Il De rerum natura (“Sulla natura delle cose” o anche semplicemente “Sulla natura”) è un poema didascalico latino di natura epico-filosofica, scritto da Tito Lucrezio Caro nel I secolo a.C.; è composto di sei libri raggruppati in tre diadi.
In questo poema il filosofo e poeta latino si fa portavoce delle teorie epicuree riguardo alla realtà della natura e al ruolo dell’uomo in un universo atomistico, materialistico e meccanicistico: si tratta di un richiamo alla responsabilità personale, e di un incitamento al genere umano affinché prenda coscienza della realtà, nella quale gli uomini sin dalla nascita sono vittime di passioni che non riescono a comprendere.
L’opera è dedicata a Gaio Memmio; riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura) di Epicuro.
Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L’opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade comincia con un inno ad Epicuro e l’ultimo libro termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il secondo libro inizia con un inno alla scienza e il terzo libro con l’esposizione dell’estetica di Lucrezio.
Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l’insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato di Sicione e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.
Sinossi tratta da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/De_rerum_natura
Dall’incipit del libro:
Il poeta comincia da una splendida invocazione a Venere; seguono: 1. la dedica del poema a Memmio, 2. l’esposizione del subbietto, 3. l’elogio d’Epicuro, 4. la confutazione delle obbiezioni generali che altri potrebbe fare contro la dottrina del filosofo greco e contro l’ardimento del poeta latino che si accinse a renderla nella sua lingua. Lucrezio entra poi in materia e pone a primo principio che l’essere non può uscir dal nulla, nè tornare al nulla. V’ha dunque corpuscoli primitivi, onde constano tutti i corpi, e ne’ quali questi si risolvono; sebbene invisibili, è forza ammettere che esistano. Ma non potrebbero agire, muoversi e neppure esistere senza il vuoto.
L’universo pertanto resulta da queste due cose: la materia e il vuoto. Tutto quello che non è nè l’uno nè l’altro n’è proprietà o accidente e non già una terza classe d’esseri che faccian parte da sè. I corpi primi, essendo la base delle opere della natura, debbon essere perfettamente solidi, indivisibili ed eterni. Onde ne viene che a torto Eraclito dà ai corpi per principio il fuoco, altri filosofi l’acqua, l’aria o la terra, ed Empedocle i quattro elementi. Nè per l’omeomeria di Anassagora si spiega meglio la formazione degli esseri. Il gran tutto, indistruttibile nei suoi principi, è infinito nella sua massa; non v’ha dunque centro a cui tendano i corpi gravi; la dottrina degli Antipodi è dunque una follia.




