Paul Valéry nacque a Cette, oggi Sète, il più importante porto francese del Mediterraneo dopo Marsiglia, il 30 ottobre 1871. Il padre Barthélemy era funzionario doganale ed era di origine corsa essendo nato a Bastia. La madre, Fanny Grassi, era genovese ed era a Cette in quanto figlia del console del Regno di Sardegna.
Nell’ottobre 1878, dopo aver frequentato altre scuole minori, entrò nel collegio cittadino, del quale conservò un ricordo molto bello. Dai cortili della scuola si potevano vedere il porto e le navi in partenza e in arrivo, poiché si trovava sulle pendici della “montagna” Saint-Clair (in realtà una collina di 180 m.) e sovrastava la città sottostante.
Nel 1884 la famiglia si trasferì a Montpellier e per il giovane Paul fu un momento triste, poiché a dodici anni, affascinato dalla vista delle navi militari, aveva sognato di diventare marinaio. Ma il padre non era favorevole e Paul ammette nella sua autobiografia che comunque “non capivo niente di matematica”. Mentre prima era sempre tra i primi della classe, al liceo di Montpellier diviene invece allievo mediocre. Dice Paul di questo periodo: “L’insegnamento mi appariva nel suo aspetto più piatto e ripugnante, insomma come costrizione, coercizione. L’idea semplice e sciocca degli esami dominava tutto.” Negli anni del liceo legge Hugo e Gautier e si appassiona all’architettura tanto da leggere Viollet-le-Duc.
L’infanzia finisce bruscamente. Lunedì 14 marzo 1887, Barthélemy Valéry muore improvvisamente, “a seguito, forse, di una complicazione renale”, ipotizza con cautela Michel Jarrety. Paul ha solo quindici anni e mezzo. Non appena le lacrime si saranno asciugate, non farà più menzione di Barthélemy Valéry, né nella corrispondenza né nelle migliaia di pagine dei Cahiers. E molto più tardi, i figli di Paul Valéry non ne sentiranno mai parlare. Questo padre resterà come un’assenza, un buco che solo l’incontro con Mallarmé verrà a colmare, quattro anni dopo. Il padre viene seppellito a Cette, nel cimitero che in seguito Paul chiamerà “Marin”.
Fu al momento della morte di suo padre che Paul iniziò a fare amicizia con Gustave Fourment. Quest’ultimo lo vide arrivare a scuola una mattina, «vestito di nero, gli occhi arrossati di lacrime, così angosciato, così abbattuto» che dovette mordersi le labbra per non imitarlo. A questo nuovo amico, di due anni più anziano di lui, Paul sottopone presto i suoi tentativi poetici. Per molti anni Gustave Fourment sarà il suo più stretto confidente e il suo corrispondente più fedele, prodigo di suggerimenti ma anche di critiche severe. Di questa amicizia rimane testimonianza un ricco epistolario che va dal 1887 al 1933.
Nonostante l’andamento scolastico non brillante si diploma e inizia, nel 1888, gli studi di giurisprudenza, senza molta convinzione e soprattutto per compiacere il fratello maggiore Jules, il quale, dalla morte del padre, esercita quasi il posto di tutore ed ha avviato uno studio legale di successo. Oltre a scrivere versi, si interessa degli argomenti più disparati, anche di antropologia: “Ho misurato dei crani vuoti…!” racconta lui stesso.
L’anno successivo inizia però a occuparsi più seriamente di letteratura. Nel settembre 1889 lesse À rebours di Huysmans, imbattendosi così nei nomi di Verlaine, Mallarmé, Villeirs e in citazioni delle loro opere. Disse di questa lettura, dalla quale fu grandemente influenzato: “Nulla è stato scritto di più forte negli ultimi vent’anni. È una delle rare opere che creano uno stile, un tipo, quasi un’arte nuova. Des Esseintes è sufficientemente depravato nei suoi sensi e sufficientemente mistico per sedurmi, e invidio il suo lungo riposo nelle raffinatezze solitarie e negli annebbiamenti della mente.”
Un giorno, sempre nel 1889, il fratello Jules scoprì una poesia intitolata Rêve sul tavolo di Paul. Senza preoccuparsi di consultare l’autore, inviò la poesia alla “Petite revue maritime de Marseille”, che la pubblicò pochi mesi dopo.
Nonostante l’accendersi di questo nuovo interesse, a novembre del 1889 chiese l’arruolamento volontario per un anno. Entrò nel 122° Battaglione assieme ad altri 68 volontari; esperienza che fu per lui piuttosto dura proprio sul piano fisico, poiché era di costituzione abbastanza gracile. Anche sul piano “spirituale” non era certo soddisfatto: durante le noiose ore di guardia o di addestramento vinceva la noia immaginando scene, paesaggi, situazioni del tutto diverse, cosa che gli permise di sfuggire alla noia di una realtà insopportabile.
Alla domenica a casa scriveva versi. Ottiene quattro giorni di permesso per le feste universitarie in occasione del VI centenario dell’università nel maggio 1890. Durante l’evento conosce P. Louӱs e l’incontro influisce moltissimo sul giovane Paul Valéry. Louӱs aveva fondato una rivista, “La Conque”, e qui viene pubblicato il primo lavoro del poeta: Narcisse parle. La critica, nella persona di Chantavoine, elogia questi versi dalle colonne del “Journal des débats”. Conosce quindi André Gide. Gli studi di giurisprudenza vanno a rilento. Tramite Gide legge i poemi di Mallarmé e legge anche Rimbaud. Legge anche Poe, nel quale «trovo un sentimento scientifico, un gusto per la precisione, per il rigore e il ragionamento che si ricollega in me alla vecchia passione per l’Architettura. Sento crescere non so quale volontà di un’arte intellettuale, di opere premeditate, che esigono la presenza di tutte le facoltà spirituali.» Valéry si sente abbastanza forte da inviare una poesia a Karl Boès, direttore della rivista “Le Courrier libre”.
Nello stesso periodo si interessa alla musica e rimane colpito dalla Sinfonia Pastorale di Beethoven e dal preludio di Lohengrin di Wagner.
Nel 1891, il 18 settembre, si reca a Parigi, accompagnato dalla madre, e con Louӱs si reca a conoscere Mallarmé. Resta cinque settimane a Parigi e torna a casa per il terzo anno di giurisprudenza.
