Filippo PanantiFilippo Pananti nacque nel 1766 nei dintorni di Ronta, una frazione di Borgo San Lorenzo (FI) nel Mugello, da discendenti di antichi possidenti del luogo. Ottavo di undici figli, era rimasto orfano del padre ad appena due anni, e assieme ai fratelli fu posto sotto la tutela dello zio materno Angelo Gatti, medico illustre e tra i precursori della vaccinazione antivaiolosa in Italia. Dopo una preliminare istruzione privata, il giovane manifestò un precoce interesse per le lettere, e lo zio lo avviò al sacerdozio, mandandolo a studiare nel seminario-collegio vescovile di Pistoia, in cui rimase dal 1777 al 1785.

In quel decennio si avvide di non avere la vocazione sacerdotale e infine lasciò il collegio. Di concerto con lo zio si iscrisse allora alla facoltà di legge dell’Università di Pisa, diventando allievo e sodale di due noti costituzionalisti, Giovanni Maria Lampredi e Lorenzo Pignotti. Il Pananti si laureò nel 1789, ma nemmeno l’attività forense gli era congeniale e non l’avrebbe mai esercitata, preferendo dedicarsi alla poesia e comporre epigrammi, per i quali si sentiva versato; però lo zio avrebbe preferito vederlo nella più seria posizione di uomo di legge, e nel 1792, divenuto medico di corte a Napoli, lo propose al Lampredi per inserirlo nella commissione incaricata di redigere la revisione del Codice civile toscano: speranza che si dileguò già l’anno appresso, quando questi morì prematuramente lasciando il Pananti libero di rendersi alle lettere nell’ambiente culturale fiorentino, dove divenne assiduo del salotto del marchese Federico Manfredini, primo ministro del granducato di Toscana e di fatto responsabile della sua politica estera, che lo introdusse nell’Accademia degli Infuocati.

Grandi cambiamenti, intanto, si approssimavano sui destini della regione. Nelle incertezze politiche suscitate dalla Francia giacobina e dalle sue mire espansionistiche in Italia, sul principio il granduca Ferdinando III era riuscito ad assicurarle una parvenza di neutralità grazie alla tattica attendista del Manfredini, che fin dal maggio del 1795 decise di servirsi anche del Pananti come mediatore ufficioso fra il governo granducale e gli esponenti della diplomazia d’oltralpe residenti a Firenze, tra cui il conte André François Miot, plenipotenziario del Direttorio. Il fiduciario non tradì le attese: la sua posizione sociale assieme alla conoscenza del francese, all’illustre parentela e al sincero spirito democratico orientato su non inopportune posizioni moderate, lo resero un interlocutore affidabile e gradito alla diffidente controparte, permettendogli di attingere informazioni riservate e vantaggiose per orientare sulle mosse che di volta in volta conveniva prendere nei rapporti con la Francia, onde evitare una sempre più temuta occupazione. Preso nel suo funambolico compito, tra il 1797 e il 1799 il Pananti viaggiò molto, accostò importanti esponenti politici e culturali della neonata Repubblica Cisalpina, e poté conoscere Napoleone e Pio VI.

L’illusione di un neutralismo a oltranza fu comunque di breve durata. I rapporti con i francesi cominciarono rapidamente a deteriorarsi, finché nel 1799, sulla spinta delle nuove direttive napoleoniche, anche in Toscana una reggenza giacobina subentrò al regime granducale, costringendo Ferdinando III e la sua corte ad allontanarsi da Firenze. Dopo un iniziale rifugio negli ozi letterari, il Pananti rientrò nella politica attiva, si scoprì su posizioni libertarie e repubblicane, ed ebbe modo di manifestarle con entusiasmo in diversi infiammati discorsi pronunciati presso la Società patriottica fiorentina della quale divenne fervente animatore, prima di pubblicarli nel Monitore fiorentino: in essi, tra l’altro, si batté in difesa dei diritti dei carcerati e insistette sull’urgenza di una estesa alfabetizzazione sociale e della libertà di stampa, meritandosi l’appellativo di “Thomas Paine toscano”. Non per ciò venne meno la sua sollecitudine mediatrice, adesso indirizzata a equilibrare le pretese del nuovo occupante con le quotidiane esigenze della popolazione, ma a metterla presto a dura prova fu il movimento sanfedista controrivoluzionario dei “Viva Maria”, che si era rapidamente ramificato nell’Italia settentrionale piantando solide radici ad Arezzo e nel Mugello, dove alla fine scoppiò l’insurrezione. Accorso sui luoghi dei tumulti, i suoi pur efficaci discorsi pacifisti per venire a patti con i ribelli non sortirono alcun effetto, e una serie di fraintendimenti intervenuti fra lui, il governo in carica e gli stessi insorti, forse creati di proposito, lo costrinsero a fuggire per salvarsi la vita.

