Pietro PancraziPietro Pancrazi nacque a Cortona in provincia di Arezzo il 19 febbraio 1893 secondogenito di sette figli. Il padre Vittorio era agricoltore e la madre Eugenia Serlupi Crescenzi proveniva dall’aristocrazia romana.

Frequentò le scuole elementari a Cortona e nel 1902 si iscrisse al ginnasio del collegio dei Gesuiti a Strada in Casentino, frazione di Castel San Niccolò, sempre in provincia di Arezzo. Di questa permanenza non conservò un ricordo troppo felice. Nel 1908 si trasferì invece a Roma, per proseguire gli studi al collegio Nazareno e questo fu invece un periodo per lui benefico e di utile crescita. Nel 1910 la famiglia si trasferì a Venezia perché il padre, ormai in difficoltà economiche, aveva trovato lavoro all’Hôtel des Bains. Pietro portò a termine gli studi liceali nel 1912 al collegio Foscari.

Era ancora studente liceale quando, nell’estate del 1911, iniziò a collaborare con la testata veneziana “L’Adriatico”; il suo primo “pezzo” apparve il 29 luglio 1911 ed era una nota di cronaca intitolata Il ritorno della «**sirocchia preziosa»; i suoi spunti, basati su cronaca di fatti d’attualità, denotano già una certa tendenza leggera accompagnata però da spirito di osservazione e vivo interesse per la vita quotidiana. Questi elementi si riscontrano già anche nelle pagine del suo diario, del quale abbiamo alcuni frammenti del luglio 1911 e dove si ha riscontro delle sue letture, in particolare Papini e Bourget, come critico di Flaubert, e poi degli autori che saranno in futuro tra i suoi preferiti: Collodi e Pascoli. Nel giornale del collegio romano “Il Collegiale” si era già cimentato nei primi tentativi di giudizio critico e addirittura, nel primo numero del 10 novembre 1907 comparve una sua novella firmata con lo pseudonimo Etrusco e intitolata Castellano, dove narra la vicenda di un muto pazzo che vive fino alla morte tra i ruderi di un antico castello. La novella è dedicata alla sorella maggiore Maria con la quale intratteneva un’interessante corrispondenza.

Al liceo Foscarini inizia a leggere “La Voce” prendendo particolare interesse alla lettura di Papini e, mediato da quest’ultimo e da Prezzolini, di Sorel. Tutto questo appare in sintonia con gli esiti successivi della sua formazione che lo vedrà sempre legato all’Ottocento che lui stesso definirà il proprio «rifugio». Sempre dalle colonne dell’“Adriatico” commemorò la morte di Pascoli, attraverso la lettura del quale aveva affinato le sue idee e la sua sensibilità verso il problema della morte. Dice di Pascoli:

«Fu più moderno perché fu più cristiano […], fu il solo dei tre poeti a porsi seriamente e profondamente dinanzi al problema della morte […]. la morte cos’è? È religione.»

Nel 1912 passò alla Gazzetta di Venezia, occupandosi della terza pagina e rimanendovi in maniera discontinua fino al 1918. Da queste colonne cercherà di mediare tra la sua inquietudine giovanile, caratterizzata da una ricerca interiore, e un desiderio di umorismo quasi volesse nascondere con l’ironia i suoi travagli. Nel suo pezzo L’elogio della strada che seguì l’altro, spesso citato, Come si ride, scrive:

«Nessuno spettacolo sociale può più della strada valere allo sviluppo dell’uomo di pensiero […]. Solo quando ebbe compiuto il trentesimo anno Zaratustra volle lasciare la città e il luogo natio per salire sulla montagna».

Certe riflessioni ed emozioni poté certamente perfezionarle e approfondirle con la lettura del “Leonardo” che per certi aspetti appariva più stimolante che non “La Voce”. Da queste colonne scrive per il primo anniversario della morte di Pascoli e già qui affiora un dissenso leggermente polemico con Croce.

