Il romanzo giallo nasce in ultima analisi da una discriminazione cromatica infrangendo anche il proverbio inglese «non si può giudicare un libro dalla copertina». Il romanzo giallo è stato invece giudicato per decenni dal colore della copertina che ha assunto valore unificante per narrazioni tra loro diversissime. Contrassegnato appunto dal colore ha percorso tutti i gironi degli inferi sottoculturali per arrivare a bussare autorevolmente alla stanza chiusa della letteratura “alta” contribuendo spesso a contrastare tutti i suoi pizzi tarlati, fiori sfatti e cari estinti. In questo modo ha sfumato le sue connotazioni originarie ed è divenuto patrimonio comune. In questo percorso ha posto il suo contributo Alessandro Varaldo, qui al suo terzo giallo, dopo Il sette Bello e Le scarpette rosse già pubblicati in questa biblioteca Liber Liber.
La gatta persiana fu pubblicato nel 1933 nella collana I Libri Gialli di Mondadori, oggi ricordata dai cultori del genere come “Le Palmine” in omaggio allo stemma di una palma che appariva in copertina. Come è noto e come già spiegato in altre circostanze in questa stessa sede, il genere “giallo” non era particolarmente gradito al regime fascista che all’epoca irregimentava tutto quello che riusciva della cultura e della stampa italiana. Varaldo tuttavia, a differenza per esempio di De Angelis (vedi in questa biblioteca Liber Liber la serie completa dei romanzi del commissario De Vincenzi), fu più attento a tentare di conciliare l’impronta anglosassone, che in ogni caso si voleva intravedere nei romanzi del genere, con i valori dell’etica fascista. Ma solo fino a un certo punto. Il suo personaggio cardine, il commissario Ascanio Bonichi, che adesso è già giunto alle soglie di incarichi di maggior prestigio dopo essere stato trasferito a Milano con il grado di vice-questore, non manca di sfoggiare una certa sfiducia nelle istituzioni:
«Ah! se la Giustizia punisse i colpevoli soltanto! Purtroppo rovina spesso anche degli innocenti che per ragioni piú o meno vicine e plausibili hanno avuto a che fare sia con la vittima che con l’assassino. L’idea di giustizia assoluta, che passa attraverso cuori e coscienze ed esistenze, che fruga tutto e scaraventa ogni cosa alla luce del sole pur di riuscire, mi spaventa molto di piú della impunità del colpevole.»
Anche in questo caso quindi Varaldo non manca di scoccare il suo piccolo dardo al cuore del giustizialismo che, fin dai tempi del Digesto giustinianeo ha fatto da contraltare all’idea liberale e garantista. Altro aspetto caratteristico, certamente non gradito al regime, è l’uso frequente di termini e “parlate” dialettali. L’ambientazione romana, temporalmente collocata nei primi anni trenta del secolo scorso, soprattutto popolaresca, rende particolarmente efficace il ricorso a termini caratteristici della parlata romanesca. Insieme all’aspetto linguistico, il calarsi nella Roma dell’epoca è reso con descrizioni minuziose dei percorsi compiuti dai personaggi quasi a voler familiarizzare chi legge con una situazione topografica che non è poi troppo dissimile, mi pare, da quella attuale. I personaggi sono tantissimi e Varaldo li elenca e li presenta, suddivisi a gruppi secondo la loro collocazione, in anteprima all’inizio del romanzo, proprio perché chi legge possa destreggiarsi un poco nel dipanarsi di un labirinto inestricabile.
Non per Bonichi, che giunto a Roma da Milano su incarico del ministero che vuol far luce sul caso senza risvegliare possibili scandali, affianca subito il già conosciuto, dai due precedenti gialli, detective Arrighi, che nel frattempo troviamo sposato a Nora coronando quindi l’amore nato nel corso della vicenda di Le scarpette rosse. È proprio Arrighi che si imbatte casualmente nel primo omicidio del racconto – ne seguirà un secondo più avanti nella narrazione – che riguarda un bieco usuraio, Aronne Caprarola, che riesce a tenere in scacco una quantità di personaggi, da nobili rovinati, ad alti ma ambigui prelati, da militari ultradecorati a personaggi del popolo. Spietato e insaziabile con i suoi debitori il Caprarola è invece gentilissimo con la sua gatta persiana, avuta in dono da una nobildonna che tiene in casa la coppia dei genitori e regala volentieri i piccoli a chi è certa li tenga con cura. La gatta è l’unica che abbia visto certamente l’assassino e diventerà quindi strumento decisivo per Bonichi, con un abile artifizio, al momento di smascherare il colpevole. Il percorso investigativo è, ancora una volta, ispirato alle teorie del caso tanto care a questo detective, non certo cultore dell’eleganza e amante dei sigari toscani, che però va via via perfezionando:
«— Già… finché non intervenga il caso…
— Non mi burli… grande attore il caso, deus ex machina! Ma vado raffinando la mia teoria. E mi sono messo in testa che il caso viene in aiuto soltanto se ci si avvicina ai problemi, come quel bimbo che aprí il portone di casa con la chiavetta dell’orologio.»
