Paolo SchicchiPaolo Schicchi nacque a Collesano (Palermo) da genitori benestanti il 31 agosto 1865.
Sin da studente venne colpito dalle idee dell’Internazionale che allora era ispirata soprattutto dal Bakunin e nella quale confluivano le diverse scuole del socialismo che poi, grosso modo, si scinderà al famoso Congresso di Genova del 1892 in due correnti: l’ala libertaria e l’ala autoritaria.

Già nell’ambiente familiare il nostro aveva trovato i segni della rivolta contro le forze borboniche e reazionarie: suo padre, l’avvocato Simone, era stato presidente del Comitato rivoluzionario antiborbonico a Collesano durante il periodo delle lotte del Risorgimento.

Una maggiore influenza egli subì a contatto del professore Eliodoro Lombardi a Cefalù, ove il ragazzo Paolo frequentava il ginnasio. Poi, durante gli studi liceali a Palermo, ebbe contatti con il vecchio e noto internazionalista Saverio Friscia di Sciacca. Attraverso altri contatti si rafforzeranno nel giovane ribelle le tendenze rivoluzionarie di una personalità tanto energica quanto leale.

Completati gli studi ginnasiali a Cefalù, Paolo Schicchi passò a studiare al liceo Vittorio Emanuele II, ove conseguì la maturità classica.

Nel 1885 si iscrisse all’Università e studiò giurisprudenza negli anni accademici 1885-86 e 1886-87. Durante questo periodo, per aiutare bisognosi e sofferenti, si privò dei mezzi di sussistenza che gli venivano forniti dai suoi genitori. L’irrequieto giovane lasciò l’Università di Palermo per quella di Bologna – forse attratto dalla fama di questo ateneo e anche dalla fama di maestri come Quirico Filopanti e Giosuè Carducci – per continuare gli studi di legge.

Qui, oltre ai corsi della sua facoltà, frequentò più assiduamente anche quelli tenuti dal Carducci, e quelli di storia del professore Francesco Bertolini. Questi lo chiamava “futuro topo di biblioteca”. Infatti, egli avrà una predilezione per la letteratura e la storia.

Nella nuova residenza, oltre ai suoi studi particolari, si interessò di propaganda generica come socialista autoritario, distinguendosi dai suoi colleghi universitari (per i quali aveva “inventato” un cappello che poi sarà denominato “berretto goliardico”) e collaborò ai giornali locali tra i quali il “Resto del Carlino”. Del soggiorno bolognese va ricordato un episodio tipicamente schicchiano.

Cadeva in quell’anno 1889 l’ottavo centenario dell’Università di Bologna che il corpo accademico si apprestava a festeggiare con l’intervento di grandi adunanze ufficiali e con la partecipazione del re e della regina. Il gruppo monarchico e studentesco, che era uscito per andare alla stazione per accogliere la coppia reale, veniva affrontato da un altro gruppo composto di elementi sovversivi capeggiato da Paolo Schicchi. Ne seguì un parapiglia tale che gli studenti monarchici fuggirono scoraggiati lasciando perfino il loro stendardo in mano degli assalitori.

Paolo Schicchi non riuscì a completare gli studi né a laurearsi presso l’ateneo bolognese: né forse ci teneva a prendere la laurea, come non la conseguì mai, preso com’era dai suoi ideali sociali. Ma aveva dei conti da regolare con l’esercito e gli obblighi di leva mal si conciliavano con la sua indole. Al processo di Viterbo così Paolo Schicchi spiegherà le ragioni della sua diserzione:

Io ero a Palermo allievo ufficiale nell’11 Fanteria ed in seguito a mia domanda passai nell’Artiglieria di montagna dove la disciplina si insegna a calci e a pugni. Ed io ne ebbi molti, oh… se ne ebbi. Una volta, per esempio, mi fu rotto un bastone alpino sulle spalle, e ciò non succedeva a me soltanto ma anche ai miei commilitoni: un giorno alcuni soldati furono persino legati alla coda di un mulo. A me accadde presso a poco la stessa cosa. Eravamo in marcia ed avendomi le ampie scarpe lacerato i piedi ero rimasto alquanto indietro alla colonna; quand’ecco il tenente Lessona, per sollecitarmi, mi venne dietro col cavallo la cui testa mi battè nelle spalle. Poscia il caporale Salvini in seguito ad ordine avuto fece per attaccarmi alla coda del suo cavallo.
Io protestai energicamente e per evitare il suicidio o la fucilazione, disertai”.

A Torino, Paolo varcò la frontiera e filò diritto a Parigi. Siamo nel 1889, cioè nel primo centenario della rivoluzione. A Parigi conobbe Amilcare Cipriani, Galleani, Merlino, Faure, la Michel, Grave ed i fratelli Reclus. A contatto di questi uomini, che saranno poi gli esponenti maggiori del movimento anarchico internazionale, il nostro affinerà le sue idee e sarà l’apologista degli atti individuali di rivolta.

