Amalia Marucchi Nizzoli nacque a Livorno nel 1805 da una famiglia benestante di origine torinese che si era rifugiata in Toscana dopo l’occupazione francese del Piemonte. Le non molte notizie che la riguardano si desumono da alcune corrispondenze epistolari e soprattutto dalle sue memorie, parzialmente completabili con documenti d’archivio di recente scoperti. Nell’atto di battesimo risulta chiamarsi Prassede Amalia Maria, ma forse perché imposto per retaggio familiare e a lei non gradito, omise sempre il primo nome, e si può presumere che per gli stessi motivi non avesse usato il cognome del padre, Giacomo Sola, che sostituì con quello della madre.

Nel 1819, a quattordici anni e sul punto di rientrare a Torino assieme alla famiglia, si imbarcò alla volta di Alessandria d’Egitto per raggiungere Filiberto Marucchi, un parente materno originario di Moncalieri e da lei chiamato affettuosamente zio (come pure qui di seguito si farà), che a Siut (oggi Asyut) era medico personale di Ibrahim Pascià, potente Defterdar Bey (una sorta di ministro delle finanze) del regno; con lei e i genitori salparono anche la sorella minore e il figlio di Marucchi.

Intelligente autodidatta, la giovane (probabilmente già francofona e con conoscenze di latino), negli otto mesi trascorsi ad Asyut imparò l’arabo da una schiava e attinse buone letture dalla ricca biblioteca dello zio; altro apprese nelle conversazioni con i dotti che frequentavano la cerchia familiare, senza contare che la progressiva padronanza dell’idioma locale le avrebbe presto consentito di relazionarsi direttamente con i più ragguardevoli personaggi dei luoghi e di intermediare per un composito flusso di uomini di cultura e di scienza (ma anche di avventurieri), che dall’Europa arrivava in Egitto sulla scia delle lungimiranti iniziative riformiste che il viceré Mohammed Alì (1805-1845) stava attuando per modernizzare il paese.

In Asyut un ricco commerciante smirniota e amico di famiglia, Paolo D’Andrea, chiese ufficialmente di sposarla, benché ancora giovanissima; l’unione non era malvista dagli zii, ma la nipote la ricusò adducendo il proprio stato giovanile e l’eccessiva differenza di età con il quasi cinquantenne pretendente. Seppur titubante, acconsentì invece alla proposta di Giuseppe Nizzoli (1792/1794-1858), giunta quando il Marucchi e tutta la famiglia Sola si erano spostati al Cairo seguendo il Defterdar Bey che nel frattempo vi si era trasferito. Modenese di nascita, con trascorsi commerciali a Milano e Trieste, e ora inserito nei quadri della diplomazia austriaca, il Nizzoli stava cominciando la carriera nelle funzioni di cancelliere nel viceconsolato ad Alessandria, ed era pure un collezionista e mercante di antichità egizie di una certa notorietà, oltre che egittologo; al suo nome sono tuttora legate tre raccolte di reperti da lui in parte acquistati e in parte scavati a Menfi, di cui l’iniziale, formata verosimilmente fra il 1818 e il 1820, era stata acquisita l’anno successivo dal Kunsthistorisches Museum di Vienna; la seconda, composta da almeno 1400 pezzi e messa insieme fra il 1820 e il 1822, sarebbe stata comprata dal granduca Leopoldo II di Toscana ed è oggi visibile al Museo Archeologico di Firenze; e la terza, costituita fra il 1825 e il 1827, e ora accolta nel Museo Civico Archeologico di Bologna, nel 1831 avrebbe trovato un primo acquirente nel pittore Pelagio Palagi.

Favorite dallo zio, le nozze fra l’aitante cancelliere e la sposa minorenne si celebrarono per procura nel 1820 al Cairo, non potendo l’altra metà lasciare il suo posto al consolato ad Alessandria: l’unione si rivelò felice, e Amalia fu sempre una moglie fedelmente dedita al marito, del quale fino all’ultimo avrebbe condiviso gli interessi e la sorte anche nei momenti più difficili, in un intenso rapporto di vita in comune. A breve, e in seguito a un avvicendamento del personale fra i consolati delle due città, il Nizzoli fu trasferito al Cairo e la coppia andò ad abitare nel palazzo del Defterdar Bey; senonché, passato appena un anno, gli venne consigliato di trascorrere un periodo di congedo in Italia per rimettersi da un malfermo stato di salute prodotto dal clima egiziano. Dopo una tribolata navigazione, nel 1822 i coniugi sbarcarono a Livorno assieme ai pezzi della ricca collezione che da lì a poco il Nizzoli sarebbe riuscito ad alienare al granduca di Toscana, e durante la quarantena nel porto livornese nacque Elisa, la loro primogenita. Entrambi si diressero quindi a Firenze per le trattative della vendita, e poi a Milano dove soggiornarono fino al 1824.

