Dall’incipit del libro:
Gigi Cavalieri, detto Pivione, uscì da Porta Romana e sotto la pioggia dirotta, senza ombrello, con le scarpe scalcagnate, s’inoltrò nella campagna deserta. Egli sentiva i piedi guazzar nell’acqua e la pioggia grondargli per le tese del cappello scolorito fin dentro il collo; la giacca inzuppata esalava un odor d’umido; i calzoni erano inzaccherati di fango fin quasi al ginocchio.
Ma l’uomo non aveva pensiero per un inconveniente che gli era capitato spesso nella sua laboriosa esistenza; egli procedeva svelto e cauto a un tempo, guardandosi intorno, spingendo l’occhio sicuro di là dai filari di pioppi, che l’acqua e la nebbia velavano leggermente. A quell’ora, sulle tre del pomeriggio, e con quel diluvio, Gigi Cavalieri percorse dieci chilometri e non trovò sul suo cammino che un carro di letame e una mendicante.
Quando già le gambe cominciavano a diventargli pesanti per la stanchezza e per il terreno molliccio che faceva il cammino più faticoso, il Pivione si fermò innanzi a una casetta, la quale era poco più larga e più alta d’una capanna. Egli tolse dalla tasca una chiave ed aperse, guardandosi in giro; entrò, richiuse, s’arrampicò per una scala di legno, giunse in una camera squallida.
V’era un letto e sul letto, vestita, una fanciulla bionda, con le labbra enfiate e gli occhi lucidi per febbre; ella stava muta ed immobile, ma allo scricchiolio della scala, girò lentamente la testa e si sforzò a sorridere, vedendo entrare Gigi.
– Come va? – egli domandò sottovoce.
Una donna, vecchia e magra, che sedeva ai piedi del letto, rispose senza muoversi:
– Come vuoi che vada? Sempre lo stesso.
Gigi fece un gesto di dispetto, e trasse dalla tasca un involto accuratamente coperto con un pezzo di tela cerata.
– Ho portato il chinino, – disse poi.
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