Valéry e sua madre tornano a Montpellier il 24 ottobre 1891. La pubblicazione de “La Conque” cessò nella primavera del 1892. Paul Valéry era apparso in tutti i numeri, tranne il decimo, e aveva pubblicato tredici poesie. Una delle più belle, La Fileuse, è ripresa ne “La Wallonie”, con parole di elogio. E nella “Gazette de France” il giovane Charles Maurras, con cui Valéry si sarebbe incrociato più di una volta, elogia questo «discepolo intelligente di Mallarmé»: «Quello che ho visto di lui mostra che saprà usare la sua arte e verrà da questo puro virtuosismo in cui indugiano tutti i suoi amici.»
Nonostante il conseguimento della laurea, attraversa una crisi profonda, acuita da una storia sentimentale: una passione disperatamente casta per quella che avrebbe sempre chiamato Madame de R.: Sylvie de Rovira, una donna di quasi vent’anni più anziana di lui, vedova del barone Charles de Rovira. Questa figura di donna diviene una sorta di ossessione allucinatoria. Crede di vederla il giorno prima di partire per Genova: «Il giorno esatto prima della mia partenza mentre camminavo per una strada dove l’ho vista spesso, e pensando a lei per la prima volta da mesi […] mi ha lasciato stupido, cieco alla grazia, alla bellezza del fascino».
Trascorre un mese in Italia, ma si tratta di un periodo molto difficile, culminando nella famosa “Crisi di Genova” nella notte tra il 4 e 5 ottobre 1892. Durante un temporale di eccezionale violenza, in una stanza a volta in Salita di San Francesco, Valéry rimase tutta la notte seduto sul bordo del suo letto: «La mia stanza abbagliava ad ogni lampo. E tutto il mio destino si è giocato nella mia testa. Sono tra me e me.» La mattina dopo si sente completamente diverso e decide di «ripudiare gli idoli», di disprezzare tutto ciò che non riesce a controllare. Sembra quindi voler rinunciare del tutto alla poesia.
Il 27 novembre 1892, all’inizio del suo secondo soggiorno a Parigi, crede di incontrare di nuovo Sylvie de Rovira. Al Théâtre des Champs-Élysées, è convinto di vedere, il suo “demone degli ultimi mesi.” Spinge il delirio fino a cercare di scoprire, tramite un’amica della Sûreté générale, se Madame de Rovira ha lasciato Montpellier e se è plausibile che sia davvero a Parigi. “Comprendi il dilemma? Se ho visto male, sono un allucinato. Se ho visto correttamente, è molto difficile.»
La notte di Genova fu in ultima analisi una reazione difensiva contro “la forza dell’assurdo” rappresentata da Sylvie de Rovira: quasi un riflesso di sopravvivenza. Per «salvarsi dalla visione dell’assurdità», dalla «grande malattia mentale dell’amore» che lo ossessionò per quasi tre anni, Valéry si getta nel rigore dello studio.
Conosce Schwob e si dedica a studiare matematica. Nel 1893 scrive un articolo su Leonardo commissionatogli da Madame Adam su suggerimento di Léon Daudet. Nel 1894 si reca a Londra e conosce diversi scrittori inglesi tra cui Meredith. Proprio a Londra trova, due anni dopo, il suo primo impiego nell’ufficio stampa della Chartered tramite un certo Lionel Decle che Valery definisce “avventuriero, esploratore, giornalista”.
Nonostante la sua brevità, il soggiorno di Valery a Londra nell’aprile 1896 rappresenta una tappa importante che merita qualche parola in più. Valéry era ancora a letto domenica 29 marzo 1896, quando gli fu portata una lettera spedita il giorno prima da Londra da un certo Lionel Decle. Era stato Charles Whibley, corrispondente parigino per la “Pall Mall Gazette” e amico intimo di Marcel Schwob e Marguerite Moreno, a suggerire il suo nome per un lavoro urgentissimo: la traduzione “in un eccellente francese letterario” di una serie di articoli in inglese. Decle spiega precisamente le condizioni della trasferta a Londra: la partenza avverrà la sera successiva, il viaggio sarà effettuato in prima classe. Offriva uno stipendio di 125 franchi a settimana (cioè tre volte quello che Valéry avrebbe guadagnato l’anno successivo al Ministero della Guerra), garantiva un minimo di due settimane e offriva la speranza di un soggiorno più lungo. Sul contenuto stesso dell’opera, rimane piuttosto ellittico: “Gli articoli riguardano gli affari del Sud Africa.»
Rientra in Francia e nel 1897 partecipa al concorso per un posto da redattore al ministero della Guerra e lo vince. Lavora tre anni presso un deposito di materiale d’artiglieria.
Nel 1897, poco dopo l’inizio di questa sua nuova occupazione, Valéry apprese da Marcel Schwob che Mallarmé voleva farlo sposare «con una certa fanciulla, nipote di un pittore». Non sa ancora chi sia, ma ai suoi occhi il vero problema non c’è. Come ha spiegato in una lettera al fratello: «L’intera questione a priori è semplice come la luna nei miei occhi: si tratta di uscire di qui, per terra, per mare o semplicemente per matrimonio. E la cosa più semplice sarebbe seguire il consiglio dato da Vautrin a Rastignac: sposare un’ereditiera». Avrebbe conosciuto la futura moglie quando le fu presentata da Madame Mallarmé e da sua figlia. La ragazza a cui Mallarmé stava pensando si chiama Jeannie Gobillard. È cugina di Julie Manet, figlia della pittrice impressionista Berthe Morisot e di Eugène Manet, fratello di Édouard. Jeannie e sua sorella Paule erano molto giovani quando persero i genitori e Berthe Morisot si era presa cura di loro. Poco prima di morire, il 2 marzo 1895, la pittrice raccomandò alle tre ragazze di continuare a vivere insieme nell’edificio da lei costruito al 40, rue de Villejust. Da allora vissero lì, in modo molto indipendente, anche se Mallarmé, Renoir e Degas vegliavano con discrezione su di loro.
Il 31 maggio 1900 Paul Valery si sposa quindi con Jeannie Gobillard, nipote di Berthe Morisot. La madre Fanny ormai settantenne lo aveva raggiunto a Parigi la settimana prima per conoscere la fidanzata. Il matrimonio avviene in contemporanea a quello di Julie Manet con Ernest Rouart, nella chiesa di Saint-Honoré a Eylau. Valéry chiede al protestante André Gide di essere al suo fianco per il matrimonio civile, e a Pierre Louÿs per il matrimonio religioso. La giovane coppia andrà in luna di miele per tre settimane, in Belgio e in Olanda.
