Le poche notizie disponibili su Jacopo Lori (1722-1776) dicono che nel 1752, a trent’anni, divenne pievano di S. Marcello Pistoiese, dove trascorse pressoché tutto il resto della sua esistenza. Sacerdote colto e partecipe della cultura del tempo, sebbene vissuto pressoché isolato in una comunità montana, qui organizzò una sorta di cenacolo dove periodicamente si riunivano le persone più acculturate dei dintorni (per lo più ecclesiastici), e diede vita, diventandone presidente, a una congregazione locale di parroci, sacerdoti e chierici, che si riuniva periodicamente per occuparsi del problemi del circondario.
Rimasti quasi tutti manoscritti, i suoi componimenti rivelano un poeta misconosciuto, ma di grande versatilità. L’unico pubblicato integralmente a stampa è la Mea di Polito, un poemetto di poco più di un centinaio di ottave, dove si narrano le vicissitudini di Mea, una vedova ormai piuttosto matura, che dopo la morte del marito idropico e la conseguente fine di un matrimonio nel quale aveva messo al mondo un nugolo di figli tutti premorti, brigava per risposarsi con un uomo più giovane, e andava fantasticando l’organizzazione delle proprie nozze, finché non veniva informata (con amaro ed esiziale disinganno), che il fidanzato si stava sposando con un’altra.
Nell’esile trama rivivono, affidandosi esclusivamente al dialetto, gli usi e i costumi della montagna pistoiese nella metà del XVIII secolo, descritti con una meticolosità che dettaglia anche gli oggetti più minuti del vivere quotidiano, e fornisce una documentazione di prima mano e di grande rilievo documentario per la storia delle cultura popolare.
L’opera passò inosservata vivente il Lori, e ci si accorse della sua esistenza solo verso la metà dell’Ottocento, quando un illustre filologo e storico della lingua italiana, Pietro Fanfani, ne venne casualmente a conoscenza, e rimase impressionato dalla grande padronanza lessicale e compositiva mostrata dall’autore nell’esprimersi in un dialetto ostico, misto fra il lucchese e il pistoiese, e ricco di forme del toscano trecentesco, ma inadatto alle duttilità della versificazione.
Dopo varie e complicate vicende, il Fanfani riuscì a venire in possesso del manoscritto e nel 1870 ne presentò l’edizione critica da lui stesso corredata con un esauriente commento, dal quale si desume come il poemetto, di genuina matrice popolare, fosse stato in realtà rivisitato e rimaneggiato dal Lori, che gli aveva conferito una personalissima dignità stilistica e letteraria.
Oltre a essersi cimentato in rime di gusto arcadico, il Lori affidò ai versi anche alcuni sfuggenti riferimenti autobiografici, che tra l’altro alludono a un amore giovanile e a una relazione, altrettanto passionale e corrisposta, intercorsa in età più avanzata. Tuttavia non si è in grado di appurare se queste fossero esperienze veramente vissute o non si tratti invece (come probabile) di vagheggiamenti di maniera. Del resto a una finzione poetica non sembra sottrarsi la produzione legata a un suo ineffabile viaggio in Sicilia, che pare avvenisse fra il 1762 e il 1763, forse dopo aver sostato a Roma e a Napoli.
La trasferta occasionò una raccolta di sonetti che il titolo (Una libbra e un’oncia di applausi poetici al merito singolare di que’ coglioni d’Italia, che stan contenti in Sicilia) rivela polemicamente ostili non tanto nei riguardi dell’isola quanto nei confronti dei suoi abitanti; e tuttavia il loro linguaggio troppo scopertamente e insistentemente scurrile lascia più di un dubbio sull’effettiva sincerità del Lori, e induce a non scartare, di nuovo, l’idea di un esercizio, se non di una sperimentazione linguistico-lessicale non diversa dal ricercato impiego del dialetto esibito nella Mea, e stavolta in linea con un filone comico-burlesco letterariamente ben rappresentato.
A questo proposito va ricordato che, come entusiasta sostenitore della diffusione dell’italiano nella sua parlata fiorentina, il Fanfani comunicò a colleghi e amici il testo della Mea di Polito al quale stava lavorando; lo ricevette pure lo studioso Antonino Traina, che vi attinse numerosi esempi per il suo Nuovo vocabolario Siciliano-Italiano, che proprio allora andava redigendo allo scopo di promuovere ed estendere l’uso della lingua italiana nell’isola dopo la recente unificazione nazionale, pubblicandolo infine nel 1868.
È successo, così, che con la sua operetta a stampa il Lori abbia involontariamente, ma positivamente contributo all’italianizzazione di quella sicilianità che nei versi manoscritti aveva (almeno a parole) tanto pervicacemente denigrato.
Maria Valbonesi ha recentemente fornito notizie aggiornate sulla vita, le opere e gli interessi di Jacopo Lori, che si sono tenute presenti nella compilazione di questo profilo. Non si conoscono altre riproposte editoriali della Mea di Polito dopo la pubblicazione fatta dal Fanfani, ora disponibile nell’edizione Manuzio.
Bibliografia:
- M. Valbonesi, Preti di montagna, Firenze 2018, pp. 65-98.
Note biografiche a cura di Giovanni Mennella e Ruggero Volpes
Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)
- La Mea di Polito
Poemetto montanino
Il poemetto (metà del XVIII secolo) è un notevole documento per la storia delle cultura popolare toscana.