Dall’incipit del libro:
LA CAGNA NERA
Quando mi tornano a mente i miei genitori (adesso si stanno accanto nel cimitero del villaggio) e gli anni della mia giovinezza, allora gli occhi si ricolmano di lagrime. Ecco: era lassù! da tutte le strade del piano, anche da lontano, lo si distingueva il palazzo antico e quadrato, su in vetta della collina, con i quattro cipressi alti che dentellavano il cielo e facevano la guardia al portone: il portone era ad arco con grosse bugne di marmo e di sopra portava una targa; perchè la mia famiglia era nobile: io non sono più niente; ma la mia famiglia, dico, era nobile e di buona razza. La targa portava sul quartiere un bel fiordaliso e il motto crescet in aevum. Dietro v’era il roseto, ma grande, grande da farne un podere. Ma dissodatelo, signor conte dicevano al babbo i buoni borghesi del villaggio dissodatelo; vi verran fuori venti e più sacchi di grano. Lui sorrideva nei suoi occhi celesti così dolci e: Avete ragione, miei buoni amici rispondeva ci penserò su, ci penserò. Ma non ne faceva niente perchè era la mamma che non voleva, una delle poche cose che non voleva; e anche quando morì lui ed anche il palazzo fu coperto da ipoteche (io non ne sapevo nulla), il roseto non fu toccato. Vecchie ubbie di aristocratica diceva la gente, ci ha le ipoteche anche sui tetti e vuol conservare le rose! Ma il roseto rimase fintanto che ella visse, la mia santa madre; signorilmente rimase a dispetto delle cipolle e delle patate, ed io lo ricordo tutto vivo e fiammante come una porpora stesa giù per il declive del colle. Era una meraviglia! Venivano anche da lontano a visitarlo, il roseto! E per Pasqua fiorita se ne portavano via a carrette delle rose: e tutti i santi e tutte le sante delle parrocchie vicine ne toccavano la loro parte.