Il matrimonio con Jeannie determina un completo cambiamento di vita. Valéry abbandona il Quartiere Latino e la sua piccola stanza d’albergo per un appartamento borghese, e un programma disordinato per un programma “invariabile e preciso”. Fin dall’inizio sperimenta la vita familiare, anche se il primo figlio arriverà solo tre anni dopo. Paule Gobillard non si sposerà mai e rimarrà sempre con loro.
Il mese successivo il suo amico Lebey gli spiana la strada per diventare segretario di Édouard Lebey, direttore dell’Agenzia Havas e che dell’amico era lo zio. Valery mantenne questo incarico per 22 anni. Lebey, esperto uomo d’affari, era però malato, colpito da una paralisi progressiva che tuttavia gli lasciava la mente lucida. Valery da anni scriveva tutte le mattine, dalle quattro alle sette i suoi Cahiers che sono davvero un documento unico nella letteratura francese che solo nel 1988 ha conosciuto la stampa nella versione messa a punto da Judith Robinson-Valery. Sono un totale di 261 quaderni per circa 27.000 pagine. Dedicandosi a questa scrittura mattutina Valery si guadagnava il «diritto di essere stupido fino alla sera». L’edizione in facsimile in ventinove volumi fu pubblicata dal CNRS fra il 1957 e il 1961. Tutte queste annotazioni erano estranee a un progetto di pubblicazione, ma certamente Valery si spinse lontano su non poche questioni forse non sempre molto esplorate dalla ricerca del suo tempo. Mi piace ricordare, tra le tante questioni affrontate, quella del linguaggio (si può leggere nel secondo volume dei Quaderni edizione Adelphi) e una teoria del sogno del tutto diversa da quella elaborata da Freud che implica riflessioni audaci sugli stati di coscienza (volume quarto dei Quaderni edizione Adelphi).
Nel luglio del 1902, terminati i lavori di ristrutturazione, Paul e Jeannie Valéry si trasferiscono, sempre accompagnati da Paule Gobillard, al terzo piano di rue de Villejust 40, nell’appartamento che non avrebbero mai più lasciato. Fanny, la madre di Valéry, passava l’inverno con loro. La salute molto fragile di Jeannie non le impedisce di dare alla luce il suo primo figlio, Claude, il 14 agosto 1903. Il 7 marzo 1906 arriva la figlia, chiamata Agathe, in ricordo di un testo incompiuto di Paul.
Iniziata nel 1898 poco prima della morte di Mallarmé, Agathe – a volte indicata nella corrispondenza come il “Manoscritto trovato in un cervello” – rimase un vero e proprio progetto letterario. «Io chiamo ‘Agathe’ una di quelle donne che si addormentano improvvisamente per diversi anni. Durano così, indefinitamente chiusi, e dopo questa lunga calma, più apparente di quella della morte poiché nessuna dissoluzione la altera, si risvegliano […]»
Tra il 1909 e il 1914 è molto assorbito dalle condizioni di salute della moglie; dall’aprile del 1908 Jeannie Valéry soffre di forti attacchi di febbre accompagnati da tremori che solo la morfina riesce ad alleviare. Vengono consultati diversi medici, senza che il male venga diagnosticato con precisione. In realtà si trattava di pielonefrite, una grave infezione renale che, per mancanza di antibiotici, all’epoca non poteva essere curata. Nel 1909 viene tentata un’operazione chirurgica. Nel 1910 Paul contrae la pertosse e decide di passare la convalescenza a Genova, anche per non rischiare di contagiare la moglie. Dice del suo ritorno a Genova: «Ho tanti ricordi della mia infanzia, della mia adolescenza. Ho maturato lì molte ‘pieghe’ del mio cervello, queste pieghe che nessun ulteriore stiramento può reprimere, cancellare. […] Ci sono pezzi di giovinezza, episodi, atteggiamenti che, quando tornano alla memoria, sembrano cose dell’Opera, frammenti isolati dall’inquadratura di una scena, difesi contro l’oggi, da un fossato fatto di musica…»
Nel 1912 Gide e Gallimard insistono per pubblicare i suoi versi giovanili, fino a compilare un manoscritto ricavato dalle riviste sulle quali tali versi erano stati pubblicati. Ma l’autore oppone un netto rifiuto. Ciononostante l’episodio funge comunque da sprone e riprende a scrivere versi. Dopo quattro anni di esercizio quei versi vanno a comporre La Jeune Parque.
Ma dopo il primo slancio del 1913, il percorso di ripresa della scrittura conosce diversi rallentamenti; per diciotto mesi Valéry non riesce a collegare i pochi frammenti già scritti, e si rammarica: “Lo Stige si sta trasformando in una palude.” Lo stato di salute di Jeannie è nuovamente peggiorato e lo impegna spesso a tempo pieno. “Non ce la faccio più – sono esausto – Preoccupazioni, notti insonni da infermiere e giorni bui”, confida a Fontainas il 14 marzo 1914. A luglio accompagna la moglie nella piccola città termale di La Preste, nei Pirenei Orientali, molto vicino al confine spagnolo. Fin dai primi giorni, i bagni di acqua sulfurea sembrano funzionare a meraviglia e Jeannie intraprende finalmente la strada della guarigione.
Non viene richiamato per la guerra e La Jeune Parque viene stampato nel 1917 in un’edizione di 600 esemplari rapidamente esauriti. Lo stato d’animo con il quale il poeta si decide a riaffidare il suo lavoro alle stampe è bene espresso in una lettera del 1915 ad Albert Coste:
«La storia, o meglio la cronologia di un individuo delicato, si può così riassumere: più va avanti, più invidia o più rimpiange ciò che lo disgustava. In tenera età, le donne gli ispiravano una specie di disgusto. L’amore gli sembrava sporco. In un’altra epoca, denaro, persone e cose di denaro erano idee ripugnanti per lui. E, per un certo periodo, il successo – anche la gloria – gli parve ignominia, ecc. Ma ciò che resta – l’essenza liberata da tutti questi sottoprodotti – è così fine, così leggera, così piccola e troppo cara, che non ce n’è mai abbastanza per profumare tutta la vita. Dunque, questi sono ritorni, rimpianti, rigurgiti di tragica stupidità e vendetta impotente su se stessi, l’espressione ridicola dell’incompreso, dell’abbattimento e l’amarezza dell’essere amareggiati.»