Lo Schicchi senza saperlo era un anarchico in potenza.

Allora – continuerà nell’autodifesa – ero socialista legalitario, e pensavo che coi mezzi legalitari avrei potuto accelerare il giorno delle rivendicazioni sociali. Ma dovetti ben presto convincermi che il solo rimedio ai mali profondi che ci affliggono è la rivoluzione. Divenni perciò anarchico. E tutto contribuiva a rafforzarmi in siffatta convinzione, giacché in Francia, più che altrove, ad onta delle tanto decantate istituzioni repubblicane, si crepa di fame mentre altri gavazza nell’orgia, ed è lecito ad una signora della buona società spendere in una pelliccia settantacinquemila lire”.

Paolo Schicchi, pur non volendo scrivere le sue memorie, ci ha lasciato qualche ricordo del suo primo esilio parigino. Codesti cenni li troviamo nelle ultime due serie delle Conversazioni sociali.
L’irrequieto neofita venne segnalato subito alla polizia francese per la sua attività, e, prima che venisse fatto segno ad una eventuale espulsione, fuggì a Malta con Saverio Merlino.

Ma anche qui il suo soggiorno fu breve, avendo alle calcagna la polizia inglese su segnalazione di quella francese. Allora, travestito da prete, andò in Sicilia, ove riuscì a stampare a Catania un giornale dal titolo “Il picconiere” e un altro a Marsala, questa volta un numero unico di cui non conosciamo il titolo. Il suo girovagare lo portò a Palermo nel 1891.

S’avvicinava in quell’anno la gran data del 1° maggio, quando un gruppo di lavoratori per mezzo di una commissione s’era recato dall’ex compagno di Pisacane, Giovanni Nicotera, ministro dell’interno, perché venisse incontro alle condizioni difficili di quei poveri bisognosi.

Ma il Nicotera rispose che, se nella ricorrenza di quella data essi avessero fatto dimostrazioni egli li avrebbe fatti schiacciare senza pietà con le loro donne e i loro bambini, dalla cavalleria. A tale minaccia lo Schicchi fremette di sdegno e concepì un piano per un attentato alla caserma di cavalleria a Palermo.

Dall’autodifesa davanti alla Corte d’Assise di Viterbo, stralcio ancora i seguenti passi in cui lo Schicchi assunse con coraggio e franchezza la responsabilità dei suoi atti di rivolta individuale.

Il farlo – disse – non era forse mio diritto? Come, il nostro popolo chiede pane e gli si risponde col piombo e colla cavalleria? Ogni uomo che abbia un cuore dovrebbe ora esultare, se non imitare, il mio proponimento. Io agivo sotto l’impulso dell’amore profondo che sento per quanti soffrono, per la causa dei diseredati a cui ho dedicato tutta la mia esistenza. Avevo meco ventisei cartucce di dinamite e due di gelatina esplosiva. Avrei potuto con tali mezzi eseguire l’intento, ma pensando alle tante vittime che erano forse l’unico sostegno dei vecchi genitori, di sorelle e di giovani spose tolsi dal barilotto tutte le cartucce di dinamite che avevo preparato lasciandovi la sola polvere pirica, che feci esplodere nell’intento unico di richiamare l’attenzione della borghesia sulla gran data del 1° maggio, giorno universale di rivendicazione e di lotte”.

Ormai Paolo Schicchi, dovunque si trovasse, trovava una vita difficile. Eccolo in Svizzera, a Ginevra. Ma il suo “Pensiero e dinamite” allarmava la polizia elvetica e quella italiana. Infatti, il governo italiano fece delle pressioni presso il governo svizzero, tramite l’Ambasciata a Ginevra, per sopprimere il giornale. Schicchi cambia il titolo in quello di “Croce di Savoia”, e riesce a fare uscire qualche numero con articoli molto violenti contro Casa Savoia. Anche “Croce di Savoia”, naturalmente, viene soppresso, per evitare una rottura diplomatica tra i due paesi.

Un commissario di Ginevra aveva perciò stabilito un appuntamento con lo Schicchi alla stazione, perché un mattino presto lo avesse accompagnato alla frontiera francese; e temendo di essere consegnato alla polizia, attraversò a piedi, la sera precedente, la frontiera ed era già all’indomani in territorio francese.

Accadde che quel mattino il commissario subisse un attentato (andato a vuoto) da parte di un esule russo che voleva vendicare i suoi compagni fucilati, i quali erano stati consegnati dal governo svizzero allo Zar. Naturalmente quel gesto fu addebitato allo Schicchi, anche dalla polizia italiana.