Nel 1913 si iscrisse alla facoltà di legge dell’Università di Padova, senza conseguire tuttavia mai la laurea. Nel giugno uscì il suo primo libro Di Ca’ Pesaro e d’altro che raduna in parte articoli già pubblicati ai quali aggiunse altri nuovi. A conclusione del libro pose l’articolo del quale abbiamo già fatto cenno Elogio della strada mutando titolo in Elogio della vita intera. In questi articoli si intravede già la sua visione di cultura in rapporto alla tradizione. Non stupisce quindi che abbia visto con diffidenza le avanguardie letterarie e in particolare il futurismo. Nel 1914, già scoppiata la guerra tra gli imperi centrali, iniziarono ad affluire a Venezia gli esuli giuliani e dalmati e presso la redazione della “Gazzetta di Venezia” strinse amicizia con Slataper e Fauro. Le riflessioni sulla guerra lo spinsero a prendere posizione a favore dell’intervento sulla scia di Oriani e Boine. Posizione che è ribadita nella recensione a il Romanzo della guerra di Panzini.

Nel frattempo nell’autunno del 1914 fu convocato a Roma per il servizio di leva come allievo ufficiale di fanteria. Contemporaneamente De Robertis lo invita a iniziare una collaborazione con la “Voce” letteraria, invito accolto pienamente anche se a causa degli impegni militari non potrà inviare nessuno scritto per tutto il 1915. La corrispondenza tra Pancrazi e De Robertis costituisce in ogni caso una testimonianza interessante non solo riguardo alla crescita culturale di Pancrazi ma anche per la vita letteraria italiana nel periodo tra le due guerre.

Come critico si sentì più vicino a Serra e dissentì da Borgese. Si fece fautore di una critica antidogmatica, lontana da legami e schemi ideologici e teoretici. La morte di Serra nei primi mesi di guerra seguì di soli cinque giorni quella del fratello Filippo, soldato del genio, ucciso nei pressi di Asiago il 15 luglio 1915. Per motivi diversi entrambe le morti lo scossero molto. Scrisse a De Robertis:

«Le avrei scritto subito per dire a lei il mio dolore per la fine di Serra. Se un grave lutto familiare – la morte di mio fratello Filippo […] – non mi avesse colpito così da togliermi la volontà di comunicare e di scrivere. Ma ho pensato a Serra con un rincrescimento e con un rimpianto vivissimi. E mi sembra adesso di doverlo dire a lei che di Serra fu più che amico: è una grande speranza che cade giù. Mi sembra adesso che quello che abbiamo d lui – e più quello ch’è più perfetto – ci serva solo per il rimpianto. Chi saprà rileggere certi versi del Pascoli? L’ultima volta che mi scrisse, avanti di partire mi chiamava in su, mi diceva di essere contento che ci fossi anch’io».

Anche Gramsci commentò la morte di Serra come «la luce che si è spenta». Il suo primo articolo per la “Voce” fu su Gozzano e venne pubblicato nel gennaio 1916, e sul numero successivo comparve il suo articolo D’Annunzio senza coraggio.

Nei primi mesi del 1916 partì per la guerra sperimentando la “noia della trincea”, ma il 28 giugno rimase ferito sul monte Zingarella per un colpo di mitraglia che gli fratturò l’avambraccio. Fu ricoverato inizialmente all’ospedale da campo di Enego e successivamente trasferito a luglio all’ospedale di Bologna dove trascorse parte della convalescenza. Certamente l’esperienza bellica fu importante per consolidare la sua personalità incline alla meditazione e al rinchiudersi in un mondo interiore non esente però da irrequietezza.

