Dall’incipit del libro:
Silvio Pellico tormentato nei piombi dal caldo, dalle zanzare e dai giudici, s’ebbe un conforto ineffabile da uno stuolo di formiche e da un ragno. Le formiche appena s’avvidero della mensa imbandita sulla finestra corsero a chiamare le compagne, ne venne un esercito, e coi bricioli del pane quotidiano dell’immortale prigioniero s’ebbero ben spesso le briciole dei buzzolai della pietosa Zanze: e il ragno gli s’era fatto così famigliare che venivagli sul letto e sulla mano a prendere la preda dalle dita. Onde quando Pellico, ignaro ancora dei patimenti lunghi e crudeli che lo aspettavano, fu tolto ad un tratto da quel carcere dove aveva pur tanto patito, il suo pensiero corse con dolore alle amate formiche, al povero ragno, e pensò che quelle avrebbero sofferto la fame, e temette che potesse venire là qualche nuovo ospite nemico dei ragni, che raschiasse giù colla pantofola quella bella tela, e schiacciasse la povera bestia. Questo affetto pietoso per quegli animaletti non vuolsi attribuire soltanto alla tempra unica dell’anima di Silvio: è un fatto generale, comune ai prigionieri, spesso anche ai più rozzi: è stato notato che talora l’indole indomita e feroce d’un galeotto mutò ad un tratto per aver egli posto amore in un passero od in un topolino.