Il nostro ancora una volta sarà costretto a passare da un paese all’altro. Si reca in Spagna, a Barcellona, per fondarvi “El porvenir anarquista”, giornale trilingue: italiano, francese e spagnolo.

Nella regione andalusa, l’atmosfera era gravida di conati rivoluzionari e i contadini di Xeres erano in piena rivolta per la conquista della terra. I governanti spagnoli, per sedare quella rivolta, ricorsero ad un triste stratagemma: vennero impartiti ordini alla polizia, la quale fece esplodere una bomba durante una processione religiosa barcellonese. Vi furono molte vittime e di ciò vennero accusati gli anarchici anche perché erano gli elementi più in vista nella sollevazione dei contadini. La polizia procedette ad arresti in massa e nella retata cadde pure lo Schicchi.

Tutti gli arrestati vennero sottoposti ad ogni specie di torture e pure il nostro – che era stato messo nella Cappella dei condannati a morte – subì quell’atroce sorte e assistette all’episodio vergognoso in cui la moglie incinta dell’anarchico Bernard venne violentata e bastonata a tal punto che abortì e ne morì. Tuttavia, quando fu fatto capire dagli stessi carcerieri che poteva liberarsi dal carcere dietro versamento di una certa somma, lo Schicchi ne uscì con un solo pensiero in testa, cioè vendicare se stesso e quella povera donna.

Infatti, non volle agire a Barcellona per non compromettere i compagni che rimanevano in carcere, e pensava di far saltare qualche consolato spagnolo in Italia. Con questo deliberato proposito lasciò la Spagna e andò a Marsiglia e da lì a Genova. Ma si limitò ad uno spregio del consolato spagnolo, non volendo coinvolgere famiglie innocenti che abitavano nelle adiacenze dell’edificio. “Paolo Schicchi – dirà il suo difensore Gori – è sempre l’uomo d’azione. Ha il coraggio del sacrificio, non il coraggio della ferocia”.

Dopo l’attentato di Genova, recatosi a Pisa, venne fermato e portato in questura, ove esibì il suo passaporto intestato a Giuseppe Di Ciolo. Costui era conosciuto in quella città dalla polizia, come pisano. E, perciò, il delegato Tarantelli non si convinse e chiese altri documenti sotto pena dell’arresto; e lo Schicchi esibì un altro documento molto più eloquente del precedente: tirò fuori la pistola sparando per intimorire (e non per uccidere) il delegato.

Poi prese subito la fuga con la pistola in pugno e nel piazzale della stazione, che in quel momento era pieno di viaggiatori, urtò contro uno di essi e cadde a terra. Fu facile così catturarlo. Mentre, ammanettato, veniva condotto dalle guardie in questura, Paolo gridava a quella folla indifferente: “Popolo, popolo, viva l’Anarchia”.

Il processo a carico di Paolo Schicchi si celebrò alla Corte d’Assise di Viterbo il 16, 17, 18, 19, e 20 maggio 1893, cioè, fuori dalla sua naturale giurisdizione che avrebbe dovuto essere una delle Assise di Palermo, Pisa o Genova, ove avvennero i fatti addebitatigli e di cui egli assunse piena responsabilità nella sua autodifesa. Il collegio della difesa era composto di sette avvocati: Pietro Gori, Giuseppe Galli, Ranieri Castelli, Luigi Molinari, Alfredo Podreider, Giulio Maria Cavalletti e Vito Grignani, che, dalla lontana Marsala, era andato a difendere il suo conterraneo e vecchio amico.

Schicchi, perciò, doveva rispondere degli attentati di Palermo e di Genova e di mancato omicidio nella persona del Tarantelli. Il pubblico ministero, Pio Cavalli, e i giurati non vollero riconoscere i moventi politici delle azioni di Paolo Schicchi. Nonostante il serrato dibattimento che ne seguì e le arringhe degli avvocati, il nostro veniva condannato dalla Corte a 11 anni, 3 mesi e 15 giorni di reclusione più 700 lire di multa e 3 anni di sorveglianza speciale. Nell’udire la grave condanna lo Schicchi dalla gabbia gridava: “Giurati siete pecorai! Viva l’Anarchia”.

A quel grido successe un putiferio nella Corte; e in seguito all’ordine del Presidente di fare sgomberare l’aula, le guardie si mostrarono arroganti con l’avvocato Molinari (che stava discorrendo con lo Schicchi) il quale indignato disse: “Questa è una prepotenza” che venne falsamente interpretata “Lei è un prepotente”. E così il povero avvocato venne immediatamente arrestato e subì nel pomeriggio del giorno seguente un processo con una condanna a 3 giorni di reclusione. Lo Schicchi, invece, per la sua invettiva, veniva condannato all’indomani mattina con la sua voluta assenza al massimo della pena, cioè a 12 mesi di reclusione.