Il poemetto La Jeune Parque è dedicato a Gide. Probabilmente la scelta è travagliata. Louÿs aveva dedicato a Valéry la sua prima collezione di poesie, Astarté. Valery scrive all’amico: “A Pierre Louÿs, amico, questa poesia che non è dedicata a lui, ma tutta l’opera di questa poesia… possibilità, esitazioni, occasioni: tutto ciò che è nascosto. In ricordo del nostro affetto, e nell’anniversario d’argento di tale amicizia…” Subito dopo scrive Aurore e Palme e Charmes. Le pressioni di Gallimard per accelerare le operazioni sono probabilmente determinanti.
Oltre alla guerra, la cui evoluzione segue con la massima attenzione, la vita di Valéry vive un nuovo fatto importante: Jeannie è incinta di un terzo figlio, che né lei né Paul si aspettavano e che, dopo qualche angoscia, appare loro come il segno tangibile della guarigione e del risveglio della vita. Se ne meraviglia Valéry nei suoi Cahiers: «Niente […] vale questo primo movimento, questi segni della vita, questo inizio nel grembo materno. L’ignoto a tutti e di per sé tuttavia lotta – Una volontà preesistente.» François nasce il 17 luglio 1916.
La fase finale della guerra lo vede preoccupato per i bombardamenti di Parigi. La moglie e i figli sono al sicuro a Rennes, ma lui è rimasto a Parigi per il lavoro e preso dalla scrittura poetica. Nel giugno 1918 Valéry si unì per un breve periodo alla sua famiglia, poi Édouard Lebey lo reclamò al castello dell’Isle-Manière, nel dipartimento della Manche. Vi trascorrerà due mesi di quasi reclusione, ed è lì che nasceranno o finiranno molte delle poesie che saranno raccolte in Charmes.
L’8 ottobre 1918 Valéry e la sua famiglia tornano a Parigi. Le insistenze di Gallimard hanno la meglio: «L’era della produzione frettolosa è alle porte», annuncia a Jeannie già nel luglio 1918. «Che editore!! Oh quanto velocemente questa vergine si trasforma in una puttana!» dichiara in modo più schietto a Louÿs. Ma con Louÿs c’era stato un allontanamento già nel 1917 in seguito a divergenze di opinioni in merito al “ritmo” che dovrebbe avere la prosa. Il dibattito è certo di grande interesse ma non possiamo riportarlo in questa sede. E fu solo il primo atto di un definitivo allontanamento tra i due, forse causato anche dal terrore che Valéry provò per un declino psicofisico che aveva già osservato con orrore in Verlaine e in Villiers de L’Isle-Adam. Probabilmente questo stato d’animo non è estraneo all’esplodere della bulimia produttiva che è seguita. Louÿs morì nel 1925 cieco e da anni infermo e in completa miseria, ma il vecchio amico non si era più interessato a lui, nonostante più volte e da più parti sollecitato, da diversi anni. Scriverà però la settimana successiva alla morte per “Les Nouvelles littéraires” un elogio del defunto in cui l’emozione è evidente: «Il mio cuore è stretto come nel ghiaccio. Un blocco enorme dei nostri anni, delle nostre vite, cade orribilmente in una volta sola. Ricordi precisi, molto lontani, appaiono come carne viva, mi è sembrato che un enorme frammento di esistenza fosse caduto da me, lasciandomi nuda non so quale ferita grande, viva e irritata.»
Valéry passava ormai parecchio tempo nei salotti mondani. Soprattutto da Jeanne Mühlfeld ma anche da Madame Aurel e da Misia Sert, da Marie Scheikevitch, Anna de Noailles, Marie-Louise Bousquet e Boni de Castellane, dalla baronessa di Brimont, dalla contessa di Béhague, dalle duchesse di Clermont-Tonnerre o La Rochefoucauld, principessa Edmond de Polignac… Tutto questo lo distrae e non gli dispiace affatto. Valéry, partendo da un rigore estremo e da una vita piuttosto solitaria, evolverà verso una forma di dispersione e di vita mondana e le sue opere ne risentiranno. Le pressioni per avere i suoi scritti si moltiplicano. Gli vengono richiesti articoli, recensioni, prefazioni. È quasi incapace di dire di no, anche alle proposte che meno lo tentano: questo è uno dei suoi tratti caratteriali più sconcertanti, perché è la prima vittima del proprio compiacimento.
Cominciano anche le critiche che lo feriscono, tra tutte quelle del giovane amico Breton. Ottiene però contemporaneamente l’entusiastico consenso di Aragon. L’amicizia con Breton e Aragon lo conduce a pubblicare Cantique des colonnes sul primo numero della nuova rivista dei giovani dadaisti. Ma, soprattutto, interviene quando il padre di Breton, furioso per l’abbandono da parte del figlio degli studi di medicina, lo lascia senza sostentamento. Valéry raccomanda allora il giovane Breton a Gallimard. Valéry fu quindi il testimone di nozze di Breton al suo matrimonio con Simone Kahn, ma la rottura definitiva tra i due è solo rimandata al 1923. Quando Breton inviò a Valery una copia con dedica del manifesto del surrealismo, la dedica recitava: “A Paul Valéry, 1871-1917”. Aragon sancisce poi la rottura dei surrealisti con Valéry quando lo attacca nel suo Traité du style, pubblicato nel 1928, dove afferma: «il vocabolario astratto di Valéry nasconde soprattutto una truffa premeditata e riuscita, una truffa che non è priva di un certo fascino». I cenni di Valéry su questa vicenda si trovano solo in laconici appunti sui Cahiers.