Nel 1825 ritornarono nuovamente in Egitto, e l’abitazione al Cairo diventò il punto di incontro per amicizie vecchie e nuove, compresa quella con l’illustre naturalista Giambattista Brocchi (1772-1826), prossimo a partire per la sua fatale esplorazione nell’Alta Nubia. Per la conoscenza dell’arabo, affatto inusuale in una donna straniera, e grazie alle entrature consolari, Amalia non tardò a essere accolta nell’entourage cortigiano del viceré e a venire in confidenza con le mogli dei più elevati dignitari di corte, nonché con la consorte dello stesso Defterdar Bey; e quando cominciò a vestirsi all’orientale, l’espediente le permise di accedere a molte dimore e palazzi privati altrimenti inibiti a occhi profani, come pure di penetrare negli inaccessibili harem.

Su incarico del coniuge, impedito per obblighi di ufficio (nel frattempo era divenuto affidatario temporaneo del viceconsolato), nel 1825 Amalia assunse per una quarantina di giorni una impegnativa conduzione degli scavi archeologici nella necropoli di Sakkarah presso l’antica Menfi, affrontando i disagi del deserto con una servitù ridotta al minimo. Dopo la spedizione egiziana di Napoleone, e specialmente dopo la pubblicazione del primo volume della Description d’Égypte nel 1809, in Europa era esplosa e non cessava di prosperare una “egittomania”, che incentivava i viaggi nella terra dei faraoni e vi incoraggiava una miriade di scavi e ricerche; agevolate da compiacenti permessi governativi, queste indagini in parte erano organizzate, a livello formale e tramite i rispettivi consolati, dalle nazioni politicamente più prestigiose e influenti (in primo luogo la Francia, l’Inghilterra, la Germania e la Svezia), e in più ridotta aliquota venivano allestite da mercanti e trafficanti privati, allettati dalla non irrealistica prospettiva di facili guadagni. Il Nizzoli era uno di costoro, ma non parlando l’arabo né potendo allontanarsi dall’impiego, ebbe nella moglie la sostituta ottimale oltre che una collaboratrice di efficiente e fidata complicità: anche le loro ricerche, infatti, miravano a raccogliere materiale da vendere vantaggiosamente ai collezionisti del vecchio continente, come in precedenza era avvenuto per le due raccolte che il Nizzoli aveva formato tra il 1818 e il 1822. Da principio scarsi e poco significativi, gli oggetti rinvenuti divennero infine numerosi, e Amalia seppe abilmente destreggiarsi in mezzo a gente di ogni risma, fra il compito di gestire due squadre di scavatori indigeni e i furti commessi a suo danno dagli stessi lavoranti, istigati da agenti consolari astuti e subdoli che si contendevano i reperti con tutti i mezzi.

Nel 1826 il governo austriaco nominò Giuseppe Acerbi (1773-1846) console generale d’Egitto, con sede in Alessandria. Il discusso ex direttore della nota “Biblioteca Italiana” promosse subito alla carica di cancelliere generale il Nizzoli, che aveva avuto la possibilità di conoscere e apprezzare nel biennio da lui trascorso in Italia; a consolidare l’amicizia fra i due era seguita una corrispondenza epistolare reciprocamente proficua, ma i buoni rapporti non tardarono a incrinarsi: troppo grande il divario caratteriale fra l’autoritario e accentratore Acerbi e il suo velleitario e ambizioso subalterno. La rottura fu rapida e totale, e già nel corso dell’anno il neocancelliere si vide costretto a dimettersi dall’impiego: ufficialmente di nuovo per ragioni di salute, in realtà per evitare il licenziamento conseguente a una disinvolta gestione della cassa e dei bilanci contestatagli aspramente dal superiore.

Le memorie di Amalia non fanno il minimo cenno del grave incidente, forse per opportunità o forse a ragion veduta; fatto sta che l’accaduto piombò come un macigno sul capo dei due coniugi, e il Nizzoli si affrettò a recarsi a Trieste e poi a Vienna per organizzare la propria linea difensiva in una causa che, tra memoriali, ricorsi e controricorsi avrebbe compiuto un itinerario lungo e contrastato. Partendo nel 1827, e fiducioso di ottenere soddisfazione in tempi rapidi assieme a un nuovo incarico consolare, e stavolta a Smirne, con mal riposta sicumera l’ormai ex funzionario convinse la moglie a imbarcarsi prontamente per quella città, e a portare con sé il padre, la primogenita Elisa e Luigia Antonietta, la seconda figlia venuta alla luce da alcuni mesi: una creatura sfortunata, che a pochi giorni dalla nascita perse un occhio per un’infezione contratta dalla nutrice e, malata, morì durante il viaggio della nave, che dapprima incorse in una drammatica bufera e quindi subì l’assalto dei pirati; l’evento più tragico e doloroso fu tuttavia la perdita della piccola, il cui corpo fu sepolto in mare con grande disperazione della giovane mamma.