Scontò dunque l’enorme pena senza mai vacillare, e non beneficiò né di indulti né di amnistie per il veto di Casa Savoia. Rifiutò, nel 1897, la candidatura al parlamento per la liberazione dal carcere (allora la chiamavano candidatura protesta per i reclusi politici), patrocinata dai familiari e da qualche esponente socialista, e anche la grazia. I due tentativi di agitazione promossi da Pietro Gori per la sua liberazione, nel 1893, fallirono perché i cosiddetti partiti popolari erano allora in tutt’altre cose affaccendati.

Pietro Gori, nella prefazione al Resoconto del processo di Viterbo, sintetizzò la drammatica situazione dello Schicchi.

Dodici anni!… – scrisse tra l’altro –. E passarono inesorabilmente lenti sulla sua testa sculta di fierezza e di bontà. Passarono sulle segrete cupe, dove la sua fronte s’insolcava di rughe; mentre fuori tumultuavano nuove folle e nuove audacie…”.

Paolo Schicchi scontò la dura pena nelle carceri di Oneglia, Alessandria, Pallanza, Orbetello. E durante il periodo del carcere venne assistito con grande affetto dai suoi familiari che gli inviavano mezzi finanziari, libri e vestiario. Solo così, e grazie alla sua fibra robusta, Paolo nel 1904 riacquistò la libertà e potè ritornare a Collesano; ma ancora non era libero, c’erano i tre anni della sorveglianza speciale. Nei vari reclusori, egli ebbe il permesso di consultare libri, giornali e riviste e scrisse molti saggi, che però furono sequestrati e distrutti dalla polizia, la quale cercò quasi sempre di rendergli la vita impossibile.

Nel 1906 un gruppo anarchico milanese, composto di militanti tra i quali Nella Giacomelli, e il professore Ettore Molinari, diede vita al giornale “La protesta umana” e, nel 1908, invitò lo Schicchi a Milano per dirigere quel periodico.

Ma il gruppo della “Protesta” e Paolo Schicchi rivelarono subito una tale incompatibilità di carattere e una diversità di metodi e di impostazione ideologica che furono costretti a distaccarsi dopo aspre polemiche.

Da Milano, il nostro passò in Toscana, e, dopo un giro di conferenze in varie località, si stabilì a Pisa, dove fondò nel 1909 “L’avvenire anarchico”, la libreria “Editrice sociale” e la cooperativa tipografica “Germinal”, con Virgilio Mazzoni e Gino del Guasta. A Pisa, il movimento anarchico fu molto rigoglioso, e “L’avvenire” continuò le sue pubblicazioni anche durante la guerra, fino al 1923.

Dopo circa due anni alla direzione del giornale pisano, Schicchi sarà costretto a lasciare a malincuore quel centro per ritornare a Collesano invitato dai suoi genitori, i quali volevano che ripigliasse gli studi e si laureasse una buona volta. Paolo ritornò a Collesano più che altro per accontentare i suoi genitori, e non per laurearsi, perché nutriva un grande amore per essi, le sorelle e i fratelli che lo ricambiarono e lo assistettero per tutta la sua vita errabonda.

Che cosa Paolo Schicchi fece in Sicilia? Non si dedicò certo ad una attività professionale per trarne lucro e vantaggi. Né ci furono ostacoli che potessero fermarlo o fiaccarlo. Perciò si trovò ad affrontare, nel pieno delle sue forze, un avvenimento molto importante e di natura internazionale: la guerra mondiale. Disgraziatamente ad essa avevano aderito alcuni anarchici sinceri e altri uomini di correnti politiche molto avanzate, perché ritenevano doveroso abbattere il militarismo tedesco per salvare l’indipendenza dei popoli. Egli tenne conferenze e comizi un po’ dovunque in Sicilia contro il militarismo e contro la guerra, e collaborò ai giornali anarchici del Nord America tra i quali “Il martello” e “Cronaca sovversiva”.

Durante quel periodo pubblicò due drammi: La morte dell’Aquila e Tutto per l’amore. Entrambi avevano ricevuto un premio letterario a Palermo prima di vedere la luce a Milano. Seguirono poi due studi: Il contadino e la questione sociale e Fra la putredine borghese, pubblicati dalla Trimarchi di Palermo. Del primo si occupò favorevolmente Napoleone Colajanni sul “Giornale di Sicilia”.
Quindici numeri unici uscirono a Palermo, redatti da Schicchi con la collaborazione di Nino Napolitano, dal 1919 al 1921; quando in aprile dava l’avvio al quindicinale “Vespro anarchico”.

