Due realtà lontanissime, la raffinata e colta corte umanistica ed il rude e violento mondo dei mercenari, convivono nel romanzo e si incarnano nel suo protagonista, Sigismondo Malatesta, signore di Rimini, Cesena, Bertinoro, Fano, Senigallia «ed altri molti fra borghi e villate». Sul campo di battaglia egli è un valoroso condottiero, temuto, rispettato ed amato dai suoi soldati, generoso nel premiarli ma implacabile nel punirne le mancanze. Così lo descrive un suo cavaliere:
«Messer Sigismondo è appunto soprannominato, da chi ben lo conosce, Cordifoco, e per la sua temerità senza limiti, e per l’ardore che mette in tutto ciò che fa, e per la passione che ha per ogni bella, per quanto il suo cuore sia sempre verso madonna Isotta… Strano uomo quello, Martino; stranissimo uomo: ma tanto, tanto grande, che noi, anche ad alzare la testa da torcerci il collo, non riusciamo a vedere fin dove arrivi. Cordifoco! Hanno ragione, a chiamarlo così. Cuore di fuoco ardente davvero; e volontà.»
Al suo comando, sottoposti ad una ferrea disciplina, mercenari tedeschi ed italiani, cavalieri e semplici fanti, conosciuti con azzeccati soprannomi che ne colgono le peculiarità: Rosichino, Saltasiepe, Mettopegno, Fabbro, Vernaccia, Miseria, Caciofresco… I preferiti del condottiero sono i “Cagnacci”, comandati da Matteo Milonato, “ser Colubrina”, «il più temerario fra i temerari soldati di quel temerario che era Sigismondo Malatesta», astuto, valoroso e arguto, pronto a tutto per difendere i suoi “fratelli d’armi” e disposto a dare la vita per il suo capitano:
«Ed era bello, Sigismondo, bello come il dio della guerra, sul suo gran destriero da battaglia, accompagnato ovunque, come dalla sua ombra, da Ser Colubrina.»
Il “dio della guerra”, una volta rientrato nel suo castello, si trasforma in un colto signore umanista, dedito a coltivare il suo sogno di restaurare il Tempio Malatestiano:
«pareva non ritener nulla troppo splendido per la pleiade di illustri personaggi che accoglieva con grande fasto. I poeti Porcellio, Basinio, Trebanio, Tobia del Borgo, che molto contribuirono agli Isottei, gli umanisti, i pittori, gli scultori, gli architetti – coi quali tutti egli discuteva dottamente, essendo a sua volta poeta, letterato, architetto, artista fine e di elevatissimo gusto – erano accolti e trattati come principi, e trovavano nel magnifico mecenate un ammiratore che pareva gloriarsi di esser loro discepolo anche quando parlava da maestro.»
Quasi tutti i personaggi maschili del romanzo esercitano il mestiere delle armi, ma il narratore lascia sullo sfondo il tema della guerra per porre in primo piano i sentimenti: l’amore delle donne e la cieca devozione dei soldati nei confronti di Sigismondo, la fratellanza fra commilitoni, ma soprattutto il conflitto interiore dello stesso protagonista, innamorato ma infedele, devoto ma peccatore incallito, implacabile capitano di ventura e appassionato amante… È innamorato non della moglie, figlia di Francesco Sforza, sposata secondo la consuetudine dell’epoca solo per stipulare un’alleanza con il potente padre, duca di Milano, ma di Isotta degli Atti, figlia di un nobile decaduto costretto a dedicarsi alla “mercatura”:
«Quel sorriso d’Isotta! I poeti lo avevano cantato, esaltato in tutti i modi e con le più ardite immagini, saccheggiando a preferenza la mitologia e i classici latini, ma senza tralasciare i più moderni scrittori; Sigismondo si era sforzato, con ammirazione sempre nuova, di descriverne il ricordo nelle appassionate epistole scritte dal campo; lo stesso popolo riminese ne discorreva come di una magìa cui cuore umano non poteva resistere.»
Isotta, da tutti paragonata a un “angelo del Cielo”, celebrata per volere di Sigismondo da poeti e pittori, amata dal popolo e soprannominata per bellezza e virtù “Resmiranda” (dal latino res miranda, “entità tale da suscitare meraviglia”), venerata perfino dai più rudi mercenari, è divenuta nei secoli assieme al suo amante un personaggio leggendario. Lo testimoniano, quasi cinquecento anni dopo, i Canti Malatestiani di Ezra Pound, che nel 1923 visiterà a Rimini il Tempio Malatestiano, fatto ristrutturare da Sigismondo, avvalendosi di artisti come Leon Battista Alberti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca, forse in onore di Isotta, come testimonierebbero, secondo la leggenda cui Pitta dà credito, le iniziali “S.I.”, ossessivamente presenti all’interno dell’edificio.