Molto poco Valéry parla di amore nei suoi Cahiers. Ma troviamo scritto: «Se mi guardo storicamente trovo due eventi formidabili nella mia vita segreta. Un colpo di stato nel 92 e qualcosa di immenso, illimitato, incommensurabile nel 1920. Ho lanciato un fulmine contro quello che ero nel 92. 28 anni dopo, mi è caduto addosso, – dalle tue labbra.» Gli accenni a questo “evento” vennero accuratamente censurati dall’edizione in facsimile dei Quaderni già citata, e ancor più dall’antologia successiva. Solo nel 1987 la pubblicazione del Journal di Catherine Pozzi ha fatto luce su questa vicenda. La donna, con un matrimonio disastroso alle spalle con Édouard Bourdet, colpisce Valery che non si aspettava di trovare un alter-ego simile in una donna. Catherine Pozzi è ai suoi occhi una irripetibile sintesi di intransigenza e mondanità, di misticismo e passione per la conoscenza. Trascorrerà tre settimane con Catherine e sua madre nella proprietà di famiglia di La Graulet, vicino a Bergerac. È scosso dalla passione e scrive: «Pensavo che il mio universo fosse l’universo. Ma ho visto qualcosa al di là. Ed è diventata una gabbia.» In un testo poco noto del 1925 scrive: «L’ingegno e il fuoco compaiono in un uomo sulla cinquantina. A questo punto della vita, non vale più la pena calcolare; la preveggenza diventa vana e il suo oggetto immaginario; sagacia, assurdo; prudenza, ridicolo; e uno può essere consumato senza rimpianti poiché è tempo di essere consumato senza indugio. Niente di più caldo o più ingenuo di questa età.» Ma la donna, stremata dalla tubercolosi e dal fatto che gli incontri con Paul debbono essere clandestini – il divorzio da Bourdet non era ancora avvenuto – decide di andare a Montpellier a proseguire gli studi. Ma non tarda a venir meno al suo proposito di allontanamento rispondendo con entusiasmo alle lettere di Paul. Torna da Montpellier e Valéry le affida il compito di leggere e classificare il contenuto dei Cahiers. È la prima persona che li legge. Ma contemporaneamente è gelosa sia della moglie che delle altre frequentazioni del poeta. Ma Valéry resiste, non intende mettere in discussione la sua vita e le sue abitudini e men che mai il suo matrimonio: «Liberando il mio Vero, pensavo di poter mantenere il mio Falso e di non doverlo cambiare per un altro.» Leggendo il Journal di Catherine e i Cahiers di Valéry si possono ricostruire gli alti e bassi di questa passione, le rotture e le riconciliazioni. Fino alla “scena” di rottura del 23 ottobre 1921 e le successive manifestazioni di sempre più viva gelosia, giustificata e non, da una parte e dall’altra.
Il 14 febbraio 1922 muore Édouard Lebey e Valéry è costretto a rimanere a Parigi, mentre avrebbe voluto seguire Catherine a Vence. Parte tuttavia poco dopo e raggiunge Nizza il 22 marzo, attendendo l’autorizzazione di recarsi a Vence. La sua confidente è Renée de Brimont, che aveva favorito il primo incontro tra i due. Non ha notizie e si reca a Vence pensando di sorprendere Catherine con un pittore con il quale flirtava. Invece la trova sola e la passione si riaccende.
La morte di Lebey fa precipitare anche la sua situazione economica. Non ottiene quasi nulla come “liquidazione” e si trova nella necessità di contrattare migliori condizioni con gli editori, per libri che, in ogni caso, sono troppo difficili per il grande pubblico. Nel 1922 si decide a rivolgersi a una sua ricca amica americana Natalie Clifford Barney che si fa promotrice di varie forme di mecenatismo per consentire a Valéry di non dover intraprendere, a oltre cinquant’anni, una nuova professione. Ricordiamo tra tutte la realizzazione della rivista “Commerce” della quale Valéry diviene direttore e azionista, della quale verranno pubblicati 29 numeri tra il 1924 e il 1932, e che ospiterà frammenti dell’Ulisse di Joyce, oltre a testi di Claudel, Saint-John Perse, Breton, Artaud, Ponge, Ungaretti, Hoffmanstahl, Pasternak e molti altri. Tutto questo comporta partecipazioni a pranzi, inviti; deve riordinare la biblioteca della contessa Martine de Béhague, che sottoscriveva 6.000 franchi l’anno per la rivista. I collezionisti e i librai pagano cifre notevoli per le sue lettere e i suoi manoscritti. Tra il 1919 e il 1945 scrive più di 120 prefazioni, sempre ben retribuite e spesso con alte percentuali sulle vendite del libro prefato. Quando nel 1927 Valéry entrò all’Académie tutto questo gli valse feroci attacchi da Léon Daudet, Gustave Téry, Fernand Vandérem.
Nel frattempo la freddezza nei rapporti coniugali si rafforza, non solo a causa della relazione con Catherine Pozzi e per le frequentazioni mondane di Paul, ma anche per il rafforzarsi della devozione religiosa cattolica di Jeannie che Paul Valéry percepisce come un vincolo all’esprimersi del suo libero pensiero. Nel 1924 le condizioni di salute di Catherine, con la quale la relazione procede sempre tumultuosa, si aggravano in seguito anche a un intervento chirurgico per un ascesso al braccio. Ricoverata in un ospedale di Parigi, spesso rifiuta le visite di Paul. Nel 1926 le condizioni di salute di Catherine migliorano e c’è un riavvicinamento tra i due ma il trasporto e le affinità della prima fase della loro relazione sembrano davvero ormai molto lontane. La rottura definitiva avviene, per iniziativa di Catherine Pozzi, il 24 gennaio 1928. Morrà il 3 dicembre 1934 nella solitudine e nella tristezza. Valéry fu sconvolto dalla notizia.
Nonostante in giovinezza non avesse mai avuto parole gentili per l’Académie, il 21 novembre 1924 Valéry fece domanda per succedere al posto di Paul Gabriel d’Haussonville, politico e storico della letteratura morto da poco. Gli fu però consigliato di chiedere di succedere ad Anatole France, il quale pur essendo morto un mese dopo doveva però essere rimpiazzato subito. Dovette preparare il discorso celebrativo sul predecessore. Il discorso fu pronunciato il 23 giugno 1927 ed è, nel suo genere, un pezzo da antologia. Valéry inizia ritardando il più possibile l’evocazione di quello di cui deve parlare. Rende omaggio a diversi amici, poi offre un quadro molto vivace della scena letteraria della sua giovinezza, prima di evocare finalmente il precedente occupante della cattedra e lo fa ponendo anche gli elogi in veste ironica al punto da poter essere interpretati in maniera opposta. Valéry non solo non conosceva quasi per nulla l’opera di Anatole France ma lo detestava per aver rifiutato a Mallarmé, cinquantatré anni prima, la pubblicazione di L’Après-midi d’un faune in “Le Parnasse contemporain”.