Questo periodico sarà fino al 1923 il giornale più avanzato dell’isola e uno dei migliori del movimento anarchico; e in cui intensificava la battaglia contro il fascismo e la monarchia. Immaginarsi se le autorità potevano tollerare un uomo che metteva alla gogna il fascismo, la chiesa e la Casa Savoia.

Sicché Paolo Schicchi per la sua travolgente attività subì due processi: uno alla Corte d’Assise di Termini Imerese nel 1923 per vilipendio contro la religione e il papa; un altro si celebrò alla Corte d’Assise di Palermo per offese al governo fascista e al re nel 1924: assolto in entrambi. Si aggiunga che lo Schicchi subì il carcere preventivo prima che si celebrassero i due processi; anche per quegli articoli apparsi sul “Martello” e “L’adunata dei refrattari” di New York, nel 1923-24.

Ormai la vita si faceva sempre più difficile per gli antifascisti con l’avanzare e l’affermarsi del fascismo al potere. Senonché, non restava ai più ardimentosi e ai più colpiti dalle leggi e dalle persecuzioni dei fascisti che rifugiarsi all’estero. Allora, un giorno del 1924, fingendo di andare in campagna a cavallo di un asino ed eludendo la sorveglianza dei carabinieri, lo Schicchi, da Collesano andò a Palermo, ove clandestinamente s’imbarcò e finì il suo viaggio nella vicina Tunisi.

Qui ripigliò subito la sua battagliera attività con implacabile veemenza contro il fascismo e la Casa Savoia, che furono i suoi preferiti bersagli. Pubblicò così il numero unico “Il vespro sociale”. Subito dopo apparve “Il vespro anarchico” come continuazione di quello di Palermo: non più quindicinale ma settimanale. Riuscì a stampare un solo numero. Fu soppresso dalle autorità tunisine.

La sua permanenza nel territorio tunisino non durò a lungo: venne espulso dalle autorità locali in combutta con la polizia fascista. Se ne andò a Marsiglia, dove fondò “Il picconiere” nel Maggio 1925, in cui continuò la polemica (già iniziata sull’“Adunata dei refrattari” alla fine del 1924) contro antifascisti e compagni anarchici che avevano aderito ad un’organizzazione di tipo militare capeggiata da Ricciotti Garibaldi. Quest’ultimo, agente di Mussolini, aveva adescato gli antifascisti a tornare in Italia per abbattere il fascismo.

Paolo Schicchi fu uno dei primi a denunziare l’intrigo e l’imboscata tesa agli antifascisti, anche nei numeri unici “Il pozzo dei traditori” e “L’unione dei padellai”, in risposta al numero unico “Polemiche nostre”, redatto da un gruppo di anarchici che voleva giustificare la propria adesione alle “Legioni garibaldine”. Si accesero tali polemiche, che addolorarono tutti coloro che erano in buona fede.

Il soggiorno a Marsiglia fu breve ed agitato, e, per ordine di quel Prefetto, “Il picconiere” venne soppresso. Ancora una volta, il nostro fu costretto a cambiare residenza e si stabilì a Parigi. Anche qui lo Schicchi iniziò la “Diana”, che durò dal 1926 al 1929; ed ebbe come condirettore Renato Souvarine. Nel frattempo riusciva a pubblicare in due volumi Casa Savoia e il volumetto Storie di Francia.

Il periodo dal 1926 al 1929 fu intenso per la lotta accanita contro il regime mussoliniano e contro le autorità francesi che gli rendevano la vita impossibile (anche dietro pressione delle autorità consolari italiane e di quelle diplomatiche); sballottandolo da una città all’altra sotto severa sorveglianza poliziesca in primo tempo e poi alla clandestinità essendogli interdetto il diritto di asilo. Nello stesso tempo il ministero dell’interno fascista e il ministero degli affari esteri controllavano la sua attività, servendosi di spie e di agenti provocatori.

Paolo Schicchi, dunque, condusse una battaglia su due fronti: all’interno contro gli anarchici garibaldini e all’esterno contro il fascismo e la reazione francese che lo fiancheggiava contro i combattenti antifascisti. Tuttavia, i suoi attacchi non venivano risparmiati nemmeno ai tiepidi antifascisti, sia pure anarchici; i quali se ne stavano lontano dalla lotta o acquattati in luoghi sicuri.