Quando i francesi si ritirarono dalla Toscana in seguito alla sconfitta della Trebbia nel giugno del 1799, per il Pananti il ritorno di Ferdinando III, avvenuto da lì a due mesi, significò la confisca dei beni e la via del volontario esilio. Girovagò per qualche tempo in Europa senza una meta precisa prima di riparare in Francia, e dagli inizi del 1800 fino agli ultimi mesi del 1802 insegnò lingua e letteratura italiana e storia presso l’allora famosa scuola-collegio di Sorèze. A questo periodo risale l’esordio letterario, con la raccolta di Epigrammi e novellette pubblicata a Milano probabilmente nel 1799, e i due poemetti La civetta, apparso nel medesimo anno, e Il paretaio, uscito nel 1803, entrambi sempre a Milano. Fatte brevi soste in Olanda e in Spagna, il Pananti si trasferì quindi a Londra, pensando di soggiornarvi pochi mesi: invece vi sarebbe rimasto per dieci anni, trattenuto dalla ripresa delle ostilità fra l’Inghilterra e la Francia, e distratto dalle piacevolezze di una decorosa sistemazione consentita da buoni introiti.

Fu quella, infatti, la parentesi più feconda dell’esilio: oltre a insegnare italiano al bel mondo londinese, fra cui la duchessa di York, e a darsi a pratiche commerciali, nel 1813 con altri esuli fondò il giornale politico-letterario L’Italico, divenendone direttore e impegnandosi in una fitta e variegata attività pubblicistica; ad attrarlo fu però soprattutto l’ambito teatrale, dove non tardò a legarsi in fraterna amicizia col celebre librettista Lorenzo Da Ponte che, prossimo a emigrare in America, riuscì a fargli ottenere il posto di poeta del King’s Theatre in Haymarket, il teatro regio italiano che metteva in scena opere musicali. Nella nuova occupazione seppe abilmente destreggiarsi fra problemi, compromessi e imprevisti d’ogni genere nei complicati rapporti col mondo estroverso e capriccioso degli attori, da lui poi ritratto con ironia e fine sarcasmo nel poema tragicomico e in parte autobiografico Il poeta di teatro: romanzo poetico in sesta rima, edito a Londra nel 1808 e favorevolmente accolto da pubblico e critica.

Nel settembre del 1813, ritenendo ormai possibile rientrare in Italia, il Pananti salpò per la Sicilia, forse intenzionato a compiere un viaggio in Oriente. Ospitale e generoso con gli esuli fuoriusciti non solo dalla Toscana (tra i molti conobbe pure Pasquale Paoli, il noto rivoluzionario corso), troppo tardi si avvide della truffa combinata ai suoi danni da due di loro, che lo indussero a imbarcarsi con documenti identitari carenti e su di una nave di precaria consistenza, che alla sicura traversata in un convoglio protetto contro le aggressioni piratesche preferì correre il rischio di una navigazione isolata e più rapida, ma tanto maggiormente esposta al pericolo di un incontro con i corsari berberi che infestavano il Mediterraneo. A lungo paventato, l’evento si materializzò infine al largo della Sardegna sotto forma di un abbordaggio risoltosi senza colpo ferire e tale da stupire gli stessi assalitori: passeggeri ed equipaggio furono catturati, tradotti in Algeri e fatti tutti schiavi tranne il Pananti, al quale l’identico trattamento venne risparmiato dal locale console inglese, che si prodigò subito per lui e riuscì a liberarlo dopo appena un solo giorno di schiavitù. Uscito malamente provato da quell’esperienza, solo sul finire dell’anno l’ex prigioniero ebbe l’opportunità di reimbarcarsi alla volta dell’Italia e raggiungere Palermo, dove si fermò per sei mesi e fondò un giornale democratico filoinglese, il Corriere di Sicilia, che continuò le pubblicazioni fino al suo rientro in Toscana.

