia più completa (e sulla quale ci si è basati per redigere questi lineamenti) si deve a U. Baldini, in Dizionario Biografico degli Italiani, 66, Roma 2006, s.v. Luino (Luini) Francesco, pp. 518-522, che rettifica o ridimensiona diverse informazioni improprie (come quella che lo vuole fondatore di una frequentatissima scuola di scienze nel periodo mantovano: vd. per es. il Dizionario enciclopedico della Letteratura italiana, 3, Bari – Roma 1967, p. 427). Anche il Luini si colloca nella folta schiera di chi pagò con un lungo e spesso definitivo oblìo il personale dissenso dal pensiero e dall’azione della Chiesa cui pure apparteneva, e nemmeno oggi il disinteresse nei riguardi delle Letteresembra essersi del tutto attenuato (il suo nome non figura nell’esauriente antologia ricciardiana curata da Ettore Bonora, Milano – Napoli 1951, e una sola epistola si legge in Viaggiatori del Settecento, a cura di L. Vincenti, Torino 1962, pp. 147-154). Fugaci, d’altronde, restano per lo più i riferimenti nei principali repertori storico-letterari, fra i quali ricordiamo quelli di G. Natali, in Storia letteraria d’Italia. Il Settecento, Milano 1950, p. 1123; F. Fido e M. Capucci, in Storia della Letteratura Italiana diretta da E. Malato, VI, Roma 1998, rispettivamente pp. 548 e 738; G. Santato, in Storia generale della letteratura italiana, VII, Milano 1999, p. 421 (si sofferma maggiormente W. Binni, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, VI, Milano 1968, p. 609). Altri aspetti della sua personalità di studioso sono in S. Baroli, F. Luini (1740-1792), un gesuita contestato, in “Verbanus”, XXI (2000), pp. 367-378; W. Mantovani, F. Luini, fisico e paesano d’Europa del ‘700, in “Quaderni di storia della fisica”, XI (2003), pp. 49-57.
Note biografiche a cura di Giovanni Mennella
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- Lettere scritte da più parti d’Europa a diversi amici e signori suoi nel 1783
In una serie di lettere nelle quali il viaggiare viene inteso come contemplazione di luoghi e soprattutto di costumi, l’autore tratteggia con singolare efficacia la mentalità, lo spirito e le abitudini caratteriali e comportamentali degli abitanti delle città visitate.