La reazione, per chi ha scelto la lotta in campo aperto, sarà il banco di prova del combattente che non ha timore della galera o della morte. Evidentemente non tutti hanno lo stesso ardore di buttarsi nella mischia a corpo morto. Egli ha ormai al suo attivo tante generose battaglie sin dalla prima giovinezza: e, ora, da vecchio, non conosce riposo, non sta fermo; continua imperterrito con il suo innato spirito giovanile a dare l’esempio ai timidi e ai paurosi di come battersi. Leggiamo ciò che a questo proposito scriveva in una nota di piccola posta sulla “Diana” del 30 dicembre 1927, al suo amico e compagno Serni:

Lo conosco purtroppo (per sentito dire) il reverendo di Lione. Egli appartiene a quei canonici basilicali (all’uso romanesco specialmente), i quali escono fuori in pompa magna a celebrare la messa cantata quando il tempo è bello. Oh! allora dopo la messa cantata sono anche capacissimi di recitare a perdifiato novelle e stornelli su per le piazze e i mercati. Ma se per caso il cielo si rabbuia e minaccia tempesta, tu lo vedi subito correre e tapparsi in casa senza mettere fuori il naso per anni e anni; neppure se passa il generale Padella o il vescovo di Roma. Eh, caro Egisto! Tutti son buoni a cantare Chanson de gestes, a ballare la danza pirrica, ad annunziare il sol dell’avvenire, a sfilare in parata, a battagliare con i mulini al vento in mezzo ai fiori ed ai tepori d’aprile e di maggio. Il difficile è far lo stesso mentre il turbine t’investe d’ogni parte, sotto la grandine che ti sferza la faccia e tra la ridda delle folgori minacciose. Il difficile è affrontare la tempesta e resistere per mezzo secolo, se occorre; anche quando la miseria, la fame e il freddo battono alla tua porta; anche quando un bel mattino ti svegli in galera per uscirne fuori morto o moribondo. Le reazioni hanno solo questo di buono: ritemprano i cuori d’acciaio, rinsaldano i cervelli di bronzo, sgonfiano i palloni, scoprono i letamai e mettono a nudo le piaghe e le carogne”.

Dopo la soppressione della “Diana” da parte del ministro francese Tardieu, Paolo si ridusse di nuovo a Marsiglia dove – come abbiamo visto – gli era interdetta l’attività di pubblicista, e incominciava a meditare il progetto per l’insurrezione in Sicilia. A questo proposito, lanciava alla macchia un numero unico intitolato “La guerra civile” in cui incoraggiava gli anarchici e gli esuli antifascisti a fare dei fatti e non più delle parole. Il suo disegno era forse di dare all’Italia un grande esempio come quello pisacaniano.

Il gruppo che poi si imbarcò nell’estate 1930 da Tunisi era troppo piccolo: Schicchi, Renda e Gramignano (1). Si nascosero nella stiva di un vapore e al momento dello sbarco a Palermo, traditi dallo stesso capitano, vennero arrestati e condotti al carcere dell’Ucciardone. I tre congiurati vennero poi trasferiti da Palermo alle carceri giudiziarie di Roma.

Essi dovevano essere processati dal Tribunale Speciale. Schicchi prevedeva la condanna: era perciò preparato ad accettarla e nello stesso tempo ad affrontarla con estremo coraggio nel dibattito giudiziario, in cui da accusato si trasformò in accusatore. Della sua sorte incoraggiava il fratello Nicolò alla fermezza e non voleva che gli stessi familiari ne soffrissero.

Si veda con quanto contegno egli scrive, con parole semplici sull’eventuale sentenza in una lettera al medesimo fratello:

Roma, 14 aprile 1931 (…). Domenica scorsa, 12 corrente, ricevetti insieme l’atto d’accusa e la citazione per comparire dopodomani 16 al Tribunale Speciale. Io sarò condannato con tutta certezza e dopo non molto inviato alla casa di pena. Checché avvenga, pretendo da tutti la massima pazienza e la tranquillità assoluta come se nulla fosse accaduto. Anzi desidero che se sarò condannato, tu cerchi di tener al buio d’ogni cosa le nostre povere sorelle che potrebbero risentirne grave danno alla salute così ammalate come sono. Tu poi devi chiuderti la bocca e fingere che sei muto. (…) Non ti rivolgere a chicchessia per chiedere favori, non ti umiliare con nessuno, ché tutto sarebbe inutile”.

In un’altra lettera informa il fratello della condanna:

“Roma, 16 aprile 1931 (…) Oggi si è discusso il mio processo, che è finito come prevedevo: con una condanna a dieci anni. Torno a raccomandarti vivamente la tranquillità assoluta, il silenzio, e il segreto per le nostre sorelle. Io sono assistito da un po’ di salute e spero vincere anche questa prova. (…) E poi niente sollecitazioni, niente piagnistei, niente umiliazioni. Ti impongo, in nome dell’amore fraterno, la tranquillità e il silenzio…”.

