Dall’incipit del libro:
Dalla remotissima delle letterature arriva fino a noi una certa forma di dramma, alla quale ci riesce difficile assegnare un posto che le dia nel nostro paese diritto di cittadinanza. L’India decrepita ci parla dal fondo dei suoi secoli con una voce fresca, ingenua, di una dolcezza infantile, che suona quasi nuova ai nostri orecchi.
Noi occidentali di oggi non sappiamo piú essere ingenui, o per meglio dire, non siamo. L’arte dell’ingenuità non s’impara. Si è ingenui o non si è. Ed è appunto questa ingenuità di sensazioni immediate, di pensiero spontaneo, di paurosa ammirazione, che produce i grandiosi poemi delle incolte società primitive: incolte, cioè non corrotte. Oggi, da noi, il poeta è troppo ragionatore. Vuole ad ogni costo esser vero, e sdrucciola nel reale, cioè nel falso, poiché non è dato a noi veder le cose come sono, e il vero è sempre fuori del reale.
Il Tagore, cosí nei suoi drammi e nelle sue liriche come fino ad un certo punto nella sua filosofia, vuole esser poeta, e tale è veramente nel piú squisito senso della parola. È antico ed è modernissimo. Vive col pensiero nel presente, in mezzo alla nostra società, e ci porta lontano fino al mondo fantastico di Valmichi, di Sudraka, di Bavabuti, di Calidasa.
Traduzione di Federigo Verdinois.