All’inizio del 1916, presso la redazione della “Voce” aveva conosciuto Papini e si erano poste le basi per un fruttuoso sodalizio. Alla fine del 1917 il fratello Giuseppe fu internato a Mauthausen. Intanto Pancrazi era rientrato a Firenze, dove rimase fino al 1918, quando si stabilì a Fontocchio nella casa paterna di Camucia, nei pressi di Cortona. Dalle lettere a De Robertis e a Papini si evince una sua crisi per la quale «stenta a riprendere il ritmo con la vita e il lavoro». Con Papini lavorò all’antologia Poeti d’oggi che Vallecchi pubblicherà solo dopo la fine della guerra nel 1920. Il lavoro a questa antologia affinò il suo spirito critico e le sue capacità filologiche, nonché il suo stile ironico. Potè anche andar oltre a quell’“educazione letteraria da seminarista” – secondo la definizione scherzosa di Papini – e pur non cambiando la propria inclinazione per i classici, vedere con occhio diverso i contemporanei ed elaborare un proprio stile metodologico.

Tra il 1915 e il 1917 iniziò la collaborazione con diverse testate, occupandosi di critica letteraria: “La Nazione” (1915-17, saltuariamente fino al 1922); “Il Resto del Carlino” (dal 1917 e poi dal 1919 al ’26 come redattore); “Il Nuovo Giornale” (1917-19). Nel 1918, su pressioni di Papini che era direttore della pagina letteraria, inizia una collaborazione con “Il Tempo”. Alla fine della guerra, pur se travagliato da una certa inquietudine persino sul futuro del proprio mestiere, conobbe, presso Vallecchi, Soffici e Cicognani. Nel 1920 si dedicò alla preparazione di un nuovo libro per Vallecchi, raccogliendo una serie di articoli monografici su scrittori contemporanei. Dalle colonne dei giornali con i quali collaborava iniziò, assieme a Papini e De Robertis, una dura polemica con la rivista romana “La Ronda”. Nel frattempo Papini si era avvicinato alla religione e aveva scritto Storia di Cristo, per il quale la recensione di Pancrazi su “Il resto del Carlino” avanzava riserve e perplessità.

Nel 1921 Ojetti lo chiamò come redattore della collana “Le più belle pagine degli scrittori italiani” e Pancrazi scelse per inaugurare la collana il volume di Papini sul Manzoni. Nel 1923 uscì una seconda raccolta di scritti: Venti uomini, un satiro e un burattino. Nello stesso 1923 fu pubblicata l’antologia I toscani dell’Ottocento nella quale già si rispecchia il sentire dell’autore per il periodo storico che si stava attraversando con l’imminente perdita delle libertà democratiche; si avverte la nostalgia di tempi più sereni e di maggiore solidità e sicurezza. Ojetti contestò il criterio di selezione che stava dietro a questo libro e che, a suo dire, concedeva troppo spazio a minori toscani quasi sconosciuti.

Nel 1924, interpellato nuovamente da Papini per assumere eventualmente la direzione di una nuova rivista letteraria che il Papini stesso andava progettando, proseguì nello sviluppo del suo personale metodo critico, rivolgendosi anche alla scapigliatura lombarda come ultima propaggine del romanticismo ottocentesco. In Spassetto Veneziano, pubblicato prima su “Il Resto del Carlino” e compreso successivamente in Donne e buoi dei paesi tuoi, cercò di rintracciare i legami tra questo secondo romanticismo lombardo e la scuola letteraria toscana di fine Ottocento. In questo quadro va anche vista la recensione a Scapigliatura : da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi di Piero Nardi e a Le più belle pagine di Praga, di Tarchetti, di Boito scelte da Marino Moretti per la collana di Ojetti. L’Ottocento risulta quindi per Pancrazi la garanzia del perdurare della tradizione classica; cerca di ricondurre (ma sembra un po’ il metodo del “calzascarpe”) Gozzano nell’alveo della «finitezza realistica» sottraendolo a una collocazione critica tra i crepuscolari.

Nel momento che Gentile diventa ufficialmente il filosofo del regime, si propone di citare Croce più spesso che sia possibile:

«Di Croce c’è più bisogno oggi che vent’anni fa quando occorreva reagire alla retorica delle parole e al D’Annunzio; oggi invece si è aggiunta la retorica delle idee e Gentile. Per questa ragione polemica mi sono proposto di nominare e ricordare Croce più spesso che posso».