Nel 1929 l’Académie gli affida una missione pesante che lo occupa per più di un anno: ricevere il maresciallo Pétain, eletto alla successione di Foch. La posta in gioco questa volta è alta: accogliendo “il vincitore di Verdun”, è tutta la Grande Guerra che va rivisitata. Il discorso gli procura un dolore terribile e si infastidisce di dover «renderlo noioso per non renderlo scioccante», prima di «renderlo scioccante quando è stufo di essere noioso».
L’Académie française è solo uno degli innumerevoli onori che spettano a Paul Valéry. In pochi anni accumulerà un numero impressionante di posizioni e titoli. Salì rapidamente i ranghi della Legion d’Onore, dal 1923 al 1938 quando divenne Grande Ufficiale. Fu presidente del Pen Club dal 1924 al 1934, amministratore del Centre universitaire méditerranéen dal 1933 e fu eletto professore al Collège de France nel 1937. Per non parlare delle medaglie, dei premi, delle presidenze di commissioni, delle iscrizioni sui frontoni del Palais de Chaillot e lauree honoris causa. Solo il Premio Nobel gli sfuggirà nonostante più volte proposto e da lui inseguito con perseveranza.
Secondo Catherine Pozzi, la frequentazione assidua della duchessa Edmée de La Rochefoucauld, dopo quella di Jeanne Mühlfeld, è tutt’altro che estranea a questo ambito premio: «Una per l’Académia, l’altra per il Premio Nobel», annota con malignità nel suo diario. Ma l’opportunismo di Valéry è sottolineato anche da Gide.
Nel 1931 posa per un busto che deve essere scolpito dalla giovane artista Renée Vautier; da qui nasce una nuova vicenda sentimentale. Ma le speranze si infrangono quando Renée confessa allo scrittore di amare un altro uomo. Il busto è terminato e le visite a Renée si interrompono ma le scrive lunghe e appassionate lettere, forse tra le più belle tra le lettere di Valéry. Anche gli amori di Renée non evolvono positivamente. Valéry finisce finalmente L’Idée fixe; e Renée scoppia in lacrime il giorno in cui le legge il prologo, segretamente pieno del suo amore per lei. Queste poche pagine, di tono più cupo del dialogo stesso, sono tra le più belle della sua maturità. Adattato successivamente per il teatro, L’Idée fixe è oggi una delle opere più conosciute e accessibili di Valéry. Continua a inseguire l’amore per Renée, scrivendole durante i suoi innumerevoli viaggi e cercando di incontrarla. La passione si interrompe solo quando compare all’orizzonte un’altra donna, Émilie Noulet, di Bruxelles, professoressa e critica letteraria che ha dedicato a Valéry il suo primo libro e che non nasconde affatto il suo sentimento. Valéry è dapprima freddo ma a poco a poco si ammorbidisce e nel febbraio 1935 la va a trovare a Bruxelles e il reciproco sentimento si rafforza. Con Renée resterà l’amicizia e continuerà la corrispondenza. Quando apprende dall’esecutore testamentario di Catherine che la loro monumentale corrispondenza è andata distrutta in un incendio, riceve anche nelle stesse giornate una lettera da Renée e una da Émilie. Risponde a Renée dicendo: «E mi sono ritrovato in uno stato strano. Come a un bivio del tempo reale. Tre nomi della più segreta importanza, tre cammini, tre figure. Una morta. Una vivente… insensibile, inesorabile. Un’altra – abbastanza diversa. È come un sogno. Coesistenza di cose che si escludono a vicenda nel tempo ordinario.» Ma anche con Émilie non tardano a giungere le ombre. Lei soffre della clandestinità del loro amore e come sempre Valéry apprezza invece maggiormente il lato nascosto. I loro incontri sono rari e difficili. Lei lo accusa di impersonare l’egoismo del maschio. Si infervora per la parte repubblicana durante la guerra civile spagnola e lui è infastidito di questo interesse. Il rapporto si raffredda gradualmente. Nel giugno del 1937 Paul le scrive: «Sento e tu senti che io sono un ostacolo allo sviluppo della tua vita». Émilie Noulet aveva incontrato un poeta e diplomatico catalano, Josep Carner; lo sposa il 10 agosto, venendo a stabilirsi con lui a Parigi. Poco dopo, la vittoria del regime franchista costrinse la coppia all’esilio in Messico. La reazione di Valéry a un libro di lei su Mallarmé la ferisce profondamente. Però durante la seconda guerra mondiale riprendono una corrispondenza affettuosa. Dopo la morte di Valéry, Émilie Noulet gli dedicherà molti studi, senza mai menzionare l’intimità che esisteva tra loro.
Negli anni ’30 incrementa sempre più la mole di lavori commissionatigli che non gli interessano affatto e la qualità inevitabilmente ne soffre. Articoli, prefazioni, conferenze, brevi testi occasionali; la preoccupazione fondamentale di Valéry sembra sempre quella di rimanere senza risorse economiche.
Nei Cahiers in data 6 febbraio 1938 Valéry racconta il primo incontro con la donna che sarà protagonista della sua ultima relazione sentimentale, Jeanne Loviton (letterariamente conosciuta come Jean Voilier). Il poeta ha ormai 66 anni. La donna aveva già fama di grande seduttrice – era stata amante di Giraudaux, Curzio Malaparte e la sua relazione più chiacchierata era certamente quella con la femminista Yvonne Dornès – e Valéry la idealizza come mai aveva fatto con i suoi amori precedenti. Dopo aver sostenuto il suo libro Beauté con tutte le sue forze, l’incoraggia a scrivere il suo nuovo romanzo, Jour de lumière, cercando di convincerla che con il suo aiuto avrebbe potuto diventare una nuova Colette. Ma questo amore nasce sotto il segno della frustrazione: Jeanne è dispersiva, sempre occupata e spazia in tutte le direzioni. Paul passa il tempo a domandarsi dove sia e cosa stia facendo. Nel maggio 1939 questa frustrazione sfocia in una vera e propria depressione, acuita nel settembre dall’inizio della guerra mondiale con l’invasione della Polonia da parte della Germania. Valéry, che nella sua vita ha oscillato tra posizioni di destra e nazionaliste, pur avendo contatti con svariati socialisti, si schiera a difesa delle fragili democrazie. Il 12 settembre 1939, Valéry lesse un bel messaggio alla Radio Nazionale sulla vera natura del conflitto iniziato. I suoi due figli e suo genero sono nell’esercito, «il loro destino e il loro futuro sono entrati nella nebbia più fitta». Lui stesso si sente minacciato materialmente, in un momento in cui deve sostenere più che mai la sua famiglia. Il suo reddito principale verrà meno se Jean Médecin, sindaco di Nizza, confermerà la sua intenzione di sospendere le attività del Centre universitaire méditerranéen.
