Una pagina dell'igiene d'amore

Mantegazza, i cui meriti scientifici si collocano sul piano dell’antropologia fisica e per gli studi sui caratteri del cranio, fu un importante volgarizzatore e diffusore delle idee darwiniste in Italia. Ma talvolta l’ansia di semplificazione conduce a sbagli d’impostazione. Quando, nel 1868, diede alle stampe Un giorno a Madera, l’idea che la diffusione della tubercolosi potesse avere componenti ereditarie era in un certo modo diffusa. Qualche anno dopo l’ipotesi venne propugnata anche dal medico-filosofo portoghese Antonio D’Azevedo Maia. A metà ottocento la tisi era anche una malattia letterariamente “affascinante”, citiamo, per rimanere tra le opere già presenti nella biblioteca Manuzio, la Vita di Bohème di Murger e Fede e bellezza di Tommaseo, e come dimenticare poi La signora delle camelie di Dumas figlio… Mantegazza, con il suo stile brillante, che però peccava per un approccio psicologico piuttosto superficiale, fa quindi con questo suo romanzo epistolare una riflessione sui rapporti tra le aspirazioni dell’individuo e il presunto interesse della comunità – argomento che mi pare sia di grande attualità anche oggi – e in questo conflitto l’individuo appare del tutto sconfitto, travolto, per lasciare spazio a un utile della società, che, almeno retrospettivamente, possiamo vedere come sia determinato dall’arbitrio e da propagande spesso fuorvianti. Riportiamo qui di seguito la recensione al libro scritta da Adele Masi Lessona, che conosceva bene l’ambiente della ricerca evoluzionista in Italia avendo sposato in seconde nozze Michele Lessona (vedi le sue opere e le sue traduzioni delle opere di Darwin in questa biblioteca Manuzio, traduzioni alle quali Adele aveva certamente contribuito); nella recensione, col garbo e la sensibilità che Adele Masi Lessona dimostrò sempre nelle sua attività culturale e di traduttrice, riesce a mettere in luce sia i meriti dell’opera che gli elementi di “integralismo sociale” che la caratterizzano.

Paolo Alberti


UN GIORNO A MADERA. Una pagina dell’igiene d’amore, di Paolo Mantegazza. Milano, 1868, coi tipi dei fratelli Rachidei e presso Gaetano Brigola.

Il signor professore Mantegazza ha pubblicato verso la metà dell’anno testè terminato, un bellissimo libro: Un giorno a Madera, o Una pagina dell’Igiene d’amore. Questo libro fu accolto con molto favore in Italia e letto avidamente; e invero un tal favore era ben meritato.

La vivacità ed il colorito delle descrizioni, il calore del sentimento che scintilla incessantemente ad ogni pagina, l’amore caldissimo e gentile tanto soavemente dipinto, tengono la mente del lettore legata a quel volumetto, senza che se ne possa distogliere finchè non se ne sia terminata la lettura.

L’argomento è, per dir così, medico. Egli ha voluto dimostrare che quando taluno ha la disgrazia di essere affetto da una malattia ereditaria, tisi, epilessia, demenza, non deve assolutamente legarsi in matrimonio onde non procreare creature infelicissime condannate a morire giovani dopo una lunga e penosa agonia. Su questa tela il signor Mantegazza ha tessuto un commoventissimo racconto.

Partendo l’Autore, giovanissimo, dall’Inghilterra per l’America meridionale, sopra un piroscafo che doveva toccare Lisbona, Madera, il Brasile, la Plata, incontra fra i tanti passeggieri un giovane inglese che destò la sua attenzione. Quel giovane era bello, robusto, sano, infine tale che fermava l’occhio e si faceva osservare in mezzo alla folla.

Quel giovane inglese rimaneva sempre solitario, assorto nei suoi pensieri; non vedeva, non udiva nulla di ciò che gli accadeva intorno: pareva non guardasse che dentro di sè, e ciò che scorgeva coll’occhio della mente doveva essere qualche cosa di divino, di supremamente bello, perchè il suo volto raggiava di una felicità sublime quando appoggiato ai fianchi del bastimento guardava ansiosamente l’ampia distesa del mare. Egli aveva il paradiso negli occhi, e tutto assorto in sè non si curava di nulla; non aveva badato alle lagrime versate dai suoi compagni di viaggio al momento di abbandonare il proprio paese, di lasciarsi dietro le persone più care.