I risparmi affidati a un banca londinese prima dell’odissea algerina gli consentirono di stabilirsi definitivamente a Firenze, tolti due brevi viaggi in Inghilterra e in Olanda tra il 1818 e il 1819. Nel capoluogo fiorentino si mise a frequentare i circoli letterari e specialmente il salotto della marchesa Carlotta Lenzoni de’ Medici, divenendo amico di Giovanni Battista Niccolini, Giuseppe Giusti e Atto Vannucci, e non mancò di incontrare il Manzoni e il Leopardi. A parte gli epigrammi, il Pananti non produsse più nulla di nuovo né si occupò più di politica, ma si distinse nei dibattiti e nelle discussioni culturali, e divenne una presenza abituale nel “Gabinetto scientifico e letterario” di Gian Pietro Vieusseux, di cui fu tra i primi soci; per il resto soprattutto si diede a un intenso lavoro di rifinitura e di rielaborazione dei suoi scritti, che segnò una tappa importante nel 1817, anno nel quale uscì l’unica opera che lo lega alla notorietà: le Avventure e osservazioni sopra le coste della Barberia.

L’idea di scriverla gli era venuta quando, rimesso in libertà ma impossibilitato a tornare in Italia e rimasto solo con se stesso (assieme agli averi i pirati gli avevano sottratto pure i libri e le carte personali), aveva deciso di viaggiare per appuntarsi luoghi, genti e costumi della Barberia, territorio che comprendeva l’insieme delle tre reggenze turche afferenti a Tripoli, Tunisi e Algeri, solo nominalmente soggette a Costantinopoli e all’incirca corrispondenti all’odierno Maghreb. Preceduta da un’ampia premessa sulle proprie vicissitudini, aveva cominciato a stenderla già durante la navigazione di ritorno, e un paio di pagine introduttive sotto il titolo La schiavitù di Barberia apparvero sul suo giornale a Palermo nell’aprile del 1814, in concomitanza con una più lunga narrazione fatta uscire sull’“Italico” a Londra e intitolata I quattro più orribili mesi della mia vita, che però solo la ritrovata tranquillità fiorentina gli avrebbe permesso di ampliare e concludere.

Nell’opera si distinguono agevolmente tre filoni tematici: il resoconto autobiografico del viaggio dalla partenza al rimpatrio; la descrizione geografica, storico-istituzionale e antropologica del paese, oltre che dei suoi usi e costumi; e le considerazioni finali sulle prospettive di annientare una volta per tutte il flagello della pirateria nel Mediterraneo e ripristinarvi un ordine marittimo costituito. Alle vicende del viaggio rimandano le pagine migliori, che attorno a una trama inesistente costruiscono una lenta, progressiva e sempre più stringente “suspense”, che di giorno in giorno consuma passeggeri e marinai nell’angoscioso divenire di un dramma che tutti avvertono ineluttabile, ma imprevedibile nei tempi e nei modi della sua imminenza. In questa atmosfera sospesa e rarefatta il momento dell’assalto e della cattura giunge in un liberatorio crescendo chiaroscurale che segna la conclusione di un incubo e l’inizio delle singole tragedie individuali, suggellando un racconto che è stato annoverato tra i più belli della nostra letteratura.

Discontinui e in larga misura compilativi si pongono al confronto i capitoli di carattere descrittivo: qui gli occhi non sono più quelli dell’intellettuale razionalmente curioso che fino a poc’anzi aveva sfidato anche l’ignoto, pur di aggiungere nuove conoscenze all’inventario del progressismo illuministico; sono, al contrario, gli occhi di un letterato che vede le cose con le lenti appannate di un viaggiatore divenuto tale suo malgrado e in una nazione che detesta. Per quanto annunciate nel titolo, non ci sono “osservazioni” intese come indagini conoscitive in sé sviluppate e concluse; il Pananti guarda senza osservare, quasi tutto misurando e giudicando col metro moralistico di una preconcetta e onnipresente negatività che le vicissitudini personali appena trascorse non possono che confermargli. Non sorprende, dunque, che nella sua apodittica valutazione poco si salvi, e che egli releghi la componente maura e berbera nell’infimo gradino di una scala di valori sociali e comportamentali che di converso concede uno sguardo di simpatia ai beduini, da lui considerati l’emblema etico ed esistenziale di una popolazione ancora incontaminata dal degrado di una civiltà complessivamente corrotta, dalla quale li ha preservati il loro vivere segregati nel deserto: uno spazio, questo, che per la sua ineffabile immensità più di tutti gli altri affascina l’autore, e quando diventa scenario di spettacoli naturali lo richiama di nuovo nel ruolo a lui più consono di narratore, ispirandogli pagine da antologia.