La scrittura diventa un’ancora di salvezza, un porto sicuro per provare a salvare un’isola di libertà nel mare delle condizioni politiche che si andavano consolidando. Forse in questo stesso quadro rientra anche l’interesse per la fiaba e si avvicinò ad Esopo, che già era presente nelle Traduzioni e riduzioni di Pascoli. Lo studio di Esopo procede senza dimenticare però di tenere a battesimo scrittori nuovi: nel 1928 è per esempio la volta di Comisso con un articolo del 12 luglio sul “Corriere della Sera” con il quale collaborava dal 1926, poi ripreso nei volumi Scrittori italiani del Novecento e Scrittori d’oggi.

Insieme a Ojetti, Papini e Valgimigli si impegna per dar vita alla rivista “Pegaso” della quale Pancrazi fu segretario di redazione fino alla chiusura, nel 1933. Nel 1929 proprio dalle colonne di “Pegaso” iniziò a preparare la strada per il suo nuovo lavoro su Esopo: dapprima con un articolo su Colette «fiabesca e animalista» e subito dopo con l’articolo L’Esopo volgato si pose l’obiettivo di annunciare la prossima pubblicazione di l’Esopo Moderno. Nello stesso 1928 iniziò la cura di un’edizione dei Ricordi di Guicciardini che andrà alle stampe nel marzo del 1929. Nell’introduzione a questa edizione emerge come per Pancrazi lo studio di Esopo e quello di Guicciardini non fossero affatto senza un loro collegamento e una coerenza interna.

Quando esce Gli indifferenti di Moravia lo inquadrò nel nuovo orientamento europeo del romanzo che ha come faro da un lato l’opera di Joyce e dall’altro le teorie di Freud. Cerca però di sottrarre il nuovo romanziere all’uso delle tecniche psicanalitiche, viste da Pancrazi come controindicate per lo sviluppo di una prosa davvero efficace, e vorrebbe ricondurle sotto l’ala protettrice del realismo. Scrive infatti:

«[…] non sconfina mai nella zona morta della psicanalisi, i suoi personaggi non fanno né abuso, né uso di sogni, in lui nessuna illazione arbitraria dagli istinti alla volontà, dal corpo all’anima».

Alla fine del 1929 compì un viaggio in Sardegna e questo ispirò certamente il suo accostarsi al poeta sardo Satta, all’arte di Grazia Deledda e persino «al più colorito dei sardisti, il padre Bresciani».

L’Esopo Moderno venne stampato da Le Monnier nel 1930; traspare anche l’interesse dantesco da alcuni titoli ripresi da versi del Purgatorio e dell’Inferno. Altri titoli sembrano ispirati da versi di Pascoli o da titoli goldoniani, oltre che da proverbi o locuzioni di carattere dialettale. Per Pancrazi la buona prosa è sempre quella garantita dalla tradizione classica e infatti non collaborò mai con le riviste delle avanguardie letterarie fiorentine, “Solaria”, “Frontespizio” e “Circoli”. Non mancò però di attenzione per i nuovi scrittori, come ad esempio Renzo Martinelli, Piero Gadda, Filippo Sacchi, Giulio Caprin oltre a manifestare interesse per i memorialisti come Francesco Chiesa. Con garbata ironia presenta il primo libro di Alessandro Bonsanti per il quale parla di una nozione poetica del tempo di derivazione proustiana. Ma non esitò a considerarlo più persuasivo nel momento che accantona Proust avvicinandosi se mai a Nievo e Manzoni. Tornò poi nuovamente sul tema dei rapporti tra letteratura e tecniche analitiche parlando di Adamo di Eurialo De Michelis. Il compendio di queste sue riflessioni lo abbiamo quindi nei due testi pubblicati nel 1934: Scrittori italiani del Novecento e Donne e buoi dei paesi tuoi.

