Dall’incipit del libro:
MAR. Perché sì mesto, o padre? Oppressa è Roma,
Se giunge a vacillar la tua costanza.
Parla: al cor d’una figlia
La sventura maggiore
Di tutte le sventure è il tuo dolore.
ARB. Signor, che pensi? In quel silenzio appena
Riconosco Catone. Ov’è lo sdegno,
Figlio di tua virtù? dov’è il coraggio?
Dove l’anima intrepida e feroce?
Ah, se del tuo gran core
L’ardir primiero è in qualche parte estinto,
Non v’è più libertà, Cesare ha vinto.
CAT. Figlia, amico, non sempre
La mestizia, il silenzio
È segno di viltade; e agli occhi altrui
Si confondon sovente
La prudenza e il timor. Se penso e taccio,
Taccio e penso a ragion. Tutto ha sconvolto
Di Cesare il furor. Per lui Farsaglia
È di sangue civil tepida ancora;
Per lui più non si adora
Roma, il Senato, al di cui cenno un giorno
Tremava il Parto, impallidia lo Scita;
Da barbara ferita
Per lui su gli occhi al traditor d’Egitto
Cadde Pompeo trafitto; e solo in queste
D’Utica anguste mura,
Mal sicuro riparo
Trova alla sua ruina
La fuggitiva libertà latina.
Cesare abbiamo a fronte,
Che d’assedio ne stringe: i nostri armati
Pochi sono e mal fidi. In me ripone
La speme, che le avanza,
Roma, che geme al suo tiranno in braccio;:
E chiedete ragion s’io penso e taccio?


