Dall’incipit del libro:
I giornali nostri, così prodighi e così poveri di aggettivi, sogliono far precedere il suo nome dall’illustre e non c’è caso che lo scordino nella penna. I suoi scolari di un tempo, che sempre ad un modo lo amano, gli danno sempre del professore e lo chiamano il professore come titolo che gli tocchi di diritto, ed ai giovani suol rispondere con un sorriso, con una stretta di mano, con un cenno amichevole del capo, con tutto l’affetto che può contenere il cuore di una fanciulla ingenua ed affettuosa: il suo cuore.
Eppure il vero è ch’egli non è professore e non è illustre: è un brav’uomo. Qui in Napoli lo si conosce troppo da vicino, e ci si fa vincere da quella curiosa legge di ottica morale, che avvicinando rimpicciolisce. Dunque è assai meno illustre di quanto dovrebbe essere, è meno illustre qui che fuori.
Lo sa, lo dice, non se ne duole. Sume superbiam quaesitam meritis. Ma la superbia sua non sarebbe mai tanto grande da potere aggiungere l’altezza dei meriti, e ad ogni modo non è veramente superbia, ma quasi compiacenza infantile, vanità muliebre tenera del solletico, desiderio innocente di ammirazione e di lode.