Affascinante leggenda, smentita però da fonti storiche secondo le quali si tratterebbe invece di un’abbreviazione del nome del capitano di ventura, “SI” (Sigismundus), tesi confermata, oltre che dalle stesse iniziali incise su oggetti e documenti che non hanno nulla a che fare con Isotta, dal fatto che anche il contemporaneo Federico da Montefeltro si firmava spesso FE.
Pitta, in questo romanzo del 1937, non ricostruisce l’intera vicenda del capitano di ventura, dall’ascesa, al soldo prima della Chiesa, poi della Serenissima, di Alfonso d’Aragona, degli Sforza, fino al declino, segnato dal venir meno dell’appoggio del papa, ma si concentra quasi esclusivamente sugli eventi di un anno, il 1450, narrando di armi ed amori e passando di capitolo in capitolo dai ratti di belle dame alle imprese eroiche dei mercenari italiani (dei tedeschi tende invece a dare un’immagine negativa), dalla passione per Isotta, che il protagonista vanamente si sforza di esprimere in versi, alla drammatica vicenda dell’orgogliosa Polissena, che si ribella ai continui tradimenti del marito:
«Oh, messere, mi guardate come se supponeste che Polissena Sforza, la figlia del grande Francesco, potesse atterrirsi al vostro cipiglio come l’ultima delle vostre vassalle!… Ah, ah! Lo so, che siete possente; lo so, che siete crudele e pronto a qualsiasi delitto; lo so, che forse un giorno pagherò con la vita queste mie parole. Lo so, ma vi ripeto: non ho paura.»
Una strada in salita, quella del capitano di ventura, insanguinata, segnata dalle imprese eroiche, dall’ambizione, dalla volontà di sposare l’amata Isotta, ma anche dai delitti e dai sensi di colpa, efficacemente simboleggiati dalla ricorrente immagine della scala vermiglia, che lo attrae e nel contempo lo tormenta:
«La scala! La scala vermiglia! Sangue, sangue e gloria! Sangue e amore! Ma sempre sangue, il suggello della vita di Sigismondo, perpetuamente oscillante fra il male e il bene. […] E sempre, e sempre la scala vermiglia. Il simbolo della sua vita, il simbolo della sua passione. Salire, ma salire nel sangue.»
Alla fine del romanzo, il tempo della narrazione subisce una brusca accelerazione, e sono rapidamente rievocate, con ellissi, anticipazioni e rapidi salti temporali, le vicende successive alla morte di Polissena, fino al matrimonio di Sigismondo. Viene qui descritta per la prima volta, nei dettagli, una sanguinosa ed eroica battaglia, a Fornolungo, contro forze nemiche preponderanti (12 cavalieri e 12 fanti contro sei “lance”, 40 cavalieri e 80 fanti), in cui un ser Colubrina ormai anziano deve lottare strenuamente per salvare la vita al suo signore, a costo di sacrificare la propria.
Il romanzo si chiude con le nozze fra Sigismondo e Isotta, nel 1456; il narratore ne interrompe la narrazione per evocare, con l’escamotage di un sogno premonitore che Isotta avrebbe avuto la notte precedente, gli eventi degli anni successivi, sempre segnati dall’immagine della “scala vermiglia”, per ritornare però nell’ultima pagina al coronamento del sogno di Sigismondo: il matrimonio con la donna amata.
Sinossi a cura di Mariella Laurenti
Dall’incipit del libro:
— Eccomi ai vostri ordini, messer Corrado – disse l’uomo d’arme, alzando la semplice cortina che copriva l’uscio della sala e lasciandola ricadere soltanto allorchè il cavaliere seduto accanto al semplice tavolino di quercia, e intento a far mucchietti di monete d’argento che toglieva da un sacchetto di cuoio, gli ebbe fatto cenno di avanzarsi.
Vi fu un breve silenzio. Colui che era stato chiamato messer Corrado finì di fare mucchietti con le monete, li contò, poi ripose di nuovo tutto nel sacchetto, dicendo soddisfatto, e con un pronunciato accento tedesco:
— Vieni avanti, Martino. Come vedi, messer Sigismondo anche questa volta ha pagato puntualmente, ed io debbo fare la distribuzione fra le mie lance. Ce n’è anche per te, naturalmente. Ma prima voglio dirti perchè ti ho fatto chiamare.