I limiti ideologici e strutturali, chiaramente avvertibili, oggi non impediscono di apprezzare le Avventure nel loro valore documentario e di considerarle una fonte importante per l’analisi dell’ultimo periodo della pirateria barbaresca e dell’ordinamento statuale che la giustificava. Nei peroranti ragionamenti che caratterizzano la parte conclusiva, il Pananti si mostra bene aggiornato sulle iniziative da mettere in atto per risolvere un problema di politica internazionale che pareva inestricabile, e che lo vede allineato sul pensiero prevalente (ma per l’epoca del tutto utopistico) di estirparlo con una esclusiva risposta militare da affidarsi a una concorde coalizione di marinerie non solo europee; quando tuttavia enumera i vantaggi che si sarebbero ottenuti nel demilitarizzare la Barberia e nel ricolonizzarla per sopperire alle necessità soprattutto alimentarie del vecchio continente, egli diventa un buon profeta e riesce quasi a intravederne l’epilogo: nel 1830, infatti, un’operazione navale francese condotta su larga scala avrebbe stroncato per sempre i rigurgiti pirateschi, principiando l’occupazione dell’Algeria e avviandola a un riassetto coloniale destinato a sussistere fino a non molti anni fa: però a beneficio di un’unica nazione, e non dell’Europa intera come il Pananti aveva ingenuamente auspicato.

A fronte della maligna accoglienza di chi osservò che la descrizione della Barberia non era tutta farina uscita dal sacco del loro autore (benché questi non avesse sottaciuto di aver utilizzato ampiamente lavori altrui, ma senza citarli), le Avventure incontrarono un decoroso favore editoriale. Se al gradimento dei lettori non fu estranea una tematica che teneva banco, a soddisfarli concorse un gustoso piglio narrativo propenso ai giochi verbali, ai motti scherzosi e agli aneddoti ironici, sbrigliati o arguti, che in guisa di mutanti siparietti si incastrano senza stonare nemmeno fra le pagine più tese e drammatiche della narrazione. Nel variato alternarsi dei toni espositivi, la naturale sapidità dello spirito toscano si fonde al meglio con uno humour squisitamente anglosassone, già echeggiante nei lavori giovanili e in seguito temprato nel lungo soggiorno inglese con la lettura dello Sterne, immettendo sulla scia della letteratura europea l’eredità della tradizione burlesca italiana rappresentata dal Berni e dal Passeroni, e insieme anticipando i motivi tipici del Giusti.

La distribuzione del testo in capitoli brevi, l’impiego di un lessico essenziale ma non povero, e un conciso periodare furono altri amichevoli ingredienti che contribuirono a divulgarne la lettura all’estero, con traduzioni in inglese (1818), francese (1820) e tedesco (1823). In Italia le edizioni furono ben sei, apparse tra il 1817 e il 1830 (più una, postuma, nel 1841), che tra modifiche, tagli, riduzioni e continui aggiustamenti testimoniano eloquentemente gli assilli di un perfezionismo autorale tormentato e inquieto: fra esse si segnalano la prima del 1817, sotto molti aspetti insoddisfacente e stampata a Firenze dal Ciardetti; la seconda, coeva e riveduta, edita in tre volumi dallo Stella a Milano (forse la più aderente di tutte all’ispirazione originale, e proposta nell’e-text); e l’ultima, uscita a Napoli nel 1830 per i tipi di Marotta & Vanspadoch, con tavole miniate e numerose note aggiuntive.