Così nella primavera del 1828 Amalia rimase sola a Smirne, dove prese dimora nella zona inglese e si integrò rapidamente nella compagine sociale e mondana della città, restando in attesa di buone nuove dal marito; invece poco più di un anno dopo le arrivò l’avviso di reimbarcarsi nuovamente e di raggiungerlo in Italia. Sospeso dallo stipendio da molti mesi, il Nizzoli cominciava a versare in gravi difficoltà economiche, ma per riottenerlo avrebbe dovuto attendere quasi cinque lunghi anni, ché tanti ancora ce ne vollero prima di venire penalmente riabilitato, poter partecipare al concorso per un posto consolare, e vedersi assegnato un viceconsolato a Zante. Per una comprensibile pietà familiare Amalia tacque del tutto sulla penosa vicenda, e saltò a piè pari il racconto di quel non breve periodo, trascorso in ristrettezze angosciose e ora rivelate da documenti che, tra l’altro, informano come nel 1835, in procinto di partire per Zante, il nuovo viceconsole dovesse chiedere un anticipo perfino per pagarsi l’uniforme.

Fu a Zante che nel 1840 Amalia conobbe il marchese Francesco Cusani (1802-1879), che stava terminando giusto allora il resoconto dei suoi viaggi in Dalmazia e in Grecia. Direttore editoriale della rinomata casa editrice “Pirrotta e C.”, nonché amico di famiglia, tramite il marito egli era venuto a sapere del diario, volle leggerlo, e preso dalla singolarità delle vicende narrate e dalla novità di una scrittura femminile, tanto insistette, che pur riluttante e fra non pochi dubbi alla fine Amalia glielo affidò per la stampa, che si concretizzò nel 1841 con i tipi del medesimo editore.

La novità del libro, quasi sfuggita alla prefazione del Cusani ma ammiccata dall’autrice nella propria premessa, era quella di essere scritto da una donna principalmente per altre donne, e in particolare per destinatarie sempre più abituate al giornalismo delle riviste di moda femminili, e avide di letture che le facessero evadere da una ordinaria e sovente grigia quotidianità. La Nizzoli seppe soddisfarle non in virtù delle sue esperienze di viaggiatrice (inconsistenti nello stretto significato odeporico di questo termine), bensì come donna dotata di un acuto senso dell’osservazione e di perspicaci curiosità, unite a uno spirito vivace e a un piglio affabulante non di rado sapido e arguto, che per la sua esposizione semplice e lineare, benché sostenuta da una vigorosa capacità rievocatrice, incontrò i gusti di una platea culturalmente eterogenea ma non sprovveduta. Presa in un fitto susseguirsi di situazioni che si incastonavano al meglio in una narrazione autobiografica variata da resoconti epistolari, la lettrice aveva modo di spaziare dagli episodi di cronaca spicciola alla descrizione degli aspetti istituzionali, dalle escursioni nel deserto alle scoperte negli scavi archeologici, dalle sfilate dei massimi dignitari e dai coloriti fasti cerimoniali alle feste della tradizione popolare; ma anche si calava nelle scene di miseria esistenziale in un paese dove le grandezze di una incipiente modernizzazione continuavano a convivere e a contraddirsi con le usanze primitive e con le superstizioni ereditate da un’antica civiltà.

Come recita il sottotitolo, i punti salienti del libro riguardavano però “i costumi delle donne orientali e gli harem”, e intendevano distinguerlo dalle altre pubblicazioni memorialistiche sull’Egitto allora correnti, gratificando una serie di curiosità prevedibilmente non solo femminili. Sui fatti di costume la Nizzoli non destinò uno spazio specifico nell’economia della narrazione, e si soffermò ogni volta che il filo del discorso gliene dava l’estro; il risultato fu un insieme di notizie sparse, che peraltro mettevano in grado di farsi una sufficiente idea sulla fisionomia delle donne egiziane, i capi del loro abbigliamento, le tinte dei tessuti, i gioielli, gli oggetti della toeletta e le acconciature, senza tralasciare il trucco, la cura e il colore delle unghie e le abitudini tanto più appariscenti (quali il fumare le pipe) quanto estranee e inaudite alle consuetudini delle donne occidentali. Fu invece più circostanziata nei tre interi capitoli sulla vita negli harem, dove fu la prima italiana ad accedere in quanto donna e parlante la lingua del paese. I due edifici che l’ospitarono (posseduti dal Defterdar Bey e dal generale Abdin Bey), erano i più importanti del Cairo, ma l’esclusivo privilegio di averne varcato le soglie non la entusiasmò: fin da subito la misero a disagio l’imbarazzante onnipresenza degli eunuchi, il vuoto esistenziale in sale sontuose, il monotono ripetersi dei cerimoniali e gli insipidi chiacchiericci fra donne d’alto bordo e di bassa o nessuna istruzione; non fu colta da meraviglia, perciò, quando vide che delle splendide odalische erano messe a lavare le scale, e nemmeno si sorprese quando scoprì che, per le abitanti di quelle prigioni dorate, le parentesi di atteso e genuino divertimento giungevano le rare volte che i mariti le lasciavano andare ai bagni pubblici, dove si recavano insieme con sfoggio di lusso, in gran pompa e debitamente scortate, mescolandosi poi gioiose fra una anonima folla plebea in ambienti sporchi e malsani.