E quella scena della partenza da Londra ha ispirato all’Autore alcune delle più belle pagine del suo libro. Si riconosce l’uomo che ha veduto, che ha sentito, che ha compreso il dolore della partenza, l’angoscia infinita di quell’ultimo amplesso, quando sembra che la parte migliore di noi si stacchi per rimanere con quello che resta indietro solo e sconsolato sulla sponda.

Come si può ben comprendere, quel giovane dal contegno così singolare, svegliò la curiosità dell’Autore, giovane anch’esso di ventidue anni, d’animo caldo ed innamorato dell’ignoto e del fantastico: egli si sentiva attirato verso quell’enigma vivente con una di quelle curiosità febbrili, ardenti, che hanno, per dirlo colle stesse parole dell’Autore, la forza di una passione.

In breve conobbe il nome del giovane, ma null’altro; non gli fu dato legare conversazione con William, che così si chiamava. Esso non sfuggiva i passeggieri nè li cercava, rispondeva con tanta distrazione a tutte le domande, che gelava le parole anche sulla bocca dei più importuni. Sorrideva come sorridono gli uomini felici, ma sorrideva solo all’immagine che gli stava fissa nella mente.

Passarono in tal modo alcuni giorni: il piroscafo avea lasciato dietro a sè Lisbona, e continuava la sua via felicemente, quando per una combinazione al tutto imprevista, il nostro Autore potè stringere conoscenza col giovane inglese. William stava un mattino di buonissima ora interrogando il timoniere intorno alla distanza che li separava da Madera. Avendogli quest’ultimo risposto che fra due giorni sarebbero arrivati, William non potè trattenere la gioia immensa che gl’inondava il petto, e sclamò ad altissima voce: «Dunque fra quarantott’ore a Madera!» poi torcendosi le mani in una vera convulsione di gioia, soggiunse: «Dev’essere un paradiso quell’isola.»

Non v’era più dubbio, quell’uomo aveva a Madera una parte di se stesso. Il nostro Autore comprese questo a volo, e si arrischiò a dire, sebbene la domanda o l’osservazione non fosse a lui diretta: «Sì, mio signore, Madera è un paradiso.»

Da quel momento il ghiaccio fu rotto, e la conoscenza fu fatta. L’Autore aveva studiato molto il clima di quell’isola, e potè darne ampie informazioni all’inglese, al quale però non diresse mai la più piccola domanda sullo scopo del suo viaggio.

Il mattino del 17 giugno del 185…. i passeggieri eran tutti raccolti sulla tolda della nave, divorati dal desiderio di veder terra.

L’inglese non era cogli altri; certamente spiava la terra dal finestrino della sua cabina.

Nel suo modo colorito e conciso l’Autore fa una breve descrizione dell’aspetto di Madera come appare all’occhio del viaggiatore man mano si va accostando a quell’aiuola di fiori, perchè Madera è un giardino fiorito che manda le sue brezze fragranti incontro a chi gli si avvicini, come per invitarlo ad andare a vivere e morire in quella terra d’incanto.

La meraviglia di quella vista doveva però durar poco, perchè un frastuono di cento bestemmie portoghesi aspre di accento e più aspre di senso, fecero avvertiti i viaggiatori che dovevano sbarcare, e che l’uomo era là, come molto sovente sembra, incaricato di spoetizzare, di rendere sgradevoli le più belle scene della natura. Erano urli, grida, di donne e di uomini che tutti offrivano qualche cosa ai forestieri, un cavallo, un albergo, delle mazze, dei merletti, infine una quantità di oggetti che nessuno chiedeva loro, di cui nessuno abbisognava. L’istante della voluttà era scomparso, ma rimaneva in quella parte del cuore ove ogni cosa sta eternamente impressa.

Qui nuovamente l’ Autore ci presenta un quadretto incantevole tanto da destare nell’animo dei suoi lettori un desiderio ardente di vedere Madera, di passarvi anche un giorno solo come quello che ci descrive; tanto son vivi i colori con cui dipinge la gita a cavallo da esso fatta in compagnia degli altri viaggiatori attraverso l’isola. Si sente la fragranza di quella mèsse di rose, di eliotropii, di garofani, di gelsomini di cui tutti fanno ampio bottino a piene mani gettandoseli poi contro in una guerra di fiori. A quel giardino tutto riboccante di fiori, fa maestosa cornice l’Oceano, le onde azzurre del quale graziosamente contrastano col verde dei banani dalle foglie gigantesche e vellutate, e col verde più cupo dei nostri alberi d’Europa.