Nel marzo 1940 deve essere ricoverato in ospedale per i postumi di una brutta bronchite. L’amore per Jeanne lo rende tesissimo e nei Cahiers si moltiplicano le annotazioni autobiografiche. Il 23 maggio, in seguito all’avanzare delle truppe tedesche, i figli lo convincono a lasciare Parigi e a raggiungere la figlia Agathe a Dinard in Bretagna. Compie il viaggio, lungo e faticoso, su un taxi con Jeannie e Paule, ma anche Madeleine, la moglie di suo figlio Claude, oltre alle due cameriere. Jeanne si è rifugiata all’altro capo della Francia, a Beduer, nel Lot. I tedeschi raggiungono Parigi e il 17 giugno il maresciallo Petain pronuncia il discorso che sconvolse Valéry e buona parte dei francesi. La famiglia di Valéry si trasferisce dalla pensione Albion che aveva occupato all’arrivo in una bella villa con giardino. La lontananza di Jeanne sembra indurre Valéry a nuovi progetti di lavoro e di scrittura. Si mette freneticamente alla macchina da scrivere lavorando dalle otto alle dieci ore al giorno e in breve escono i primi due atti di Lust e il primo atto di Solitaire, ovvero il grosso di quello che sarebbe stato pubblicato con il titolo Mon Faust. Lo slancio della scrittura si interrompe al ritorno a Parigi il 21 settembre 1940 e alla ripresa delle lezioni di poesia al Collège de France. Una sola consolazione: anche Jeanne è tornata a Parigi. Ma la riunione è più fredda di quanto avesse sperato.
Il 24 ottobre 1940, l’incontro di Montoire tra Hitler e Pétain impegna esplicitamente la Francia alla politica della collaborazione. Se, come molte persone, Valéry non fu subito ostile al regime del maresciallo, ne scoprì presto la vera natura. Ad agosto, il suo amico Julien Cain non viene riconfermato amministratore della Bibliothèque nationale, semplicemente perché è ebreo; Valéry non nasconde quanto questo provvedimento lo abbia “soffocato”. D’ora in poi, i suoi sentimenti anti-vichyssois sono sempre più chiari. Secondo il matematico Émile Borel, è grazie al suo intervento coraggioso che l’Académie française rifiuta, nonostante l’insistenza dello stesso petainista Abel Bonnard che presiede la sessione, di inviare le congratulazioni al maresciallo per gli accordi di Montoire.
Molto più importante: il 9 gennaio 1941, Valéry pronunciò un superbo elogio per Bergson all’Académie. Saluta “l’orgoglio della nostra compagnia” e “il più grande filosofo del nostro tempo”, mentre la Francia di Pétain, è imbarazzata dall’ebraicità di Bergson. Il testo di questo discorso circola rapidamente in tutto il mondo e le sanzioni non tardano ad arrivare. Sotto la pressione di alcuni membri dell’Action Française, che misero in giro la voce che Valéry fosse un massone, Ripert, ministro della Pubblica Istruzione, decise nel marzo 1941 di non rinnovare il suo mandato di amministratore del Centre universitaire méditerranéen. Un mese prima, con il pretesto dei 70 anni che presto compirà, viene informato che dovrà mettere fine suo corso al College de France. Valéry cerca in vari modi di far rientrare i provvedimenti. Partecipa anche all’“omaggio collettivo della città di Parigi” al Maresciallo Pétain. Ma nonostante questo “scivolone” mantiene la sua fama di gaullista e filo-inglese. La censura gli rifiuta la carta per stampare Mauvaises Pensées. Nel 1942 partecipa alla fondazione del Comité national des écrivains e si adopera per escludere Drieu La Rochelle e altri scrittori filo-tedeschi dal comitato direttivo della “Nouvelle Revue française”.
Dal primo gennaio 1941 però la sua relazione con Jeanne Loviton sprofonda in una crisi ancora peggio delle precedenti. Jeanne lo avverte che non potrà più essere “l’unico”. Lui annota: «Impossibile immaginare una situazione così cupamente ambigua. Nessuna contabilità in partita doppia.» Ma nonostante affermi di dover rifiutare le mezze misure, la verità è che non può fare a meno di lei. La morte del padre di Jeanne la costringe ad occuparsi a tempo pieno delle attività paterne, le edizioni legali Domat-Montchrestien, che presto lei modernizza e amplia con una sezione letteraria accanto a quelle legali. E Valéry retrocede ulteriormente nella scaletta delle sue priorità.
Le condizioni materiali sono sempre più difficili, anche se ha ripreso le lezioni al College de France. In ogni caso procurarsi i generi di prima necessità diventa sempre più arduo e Valéry soffre soprattutto per mancanza di caffè e tabacco. Le sue condizioni di salute peggiorano; è sofferente per la continua tosse e per un’ulcera gastrica. Lui mette in relazione i due fenomeni ma i medici invece non sembrano vederli collegati. Molto interessante la sua annotazione, proprio sui medici, del 6 gennaio 1943: «I medici hanno la pessima abitudine di non pensare mai. C’è in loro la strana idea che tutto è classificato, che ciò a cui non han dato nome non esiste. Ogni nuovo nome inventato per loro, come metabolismo, riflessi condizionati, ecc., gli rende il servizio di poter diminuire l’attenzione diretta ai fatti e soprattutto la meditazione sui fatti. Non c’è medico che abbia un’idea dell’uomo, funzionante nel suo insieme.»
Si aggrappa sempre più alla sua relazione con Jeanne, gli altri suoi valori scompaiono come fossero state mere illusioni. Nel settembre 1943 trascorre dieci giorni con lei nella sua casa di Beduer. Ma questo acuisce ancor più la disomogeneità delle loro aspettative su questa relazione. Per lui ha assunto una dimensione prettamente mistica. Cerca sfogo nel completare il terzo atto di Lust per il Mon Faust, come estremo tentativo di definire ed esaurire il discorso sul fenomeno dell’Amore.