Nel 1828 si colloca l’ultimo episodio significativo nella vita del Pananti: la partecipazione al premio quinquennale bandito dall’Accademia della Crusca, per il quale si candidò assieme a Giacomo Leopardi e a Carlo Botta. Il Leopardi presentò le Operette morali, il Botta (che si sarebbe aggiudicato il premio) la Storia d’Italia dal 1789 al 1814, e il Pananti le Opere in versi e in prosa, editi in due tomi fra il 1824 e il 1825, e consistenti nella parte essenziale dei suoi scritti più rappresentativi, comprese le Avventure in edizione ridotta e con titolo parzialmente mutato. Non demeritò nell’arduo confronto, ma piuttosto che nelle vesti di memorialista la giuria lo preferì come compositore di epigrammi: ne aveva scritti centinaia, e diversi, non proprio limpidi, erano finiti pure all’Indice. Da lì a poco il suo nome sarebbe stato accolto fra gli autori citati nel prestigioso Vocabolario della stessa Accademia.

Filippo Pananti morì a Firenze il 14 settembre 1837 per un attacco apoplettico, a settantantuno anni, e fu tumulato nel chiostro della basilica di S. Croce, dove poi ricevette un monumento funebre sottoscritto da intellettuali, letterati e artisti fiorentini.

Bibliografia:

Benché tolta dall’oblìo per merito di P. Pancrazi nell’elzeviro Il dimenticato Pananti, apparso, giusto un secolo dalla morte, sul “Corriere della sera” del 30 dicembre 1937, sulla figura di questo letterato assai poco si soffermano i più diffusi repertori storico-letterari. La sua biografia più aggiornata si deve oggi a F. Brancaleoni, nel Dizionario Biografico degli Italiani, 80 (2014), pp. 674-676, che è stata soprattutto tenuta presente nella compilazione di queste pagine, assieme alle ulteriori notizie contenute nell’articolo di P.T. Messeri, 19 marzo 1766: nasce Filippo Pananti (https://www.storiadifirenze.org/?p=3709); profili più essenziali si leggono nel Dizionario enciclopedico della letteratura italiana, IV, Bari-Roma 1967, pp. 230-231, e nel Dizionario Bompiani delle opere di tutti i tempi e di tutte le letterature, 3, Milano 1987, p. 1702 (E. Allodoli). Scelte antologiche delle Avventure, anch’esse corredate da buone note biografiche, hanno dato C. Cappuccio in Memorialisti dell’Ottocento, II, Milano-Napoli 1958, pp. 3-49, e L. Clerici, in Scrittori italiani di viaggio, I (1760-1861), Milano 2008, pp. 1052-1080 (ma è anche disponibile la recente riedizione integrale a cura di F. e G. Scarpelli, Roma 2006), mentre un florilegio della produzione poetica si deve a L. Baldacci e G. Innamorati, in Poeti minori dell’Ottocento, II, Milano-Napoli 1963, pp. 591-680. Sul movimentato e discusso periodo giacobino illumina A. Agostini, Filippo Pananti e gli avvenimenti toscani, in Rassegna storica toscana, XIX (1973), pp. 85-94.

Note biografiche a cura di Giovanni Mennella

Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)

  • Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia
    Volume I
    Prima parte dell’unica importante opera in prosa che Pananti scrisse dopo essere scampato ai pirati ma ancora bloccato in Algeria. In questo volume introduttivo l’autore narra con vivida efficacia l’evolversi dell’intera vicenda dalla partenza al rimpatrio, con una lenta, progressiva e sempre più stringente “suspense”, che di giorno in giorno consuma passeggeri e marinai nell’angoscioso divenire di un dramma che tutti avvertono ineluttabile, ma imprevedibile nei tempi e nei modi della sua imminenza.
  • Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia
    Volume II
    Dopo una premessa di carattere storico, geografico e ambientale, in questo secondo volume l’attenzione e la curiosità dell’autore sono soprattutto attratte dalla varietà delle etnìe presenti nel paese e dai loro diversificati modi di vita, che egli descrive e giudica con spirito sagace.
  • Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia
    Volume III
    Il terzo volume si chiude con il tranquillo e rilassato rimpatrio dell’ex prigioniero. I ragionamenti finali inseriscono l’autore nel vivace dibattito sulle iniziative da mettersi in atto per estirpare alle radici l’inestricabile problema della pirateria magrebina.
 
autore:
Filippo Pananti
ordinamento:
Pananti, Filippo
elenco:
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