Scritto tra il 1770 e il 1777, ma pubblicato postumo, è la ricostruzione, dai verbali originali, del processo a Giangiacomo Mora e altri, accusati di diffondere la peste. L’autore, illuminista settecentesco, amico e collaboratore di Cesare Beccaria, utilizza la vicenda come esempio per una forte polemica contro la tortura ed il suo uso giudiziario, all’epoca ancora in uso nello stato milanese. Questo testo ha ispirato il più noto “Storia della colonna infame” del Manzoni.
Dall’incipit del libro:
Fra i molti uomini d’ingegno e di cuore, i quali ha nno scritto contro la pratica criminale della tortura e contro l’insidioso raggiro de’ processi che secretamente si fanno nel carcere, non ve n’è alcuno il quale abbia fatto colpo sull’animo de i giudici; e quindi poco o nessuno effetto hanno essi prodotto. Partono essi per lo più da sublimi p rincipj di legislazione riserbati alla cognizione d i alcuni pochi pensatori profondi, e ragionando sorpassano la comune capacità; quindi le menti degli uomini altro non ne concepiscono se non un mormorìo confuso, e se ne sdegnano e rimproverano il genio di novità, la ignoranza della pratica, la van ità di voler fare il bello spirito, onde rifugiando si alla sempre venerata tradizione de’ secoli, anche più fortemente si attaccano ed affezionano alla pratica tramandataci dai maggiori. La verità s’insi nua più facilmente quando lo scrittore postosi del pari col suo lettore parte dalle idee comuni, e gra datamente e senza scossa lo fa camminare e innalzarsi a lei, anzi che dall’alto annunziandola con tuoni e lampi, i quali sbigottiscono per un momento, indi lasciano gli uomini perfettamente nel lo stato di prima.