Anche Renda e Gramignano comparirono, con lo Schicchi, davanti al Tribunale squadrista per lo stesso processo. I capi d’accusa erano di propaganda sovversiva, di cospirazione contro i poteri dello Stato e di avere menomato il prestigio del governo italiano all’estero per mezzo della stampa. Allora Paolo Schicchi contava 66 anni ed era il maggiore d’età degli altri due coimputati. Sicché, oltre allo Schicchi, il Tribunale condannò anche Renda a 8 e Gramignano a 6 anni di reclusione.

Paolo passò 7 anni nel reclusorio per ammalati politici a Turi di Bari, ove tra gli altri reclusi c’erano Antonio Gramsci e Sandro Pertini. Anche questa volta, come nel passato, rifiutò la grazia, richiesta dal fratello e dalle sorelle nel 1933.

Il rifiuto della grazia viene confermato con molta fierezza nella seguente lettera al fratello:

Turi, 18 luglio 1933 (…) Giorni or sono il Direttore mi comunicò una lettera del Tribunale Speciale, il quale chiedeva se io davo il consenso ad una domanda di grazia dei miei parenti. Naturalmente in tal caso il consenso implica anche un atto di sottomissione. Io risposi puramente e semplicemente che no. Io infatti, fratello e sorelle miei carissimi, vi avevo pregato di chiedere il mio trasferimento nell’infermeria del carcere di Palermo, conformemente all’art. 107 del Regolamento carcerario, e non mai di chiedere grazia per me. Che cosa vuoi chieder grazia a settant’anni d’età e con tanti malanni addosso? (…) Ti prego dunque di non darti troppo pensiero della mia liberazione, altrimenti sarò costretto a troncare ogni corrispondenza con voi tutti…

Nella lunga vita di questo anarchico siciliano, notiamo che la religiosità della coerenza e le generose ribellioni s’intrecciano in momenti di eroismo; tanto da formare un carattere granitico.
Un’amnistia schiude allo Schicchi le porte del carcere nel 1937. Allora viene mandato al confino politico prima a Ponza, poi a Ventotene. In entrambe le colonie confinarie, incontrò numerosi compagni delle passate lotte e militanti di altre formazioni politiche. Era il più vecchio di tutti e con un passato di lotte non comuni.

Di alcune testimonianze di prestigiosi uomini dell’antifascismo, in mio possesso, il giudizio più centrato mi sembra quello di un comunista, che fu con lui per alcuni anni a Ventotene. Bastano le poche parole di Umberto Terracini, per delinearne la figura:

Egli era il patriarca della colonia confinaria, e ciò sarebbe di per sé bastato per assicurargli la simpatia ed il rispetto di tutti i confinati, che comunque non gli sarebbero mancate per la intensa suggestione morale ed intellettuale che da lui si proiettava attorno”.

Amici, avversari, e i compagni vollero rendere omaggio al vecchio combattente libertario con poesie di Dino Roberto di “Giustizia e Libertà” e del socialista Sandro Pertini in un simposio del Capo d’Anno 1938. Senonché, durante la vita di confino s’era ammalato d’ernia inguinale, e da Ventotene veniva trasferito nel 1941 alla clinica Noto di Palermo per subirvi l’operazione. Il professore Pasqualino, direttore della clinica, lo trattenne con sé fino alla liberazione della Sicilia da parte degli eserciti “Alleati” adducendo i motivi che lo Schicchi non era ancora guarito, nonostante le proteste dei fascisti che lo volevano mandare di nuovo al confino.

Lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia nel 1943 coincideva con la caduta del regime fascista. E così, lo Schicchi, nel settembre di quell’anno iniziava per primo la pubblicazione di una serie di numeri unici e manifesti (sette in tutto), con appelli di fronti unici per la riscossa del popolo siciliano contro i responsabili della catastrofe.

Egli godeva, a quell’epoca, una stima inalterata da parte dei comunisti, socialisti, repubblicani e azionisti; i quali ancora non dipendevano dai vertici dei loro partiti. Ricordiamo che in uno di questi numeri unici, pubblicava un acuto articolo sulla scuola e, tra le altre cose, commemorava i primi martiri dell’antifascismo: Matteotti, Amendola, Gobetti, Don Minzoni, ecc.

Quando nel settembre 1944 apparì la prima serie delle Conversazioni sociali, Lorenzo Marinese, sulle colonne del “Giornale di Sicilia”, si occupava dell’uomo e del libretto. Scriveva tra l’altro: “(…) Egli è un puro, e ha dato e sofferto tutto per la causa, mai piatendo agli altri, rimettendo del proprio denaro, fatica, esperienza”.