Nelle pagine rivolte a questo chiuso micromondo, e forse le più azzeccate delle Memorie, è parso di scorgere un consapevole ribaltamento “al femminile” di una icona plasmata e favoleggiata nel corso dei secoli da un immaginario maschile tanto irrealmente fantastico quanto eroticamente fantasioso. Lette in filigrana, da esse trapela piuttosto il disincantato e umanissimo ridimensionamento di una crudele e ineffabile realtà; a esprimerlo fu una donna che non esitò ad abbigliarsi all’orientale ma continuò a giudicare con i principi dell’etica cristiana, la cui superiorità considerò un’acquisizione indiscutibile e comunque non negoziabile; eppure, quando si volse a valutazioni critiche su diversi aspetti abitudinari e comportamentali di entrambi i sessi (non ultima la danza del ventre), seppe sempre mantenerle entro limiti equilibrati e rispettosi di valori che avvertiva lontani dai propri, senza per questo volerli apertamente condannare. Per questo misurato approccio, oltre che per le numerose informazioni di prima mano, le Memorie furono accolte con favore sia dai lettori che dalla critica del tempo, e ancora oggi si fanno leggere volentieri, rendendosi meritorie nel campo egittologico, dell’antropologia e della letteratura di genere.

Nel concludere il libro la Nizzoli aveva annunciato di volergli dare una continuazione interamente mirata al suo soggiorno in Zante, oltre alle usanze, ai costumi e al clima dell’isola. Il progetto fu vanificato dalla morte prematura e presumibilmente coeva dell’autrice; su di lei in effetti non si hanno più notizie dall’agosto del 1841, e poiché risulta che nel 1849 il marito convolò a nuove nozze con una giovane di Corfù, dovrebbe essere deceduta nell’intercorrenza fra le due date, e quindi a una età fra i 35 e i 43 anni. Ben più giovane sarebbe morta la figlia Elisa, stroncata dalla tubercolosi ad appena 25 anni nel 1848, dopo aver sposato Henry Knight Storks, un ufficiale inglese conosciuto a Zante e destinato a un luminoso avvenire politico nel governo britannico.

Bibliografia

Sono due le biografie più complete su Amalia Nizzoli: una, redatta nel 2009 da G.E. Popoff e corredata da una ricca bibliografia, per il sito Italian Women Writers (in rete); l’altra, dovuta a M. Arriaga nel Dizionario Biografico degli Italiani, 93 (2018), pp. 117-119 (consultabile anche in rete). Da entrambe soprattutto si è attinto per la compilazione del presente profilo, che ha pure tenuto conto delle notizie desunte dai documenti commentati da L. Gabrielli, Amalia Nizzoli: nuovi elementi per una biografia, in “Ricerche di Egittologia e di Antichità Copte”, I (1999), pp. 55-75; e da S. Daris, Giuseppe Nizzoli. Un impiegato consolare austriaco nel Levante agli albori dell’egittologia, Napoli 2005. Il nome della Nizzoli non compare nelle storie e nei repertori generali della letteratura italiana, ma significative scelte antologiche delle Memorie assieme a essenziali lineamenti biografici hanno fornito C. Cappuccio, Memorialisti dell’Ottocento, III, Milano-Napoli 1972, pp. 55-122, e L. Clerici, Scrittori italiani di viaggio, I (1700-1861), Milano 2008, pp. 1172-1202. Le riservano, come ovvio, un posto di rispetto gli studi relativi ai primordi della scienza egittologica, per i quali si rinvia al contributo di C. Zanforlini, Svelare l’Oriente: l’Egitto di Amalia Nizzoli (2014, in rete), e alla riedizione a stampa delle Memorie, curata da S. Pernigotti (Imola, 1996); un’altra, più recente e sollecitata dall’accresciuto interesse per la letteratura femminile, ha dato M. Arriaga (Bari, 2002).

Note biografiche a cura di Giovanni Mennella

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autore:
Amalia Nizzoli
ordinamento:
Nizzoli, Amalia
elenco:
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