L’Autore aveva lasciato dietro a sè i compagni, portato velocemente dal suo cavallo che dopo avergli fatto correre qualche pericolo nella sua corsa sfrenata, lo condusse in una bella strada larga, con dolce pendio; aperta fra i campi di ignami e di canne di zucchero. Allo svoltare della via egli vede lontano cento passi una giovane signora a cavallo tutta sola. Era leggiadra, giovanissima, delicata, in atto di persona stanca o malata. L’Autore volle trattenere il cavallo per accostarsi alla fantastica apparizione, ma questo di nuovo prese il galoppo, e come un baleno si lasciò dietro la bella apparizione e non lasciò al suo cavaliere che il tempo di accorgersi che anche il cavallo della bella signora, preso da repentina emulazione, si era dato a galoppare esso pure.

Appena egli potè rendersi padrone della sua cavalcatura si sentì alle spalle il galoppo di un altro cavallo; guardò, ma la sella era vuota. Tornò indietro e poco dopo vide sul margine di un campo la bella signora distesa al suolo svenuta.

Scese da cavallo, corse ad una sorgente vicina, prese un po’ d’acqua nella sua barcuccia di pelle, e gliela spruzzò sul volto. La svenuta sospirò, ma non rinvenne; egli stava inginocchiato innanzi a quella bellissima fanciulla, non osando slacciarle la veste, quando essa si riebbe arrossendo e lo ringraziò in inglese.

Mentre tutto beato di poter aiutare quella divina creatura se ne stava intento ad essa, udì avvicinarsi il trotto di un cavallo.

Era William pallido, col volto spirante un’angoscia senza nome. Appena veduta la signora mandò un grido come l’Autore non aveva mai udito, e due nomi furono pronunziati contemporaneamente, William, Emma.

Egli si offerse di andare a riprendere il cavallo, e avendolo ricondotto ai due giovani li trovò che colle mani strette si guardavano e piangevano col volto brillante di una ardente passione, di una gioia senza confini.

In fretta salutò William con una stretta di mano, s’inchinò alla signora, e ritornò alla città tutto commosso come chi è stato presente ad una grande catastrofe, ad una scena sublime di passione, di sventura o di gioia.

Il piroscafo salpò a notte da Madera; l’Autore stava dal suo finestrino spiando il ritorno di William a bordo.

Egli desiderava vederlo tornare, anche solo, anche infelice, ma tremava che rimanesse nell’isola.

L’indomani chiese allo Stewart se tutti i viaggiatori fossero ritornati; gli si rispose di sì, ma che il bell’inglese, così veniva chiamato William dalle persone di servizio, era ritornato a notte avanzata mentre erano già levate le àncore. Rimproverato duramente dal Capitano, egli non aveva risposto. Era pallidissimo, e pareva malato o fuori di sè.

Per tre giorni William non uscì dalla sua cabina. Il medico, il capitano, erano andati a vederlo e chiedergli se abbisognava di qualche cosa; egli aveva sempre risposto di no, ringraziandoli. L’Autore si accostava spesso alla stanzuccia ove giaceva il giovane, ma il rispetto per quel grande dolore gl’impediva di entrare.

Il quarto giorno però sì fece animo, ed entrò nella cabina di William. Lo trovò coricato sul letto, vestito come era a Madera, pallido, sparuto, come se fosse stato malato da un mese. Lo accolse con affetto, gli strinse le mani e pianse lungamente. Quell’uomo tanto forte era infine vinto dal dolore, e desiderava la mano di un suo simile per chiedergli un conforto.

L’Autore rimase tre lunghe ore con William, il quale gli raccontò la storia dei suoi patimenti. Era una storia semplice, era la lotta di una passione contro il dovere. Da quel momento l’amicizia dei due giovani divenne intima e caldissima. Fedele ad una promessa fatta ad Emma, William continuava il suo viaggio, senza uno scopo premeditato, finchè l’incantevole bellezza di Rio di Janeiro lo decise a fermarsi al Brasile. L’Autore passò con esso una settimana, poi con uno strappo crudele al cuore si separò dal giovine inglese. Esso era troppo gracile e malaticcio per sopportare il clima del tropico. Del resto il giovane inglese voleva viaggiare nell’interno del Brasile, voleva mettersi in imprese metallurgiche, alla testa di colonie agricole, infine voleva seppellire nella voragine degli affari il pensiero che lo divorava, la febbre che lo consumava.

I due giovani si lasciarono promettendosi di rivedersi, ma questa cara lusinga non doveva avverarsi.