Con De Robertis pubblicò antologie letterarie per le scuole: I moderni poeti prosatori italiani e stranieri e Antologia italiana di prose e poesie (entrambe nel 1926) e Italia nuova e antica (nel 1936).

Nel 1927 morì il padre Vittorio. Nella seconda metà degli anni Venti conobbe Emilio Cecchi, Antonio Baldini, Pietro Paolo Trompeo; con Manara Valgimigli entrò in amicizia e l’epistolario che hanno lasciato ne è importante testimonianza.

Nel 1931 morì la madre e l’anno successivo si trasferì nuovamente a Camucia, nella villa di famiglia, dove stabilì sede di incontri letterari con personalità come Giacomo Noventa, Piero Calamandrei, Marino Moretti, Aldo Palazzeschi. Dal 1943 consolidò il rapporto con la casa editrice fiorentina Le Monnier, per la quale diresse le collane “Biblioteca nazionale” e la “Collezione in ventiquattresimo”. Curò testi della letteratura italiana antica e moderna poco conosciuti, mettendo così a frutto la sua capillare conoscenza della tradizione letteraria italiana in ogni suo recesso meno noto. Per l’editore Ricciardi programmò le pubblicazioni della raccolta “La letteratura italiana. Storia e testi” in collaborazione con Raffaele Mattioli e Alfredo Schiaffini.

Dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938, Pancrazi, estremamente ostile a questa ulteriore piega odiosa del regime, offrì ospitalità alla famiglia dello storico Nino Valeri e a Giacomo Debenedetti con la moglie Renata Orengo. Dopo l’8 settembre 1943 aderì al Comitato di liberazione nazionale (CLN) di Cortona in rappresentanza del Partito liberale italiano (PLI).

Raccolse poi nel volume Piccola Patria racconti e cronache «della tragica esperienza bellica». Dopo la Liberazione Pancrazi si dedicò a nuove esperienze giornalistiche divenendo redattore di “La Nuova Europa”, insieme a Guido De Ruggero e Umberto Morra, e collaborando a “l’Opinione pubblica” e “Il Ponte”.

Nel 1946 fu eletto, insieme a Morra, consigliere comunale a Cortona come indipendente nelle liste del Partito socialista italiano. Nello stesso anno divenne socio dell’Accademia nazionale dei Lincei e nel 1952 dell’Accademia della Crusca. L’Assemblea costituente lo incaricò di curare tra il 1946 e il 1947 la revisione linguistica della Costituzione italiana.

Nel 1951 si ammalò e il 26 dicembre 1952 morì a Firenze.

La sua biblioteca personale di oltre dodicimila volumi fu trasferita all’Accademia della Crusca che conserva il fondo a suo nome

Fonti:

  • C. Galimberti, Gli anni veneziani di Pietro Pancrazi in “Lettere italiane”, ottobre-dicembre 1954.
  • E. Massa, Frammenti d’un diario di Pietro Pancrazi in “L’osservatore politico letterario”, marzo 1969.
  • V. Guarna, voce Pancrazi, Pietro in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 80 (2014).
    https://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-pancrazi_%28Dizionario-Biografico%29/
  • F. Mattesini, Pietro Pancrazi tra la “Voce” e la “Ronda”, in “Aevum” n. 3-4 maggio-agosto 1970.
  • F. Mattesini, Pietro Pancrazi tra la “Rondae “Solaria”, in “Aevum” n. 5-6 settembre-dicembre 1970.

Note biografiche a cura di Paolo Alberti

Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)

  • Venti uomini, un satiro e un burattino
    Il testo raccoglie articoli e saggi di critica letteraria apparsi su quotidiani e riviste, nei quali Pancrazi prende in esame «venti uomini» e donne e non ‘scrittori’: il critico andrà oltre ad una fredda esegesi letteraria per individuare invece le caratteristiche umane, attraverso gli scritti, degli autori che prende in considerazione.
 
autore:
Pietro Pancrazi
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Pancrazi, Pietro
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