Ha quindi forse ragione Vladimir Propp secondo il quale il giallo rappresenta l’equivalente delle favole:
«Che l’eroe sia il gangster, il poliziotto classico o il private eye rivelato da Dashiell Hammet, che lotti contro la legge o per la legge, egli ci farà immergere nel mondo maledetto dove si liberano i doppi. È la vita antropologica che conosce la libertà, non la libertà poetica, ma la libertà antropologica, in cui gli uomini non sono più agli ordini della norma sociale, delle leggi.» (V. Propp, Theory and History of Folklore. Translated by Ariadna Y. Martin [et al.]. Edited, with an Introduction and Notes, by Anatoly Liberman. Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997. 4th printing, Parte II cap. 6. Traduzione italiana di Paolo Alberti).
Certamente l’impianto narrativo dei gialli di Varaldo, abile costruttore di romanzi d’appendice, ha qualcosa in comune con la favola. Tanto più colpisce il rispetto umano che Bonichi ha per le persone sulle quali, per professione, è costretto a investigare. Segue il suo percorso ma percepisce le istanze del “colpevole”; più volte sottolinea, nel corso di questo romanzo, la differenza di ruolo, di metodi e di scopi, tra la sua azione investigativa e quella della magistratura. Viene a patti con questa quasi allo scopo di lasciare comunque aperta la strada della “scelta” anche drammatica, sia per i colpevoli che per i presunti tali.
Nonostante l’uso, coerente con i personaggi e la trama, della parlata dialettale, Varaldo indulge anche a grafie e termini “letterari” che già ai suoi tempi erano piuttosto desueti. Facciamo l’esempio di “capegli” al posto del più usato “capelli”. Abbiamo lasciato intatte queste peculiarità, compresa la doppia grafia del cognome “Sarrafini”-”Sarafini” che non ci siamo sentiti di trattare come un banale refuso, ma che sta, forse, proprio come un sottolineare una possibile differente pronuncia. Per il lettore “colto” può essere divertente individuare le numerose “citazioni letterarie” alle quali ricorre Varaldo, alcune evidenti («le braccia al sen conserte») altre, forse, meno («ritrarre in fotografia – come dice il poeta – » o l’omaggio finale al suo maestro Anton Giulio Barrili: «Tutto […] finisce con delle canzoni» «tout finit par des chansons»). Giallo quindi, certamente, ma ironico, mai truce, e raffinatamente gradevole.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
La cosa andò cosí. Gino Arrighi, detective privato, da qualche tempo in ozio per forza, una notte di novembre, piovigginosa ad onta dello scirocco, saliva per via Francesco Crispi, rapidamente, disceso appena da l’autobus notturno sull’incrocio di Capo le Case.
Un po’ prima di via Gregoriana, vide la guardia di notte ferma in ascolto dinanzi ad un portone. Per istinto si avvicinò anzi per un duplice istinto, ché la curiosità s’accordava con la necessità di attraversar la via, poiché aveva notato che lo scirocco lasciava quasi asciutta una stretta riga sotto le grondaie opposte. Non passava anima viva, sicché la guardia percepí l’incerto strepito del passante e si voltò. Gino Arrighi vide un volto ilare, rotondo, una pipa inclinata e due mani imbarazzate dalla lanterna e dal mazzo delle chiavi.
— Che ci avete un prospero?
Il detective privato cavò di tasca la macchinetta e s’alzò in punta di piedi mentre l’altro s’abbassava un pochino per mettere il fornello sotto la fiammella.
— C’è qualche cosa di strano? – chiese Gino, mentre eseguiva l’operazione, cennando col capo il portone.
— C’è una gatta in amore – gli rispose la guardia.
Infatti, attraverso il portone chiuso giungeva quel singolare miagolio in chiave di contralto, gutturale e piagnucoloso, prolungato lamento che a piú d’un poeta ha consigliato la similitudine del piacere che è doloroso e del dolore che è piacevole: come la vita, e come la giovinezza piú vicina alla morte della vecchiaia, perché lascia di piú dietro di sé. I desideri sono piú crudeli dei rimpianti.