Per due anni l’Autore ricevette lettere da William, ma a lunghi intervalli; certo molte erano andate smarrite; ciò era naturale, nomadi entrambi sempre viaggiando in paesi più o meno selvaggi. L’ultima che ebbe, era datata da Quito.

Però il lungo viaggiare, il continuo mutar di luoghi e di occupazioni, non bastavano a dar pace a quell’anima disperata; anzi pareva che il tempo facesse più cruda e avvelenata la ferita. Era quello uno di quei dolori con cui si vive e si muore, per quanto pure possa esser lunga la vita.

Dopo l’ultima lettera ricevuta da Quito l’Autore rimase un lungo tratto di tempo senza aver nuove dell’amico lontano, e già lo piangeva morto, quando dalla legazione inglese di Buenos-Ayres ricevette un grosso plico dall’Inghilterra con una breve lettera di William, nella quale questi gli accludeva sigillate varie lettere, colla preghiera di serbarle per lo spazio di dieci anni, e, quando in quel tratto di tempo nessuno gliele avesse domandate, pregandolo di pubblicarle allora.

Queste lettere sono la storia di William e di Emma. È una storia semplicissima, ma molto dolorosa.

Emma, ultima figliuola di un ricco inglese ammalato di tisi, il quale, dopo aver veduto morire dello stesso male dieci suoi figli muore esso pure, ha giurato al padre morente di non mai sposarsi onde non dare la vita a figliuoli condannati a morire essi pure giovani dopo una vita malaticcia ed una lunga agonia. Questo giuramento che ha fatto in età giovanissima, la fanciulla vuol tenere ad ogni costo, e perciò resiste a tutte le preghiere, a tutto l’immenso amore di William, e, sebbene essa pure lo ami teneramente rifiuta di divenire sua moglie. Con una vecchia zia materna va in Italia varie volte, visitando ora Pisa, ora Napoli, e cercando indarno lontano dalle nebbie del suo paese la salute e la forza. Non è ancora molto ammalata, ma è delicatissima, ed ha nel sangue la funesta eredità paterna. Cedendo infine alle preghiere di William va a consultare tre famosi medici di Londra, ognuno dei quali le dà un diverso consiglio.

Fa un’ultima visita al vecchio medico che aveva curato suo padre e i suoi fratelli, e questo le consiglia il soggiorno di Madera, ma le impone l’assoluta lontananza di William e per lo spazio di tre anni. Così i due giovani debbono rimanere separati, e questo amaro sagrifizio essi compiono, sempre per rispetto al giuramento di Emma. Ma pur troppo quella vita di lunghi dolori, quella lontananza crudele non serve a nulla; il clima di Madera non basta, e, insieme col male, la lotta sostenuta dalla sua passione per William e il rispetto alla memoria del padre consumarono le forze della giovanetta inglese. Sentendosi venir meno ogni vigore essa se ne torna in Inghilterra, e colà muore in breve, mentre il suo William è lontano e non ha il conforto di chiuderle gli occhi.

Ecco in breve il sunto del racconto del signor Mantegazza; non ho parlato delle lettere dei due giovani, tutte spiranti un amore vivissimo che solo le anime elette possono sentire, perchè le mie parole non potrebbero darne che un’idea scolorita.
Malgrado le bellezze di questo libro, mi permetterò alcune osservazioni intorno al concetto che lo ha ispirato.

Il signor Mantegazza vuole persuadere i suoi lettori che quando taluno ha la sventura di avere una malattia che i medici chiamano ereditaria, non deve contrarre matrimonio per timore di inoculare la terribile malattia ai figli, i quali così sarebbero condannati a vivere una vita infelice, e morire giovanissimi.

Dal punto di vista medico il signor Mantegazza avrà forse ragione; ma mi pare un po’ barbaro condannare un quinto della popolazione in certi paesi e un trentesimo in altri al celibato forzato onde la razza umana non vada sempre più deteriorando. Secondo questo concetto bisognerebbe fare nella specie umana quello che si fa colla specie degli animali domestici: non pensare che al miglioramento delle razze.

Questa teoria è troppo barbara: quasi quasi quella del signor Darwin, che ci vuol far discendere dalle scimmie, è preferibile, perchè non sappiamo se talvolta le scimmie nelle loro solitarie foreste non compiano i loro amori spinte da una simpatia per così dire umana. Chi sa che una di quelle creature saltellanti sulle altissime palme dei tropici non ami quel certo scimmiotto che primo le ha fatto palpitare il cuore?