Seguirono la seconda, la terza e quarta serie delle Conversazioni sociali, le ultime due serie contengono molti capitoli riportati da Casa Savoia. Dopo la pubblicazione di quei volumetti, Paolo Schicchi pensò di dar vita ad un periodico che venne fuori nel marzo 1946 sotto il titolo “L’era nuova”, che usciva ogni mese e, qualche volta, ogni due mesi, a causa della vecchiaia e della malferma salute. E i suoi temi prediletti erano i soliti: la lotta contro il vecchio e nuovo fascismo e la monarchia, ma pubblicava pure scritti storici e areligiosi e un interessante studio, La leggenda di Gesù di Renato Souvarine.

Nel giugno 1948 dovette sostituire “L’era nuova” con numeri unici dello stesso formato della rivista, in seguito ad una legge sulla stampa, per cui i direttori di periodici e giornali dovevano regolare la loro posizione legale. Tuttavia, egli non potè ottemperare a quelle formalità per mancanza del certificato elettorale che non gli veniva rilasciato dal Comune di Collesano per le condanne riportate; e per le quali non gli erano riconosciuti i moventi politici.

Doveva perciò fare istanza per la riabilitazione per ottenere il certificato elettorale, cosa che un anarchico del suo stampo non avrebbe mai fatto. Sicché, dal 1948 al 1950, fu costretto ad editare soltanto numeri unici, cioè fino a quando la tarda età lo costrinse a letto. Nonostante la forte fibra, la morte lo colse il 12 dicembre 1950.

Si chiudeva così la drammatica esistenza di una delle figure più interessanti del movimento anarchico italiano. Egli, dunque, era rimasto fermo alle sue idee e a quella tendenza antiorganizzatrice dell’anarchismo romantico ottocentesco che, erroneamente o per comodità polemica, viene inclusa nelle correnti individualistiche. Lo Schicchi era bensì contrario all’organizzazione strutturale, ma favorevole alla formula comunista-anarchica per la gestione dei beni sociali.

Qualsiasi tendenza anarchica, del resto non vale tanto per l’orientamento comunista o individualista che sia, quanto per la buona fede, la tenacia e la coerenza di chi la sostiene, anche a prezzo di sacrifici e prigioni e occorrendo la morte. Questa la principale ragione per la quale ho sentito il dovere di tracciare a grandi linee la vita di Paolo Schicchi, una vita esemplare degna di essere ricostruita in un’ampia biografia.

Profilo di Paolo Schicchi tratto da:

  • Michele Corsentino, Il processo Paolo Schicchi davanti alla corte d’assise di Palermo nel 1824, Samizdat, Pescara, 1997.

(1) Salvatore Renda e Filippo Gramignano, anarchici rispettivamente di Trapani e Borgo Scita. Al progetto insurrezionale era legato anche un altro gruppo, che avrebbe dovuto imbarcarsi in un secondo momento, composto da Paolo Caponetto, di Francofonte, e Vincenzo Mazzone, di Messina. Contatti nell’isola erano stabiliti anche con Lucia Caponetto, sorella di Paolo e moglie del Renda, e con il socialista Ignazio Soresi. Lucia Caponetto venne poi arrestata a Genova e condannata a un anno. Mazzone e Paolo Caponetto rimasero all’estero e furono combattenti della resistenza Spagnola. Renda uscirà dal carcere in seguito a domanda al duce e finirà i suoi giorni come spia del regime. (N.d.E.).

Note biografiche a cura di Michele Corsentino

Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)

  • Il contadino e la questione sociale
    Schicchi, in questo scritto, pone in rilievo ogni elemento di contributo controrivoluzionario che la storia possa avere evidenziato riguardo alle posizioni della classe dei contadini durante le crisi rivoluzionarie e prerivoluzionarie.
  • La guerra e la civiltà
    Mondo arabo e aggressione occidentale
    Questo saggio fu anteposto dall’autore come introduzione alla pubblicazione di due suoi drammi, La morte dell’aquila e Tutto per l’amore (1917). Lo spunto veniva dalla guerra italo-turca che ebbe come conseguenza l’annessione all’Italia della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan.
  • Noi soli contro tutti!
    Antologia di scritti (1919-1921)
    Antologia di scritti dell’anarchico Schicchi, che mettono in luce il carattere indomito ed estremamente combattivo di questo infaticabile fondatore di giornali in mezza Europa, spesso sequestrati dopo il primo numero.
  • Storie di Francia
    In questa opera (1930) si scorge una determinazione incrollabile dell'autore nel condurre la propria lotta contro il sopruso e l’ingiustizia che in quegli anni si concretizzava anche nell’atteggiamento della Francia teso a demonizzare e criminalizzare gli immigrati, soprattutto italiani, allo scopo di avere il pretesto di espulsione delle voci critiche verso l’Italia fascista.
 
autore:
Paolo Schicchi
ordinamento:
Schicchi, Paolo
elenco:
S