Nei suoi quaderni, in genere così indifferenti per l’attualità, annota ogni giorno l’andamento degli Alleati fino alla liberazione di Parigi. Il 26 agosto 1944 assiste dal balcone di “Le Figaro” alla sfilata delle truppe del generale De Gaulle. Il due settembre pubblica su “Le Figaro” l’articolo Respirer. «La libertà è una sensazione. Si respira. L’idea che siamo liberi espande il futuro del momento». Il giorno successivo De Gaulle lo invita a cena al ministero della guerra; Valéry ne risulta sorpreso e commosso. Descrive la serata nei Cahiers.
Il rapporto con De Gaulle si incrementa e il generale lo vorrebbe tra i suoi consiglieri. Ma le condizioni di salute non gli consentono di accettare. Nel frattempo, come si era opposto vigorosamente agli scrittori collaborazionisti, così rimane sconvolto dalla rapida e generalizzata epurazione susseguente. Il 10 dicembre 1944, alla Sorbona, legge un discorso su Voltaire che è in gran parte un appello e un’esortazione alla tolleranza. Con grande dispiacere del filosofo epurazionista Julien Benda interviene a favore di Charles Maurras, Robert Brasillach e, con successo, di Henri Béraud.
Domenica 1 aprile 1945, giorno di Pasqua, Jeanne Loviton annuncia a Valéry il suo imminente matrimonio con Robert Denoël. Nonostante la reazione sgomenta e incredula di Valéry è difficile immaginare che potesse ignorare che da oltre due anni i due vivono praticamente come coniugi. «Eri tra la morte e me – Ma ahimè! Sembra che io fossi tra la vita e te». Si sente schiacciato dal dolore, incapace di dormire vivendo a tentoni «tra le rovine dell’amore perduto». Il 13 aprile lei gli fa visita e Paul, che aveva temuto di non rivederla più, ne è come sollevato. Passa il tempo a scriverle lettere che spesso neppure spedisce. In una lettera alla giovane poetessa Pauline Mascagni, Valéry riconosce lucidamente la sua sconfitta: «Sto pagando l’esagerazione e l’esasperazione di una sensibilità che mi ha tormentato per tutta la vita, e dalla quale fino ad ora mi sono difeso alla meglio con coscienza e intelletto. Ma alla fine sono sconfitto. È resa incondizionata. La mente non ha più nessun altro uso o potere che quello di moltiplicare, variare e far rivivere il male brutale, i suoi effetti di ansia, le sue ossessioni e questo tipo di impazienza furiosa che mi uccide». Scrive l’ultima poesia per Jeanne, della quale accoglie ancora con gioia qualche visita. L’ultimo biglietto che scrive, sul suo tavolino da malato, essendo stato costretto a letto dai dottori, è per lei: «Queste righe sono le prime che scrivo da dieci giorni. Sono per te ovviamente. Ma ho molte altre cose da dirti. Non posso più. Tutto tuo».
André Gide, François Mauriac e Henri Mondor sono tra gli ultimi a fargli visita. Da quando non si alza più dal letto la moglie riprende a pieno il suo posto accanto a lui, autorizza o vieta le visite. Lui le chiede perdono. Nonostante le proteste dei figli fa entrare al capezzale del moribondo diversi sacerdoti sperando di permettergli di riscoprire la religione della sua infanzia. Ma le convinzioni di Valéry restano incrollabili. Tuttavia non è insensibile e accetta lunghe conversazioni con la suora-medico Lucienne Vannier che lo veglia per diverse notti.
Morì la mattina del 20 luglio 1945.
Lui conclude così la sua autobiografia:
«Ho una volontà piuttosto grande per le cose dello spirito. Nessuna per le cose della vita. Non amo la facilità, e temo molto la difficoltà. Devo tutto ai miei amici. Il mio esordio nella letteratura a Louÿs, l’Académie a Monsieur Hanotaux e a pochi altri. Le mie opere a delle circostanze, e a degli editori».
Fonti:
- Benoît Peeters; Paul Valéry. Une vie. (precedentemente con il titolo: Valéry, tenter de vivre.) Flammarion, Roubaix, 2016.
- P. Valéry; Autobiografia. Traduzione di A. Bresolin. Roma 2015.
- Régis Debray; Un été avec Paul Valéry. Équateurs-Humensis France Inter. 2019.
- P. Valéry. Quaderni, Cinque volumi. Milano, 2012-2013.
- C. Pozzi; Journal, 1913-1934; édition établie et annotée par Claire Paulhan; préface de Lawrence Joseph, Paris: Ramsay, 1987.
- C. Pozzi, P. Valéry; La flamme et la cendre: correspondance. Édition de Lawrence Joseph, Parigi: Gallimard, 2006.
- M.T. Giaveri; Introduzione in Paul Valéry, Opere poetiche. Parma 2012.
- M. Jarrety; Paul Valéry. Paris 2008.
- M. Jarrett; Paul Valéry. Oeuvres complètes (due volumi). Le Livre de Poche, 2016.
- E. Cioran; Valéry face à ses idoles. Éditions de L’Herne, Paris, 2010.
- P. Valéry; Lettres à Jean Voilier. Choix de lettres 1937-1945. Gallimard, Paris, 2014.
- P. Gifford e B. Stimpson [a cura di]; Reading Paul Valéry. Universe in Mind. Cambridge studies in French. Cambridge University Press, 1998.
- P. Valéry/G. Fourment; Correspondance 1887-1933. Gallimard, Paris, 1957.
Note biografiche a cura di Paolo Alberti
Elenco opere (click sul titolo per il download gratuito)
- L'anima e la danza
L'opera è costruita come un dialogo platonico e rappresenta tre personaggi: Socrate, Fedro e il dottor Eryximachus, che disquisiscono sul rapporto tra danza e bellezza, danza e poesia, danza e amore, giungendo alla conclusione che la danza conduce alla verità ed è custode della bellezza. - Eupalino o dell’architettura
Anche quest'opera, come L’anima e la danza, è costruita come un dialogo platonico tra Socrate e Fedro, ora nella condizione di defunti. Il tema è la possibilità di accedere, superata la soglia della vita mortale, a una conoscenza più vera, autentica. Se da una parte si constata l’impossibilità di provare emozioni, tuttavia certe manifestazioni architettoniche provocano ancora profonda ammirazione: quale sensibilità entra dunque in gioco nell’architetto?