In ogni modo tutti i ragionamenti del signor Mantegazza non sbandiranno passioni umane, e quella più gentile di tutte che è l’amore. Crede egli forse che il giovane o la giovane attirati l’uno verso l’altra da quel non so che, proprio soltanto dell’uomo, andranno a domandare prima al medico se ciò sarà o no igienico?

Ma anche quando qualche volta ciò possa seguire, lo strazio di una passione combattuta, simile a quello che l’Autore ci dipinge nel suo libro, è uno spettacolo tanto doloroso, che invero non so se il rimedio non sia peggiore del male. Sebbene morto, quel padre di Emma vi irrita, e lo trovate sommamente egoista; ha per sola sua scusa l’aver dimenticato di esser stato giovane, perchè altrimenti non avrebbe imposto alla sua ultima figliuola un tanto doloroso sagrificio.

Sta bene che i medici pensino a trovar mezzi onde cercar di guarire quella crudele malattia; sta bene che con metodi acconci, coll’igiene, col cambiamento di clima si cerchi diminuirne l’intensità, e ciò forse un giorno si otterrà, come già si è ottenuto molto per le malattie scrofolose, migliorando le abitazioni e le condizioni dei cittadini; ma obbligare tanta popolazione a vivere e morire solitaria e diserta è troppo duro. Se il signor Mantegazza non avesse scritto le lettere di William e di Emma, si potrebbe credere che non conosca l’amore, ma a chi legge quelle lettere questo pensiero non può sorgere nella mente. Ed egli vuole sbandire quella passione dalla terra?

Il signor Mantegazza però si mostrò molto cortese verso il sesso gentile, dando tutto il carico alla povera Emma, obbligandola a respingere l’amore tenerissimo di William. Penso che, troppo sincero, l’Autore non ha creduto dover presentare ai suoi lettori un uomo impossibile.

ADELE LESSONA.
Da “Nuova Antologia” 1869 n. 10.

Dall’incipit del libro:

Voi mi avete già dato due volte il battesimo di vostro rappresentante; ed io finora ho fatto ben poco per meritarmi questo onore. Cinque o sei discorsi, molte votazioni coraggiose, sia che il coraggio fosse contro i ministri o (cosa più difficile) contro le opinioni popolari; molte assenze dalla Camera; nessun gallone, neppur quello di caporale, all’uniforme di deputato. Ecco, per parlarvi la lingua di moda, il bilancio attivo e passivo del vostro rappresentante. Io però ho sempre creduto che l’ufficio di deputato abbia una vita ben più larga di quella che corre fra l’urna elettorale e il decreto regio che scioglie la Camera; ho sempre pensato che l’orizzonte in cui si deve muovere la vita pubblica, è ben più ampio della stretta atmosferica che si agita e bolle sotto le volte della Sala dei Cinquecento. Poveri noi, se i nostri figlioli dovessero trovare che l’opera dei primi deputati del Regno d’Italia andò tutta consumata nel fare delle mozioni sospensive, degli ordini del giorno puri e semplici e delle quistioni pregiudiziali! Poveretti noi, se tutta la vita d’una generazione dovesse andar consumata nel rattoppare i nostri cenci, nel puntellare le Casse dell’erario, nel lasciare ai futuri della carta e dei debiti!

Scarica gratis
ODTPDF

titolo:
Un giorno a Madera
sottotitolo:
Una pagina dell'igiene d'amore
titolo per ordinamento:
giorno a Madera (Un)
descrizione breve:
Il romanzo è il contributo di un medico alla letteratura. L’autore, con calore di sentimento e delicatezza, affronta il tema doloroso del matrimonio e della procreazione, quando le persone coinvolte hanno la disgrazia di essere affette da una malattia ereditaria.
autore:
opera di riferimento:
Un giorno a Madera : una pagina dell'igiene d'amore / Paolo Mantegazza - Milano : Bietti, 1925. - 124 p. ; 19 cm.
licenza:

data pubblicazione:
3 settembre 2007
opera elenco:
G
descrittore Dewey:
Narrativa italiana (sec. 20.)
soggetto BISAC:
FICTION / Romantico / Generale
affidabilità:
affidabilità standard
digitalizzazione:
Stefano D'Urso, stefano.durso@mclink.it
impaginazione:
Stefano D'Urso, stefano.durso@mclink.it
pubblicazione:
Catia Righi, catia_righi@tin.it
revisione:
Stefano D'Urso, stefano.durso@mclink.it