Lipparini, che era discepolo del Carducci, rappresentò nella letteratura italiana del ’900 l’estrema ala classicista; seppe fondere in questo classicismo un nucleo di motivi decadenti, di ispirazione alessandrina e parnassiana, ottenendo fantasie sensuali, eleganze formali, preziosità di immagini, non mancando tuttavia la nota sincera derivata da un vivace impressionismo; non può non vedersi una decorazione fastosa – e in questo senso può apparire a prima vista falsa – derivata abbastanza palesemente da Pierre Louys. Tutte queste caratteristiche le ritroviamo in questa raccolta che rappresenta probabilmente la parte migliore della sua attività di poeta, pubblicata nel 1910. Qui il Lipparini si individua poeticamente in maniera decisamente più definita rispetto alle precedenti raccolte di liriche. Mentre in precedenza non era mancato il suo contributo alle forme poetiche nuove, per esempio al cosiddetto «verso libero», che lui adopera comunque secondo la sua personalità culturale e artistica, e nel quale era riuscito a sintetizzare in una nuova legge le sue intime necessità, nei Canti di Mèlitta adopera invece il metro esametro distico o strofa saffica.

Lipparini, pur essendo stato per un breve tempo vice-podestà fascista a Bologna, non tradì mai i suoi ideali di arte e di vita. Quando si dedicò brevemente a scrivere per la scena, scrisse Ermione, rinnovando in questa tragedia un personaggio classico. Il parallelo tra Ermione e Mèlitta viene quindi spontaneo. Come Ermione, figlia di Elena e Menelao, riesce a sottrarsi a nozze infami uccidendo Pirro con la complicità del fidanzato Oreste, così la figlia di Polidamante canta nelle piazze d’Atene, splendente tra tutte le etère, il suo poema di amore e di morte, trapassando e trasfigurando in mito il destino stesso dell’etèra. La sua giornata è fatta di attese, languori, ricordi d’amore. Il metro adoperato, che abbiamo sopra descritto, è funzionale a creare questa suggestiva atmosfera classica nella quale si muove questa commovente creatura della nostra poesia. Credo che l’anelito del Lipparini verso l’antica bellezza trovi in questi Canti la sua più compiuta espressione dipanando evidente un filo rosso proveniente, come abbiamo evidenziato, dalla sua tragedia Ermione.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit della prima lirica A Cebéte:

Mèlitta sono, la figlia di Polidamante liberto,
e per le piazze d’Atene risplendo fra tutte l’etère.
Venere stessa mi diede le membra e la bella figura,
e le benigne Grazie mi empirono il cuore di canti.
Tale io tocco la cetra allorché primavera compare,
e pei boschetti sacri io sfido a cantar gli usignoli:
quando nel seno profondo mi giungon le punte d’Amore,
e il giovinetto amato mi attende languendo su l’erbe.

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titolo:
I canti di Mèlitta
titolo per ordinamento:
canti di Mèlitta (I)
descrizione breve:
In questa raccolta, probabilmente la parte migliore della sua attività di poeta, l’autore fonde nel suo classicismo un nucleo di motivi decadenti, di ispirazione alessandrina e parnassiana, ottenendo fantasie sensuali, eleganze formali, preziosità di immagini, non mancando tuttavia la nota sincera derivata da un vivace impressionismo.
autore:
opera di riferimento:
I canti di Mèlitta / Giuseppe Lipparini. - Bologna : N. Zanichelli, 1925. - 102 p., [6] c. di tav. : ill. ; 23 cm.
licenza:

data pubblicazione:
4 ottobre 2022
opera elenco:
C
affidabilità:
affidabilità standard
digitalizzazione:
Paolo Alberti, paoloalberti@iol.it
impaginazione:
Paolo Alberti, paoloalberti@iol.it
pubblicazione:
Catia Righi, catia_righi@tin.it
Claudia Pantanetti, liberabibliotecapgt@gmail.com
revisione:
Catia Righi, catia_righi@tin.it