Giuseppe Bevilacqua, commediografo e giornalista, affronta temi estremamente attuali nel 1920 – anno di pubblicazione di questo testo – ma certamente da un punto di vista insolito: quello liberale. L’identità liberale, nel 1920 in Italia, era tutt’altro che definita. La tradizione laica della quale doveva essere portatrice si sfumava continuamente, tramite il giolittismo, nell’adeguamento alla monarchia, nell’accordo con i cattolici tradizionalisti, nelle concessioni ai socialisti in funzione del loro appoggio alla guerra contro i turchi. Infatti è solo nel 1919 che i liberali italiani sentono l’esigenza di una struttura organizzativa più solida – dopo le prime elezioni a suffragio “universale” maschile e fondate sul sistema proporzionale – ma il liberalismo al quale pensa Bevilacqua non può essere annacquato dalle posizioni filofasciste del filosofo Emilio Borzino e del primo Benedetto Croce. Entrambi sembrano infatti abdicare alla posizione di punto di riferimento culturale che il liberalismo avrebbe dovuto rappresentare e ci vorrà il delitto Matteotti per ritrovarli oppositori al regime. È un liberalismo idealizzato, quello che cerca Bevilacqua e, in pratica, mai veramente esistito nel panorama politico italiano.

“Lo spettro che si aggira in Italia” – riprendendo un incipit famosissimo – è, ovviamente quello del comunismo. L’attenzione dell’autore si ferma quindi sul congresso di Bologna del partito socialista dell’ottobre 1919, del quale fornisce un quadro attento, – se pur permeato da quell’ironia che contraddistingue tutto il testo – e che merita una qualche riflessione “a posteriori” per sottolinearne l’importanza storica che il Bevilacqua comunque intuisce. Le tensioni sociali in Europa, culminanti con la sanguinosa repressione del gennaio 1919 della rivoluzione spartachista in Germania, sono evidenti; e lo sono anche per l’Italia, paese nel quale la crisi sembra essere più coerente con quelle dei paesi usciti sconfitti dalla guerra che non di quelli vincitori. Il Partito Popolare nel 1919 si afferma come partito di masse rurali e non è certo fattore di equilibrio, mentre nel partito Socialista emerge stridente la contraddizione tra una fraseologia massimalista e un’azione reale quasi inesistente e limitata alla sola propaganda. La frazione massimalista, che al congresso sarà vincente con il 65% dei consensi, si attesta sul rifiuto di ogni scelta tattica in attesa del crollo imminente e inevitabile della borghesia. Tale attesa fideistica è tuttavia comune a tutte le correnti, da Gramsci a Treves (che di questo libro cura la prefazione ricca di acute osservazioni), da Serrati a Bordiga. L’influenza del bolscevismo non si manifesta sul piano tattico e strategico ma solo su quello finalistico del partito. Il congresso approva per acclamazione (la decisione era stata presa dalla direzione fin dal marzo) l’adesione alla terza internazionale, ma soprattutto effettua un’inversione completa rispetto ai presupposti riformistici sui quali il PSI si fondava fin dal 1892. L’opposizione di Turati si fonda sulla denuncia dell’infatuazione per il successo del bolscevismo:

«Noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perché è chiaro che, mantenendole nella aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e per il quale non lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e pensoso di conquista graduale che è la sola rivoluzione».

Dall’altro estremo Bordiga, che ha già organizzato la sua frazione in vista della scissione di Livorno del 1921, è anch’egli convinto dell’equivoco massimalista e vorrebbe proporre una linea che sia di ostacolo ai tentennamenti centristi e lo fa dichiarando inutile e dannosa ogni azione elettorale. Il 29 settembre scrive sull’“Avanti”:

«La borghesia per vivere deve fare del riformismo. Per riuscirvi ha bisogno della partecipazione del proletariato alla democrazia parlamentare. La nostra astensione spezzerebbe di netto il gioco del governo attuale».

Bevilacqua descrive le posizioni congressuali con un certo acume, ed offre al lettore, ancora oggi, un punto di vista utile e storicamente valido. Nella sua esposizione evidenzia le dinamiche che porteranno alla ormai prossima scissione (Bordiga chiede che siano considerati incompatibili con la permanenza nel partito le posizioni contrarie al metodo della lotta armata). Serrati ammette che il periodo è rivoluzionario ma non vuole la responsabilità della scissione. I comunisti puri gli appaiono come militi avventati della rivoluzione e non vuole rinunciare al prestigio e alle competenze di un Turati o un D’Aragona. Nel suo articolo sulla rivista “Comunismo” In vista del Congresso di Bologna, aveva scritto:

«Noi, marxisti, interpretiamo la storia, non la facciamo e ci rinnoviamo, nei tempi, secondo la logica dei fatti e delle cose. Non attribuiamo né al principe né alla barricata la virtù trasformatrice. Crediamo che vi sia più sostanza rivoluzionaria nella trasformazione del mezzo produttivo che in tutti i proclami astratti».

La posizione di Serrati fu sarcasticamente sferzata da Zinov’ev che osservò che Serrati preferisce rischiare l’insuccesso della rivoluzione, tenendosi i controrivoluzionari in casa, che la perdita del sindaco di Milano.

Bevilacqua non è solo cronista attento, ma è capace anche di osservazioni che, all’epoca nella quale vennero fatte, sono precorritrici e inducono a riflettere su come il futuro di un’opposizione progressista fosse “aperto” e non necessariamente instradato nel solco acritico del filobolscevismo. Proprio all’interno dello stesso bolscevismo scorge i germi del suo fallimento. Insiste sulla visione – certamente di matrice liberale – “evolutiva” per cui è fallace pensare che

«le condizioni attuali dell’economia, cioè del capitale e del lavoro, debbano essere eterne e si conservi “sub specie aeternitatis” il sistema della produzione per la vendita, anzichè pel consumo.»

Ma questa idea si adatta anche per prevedere il futuro scivolamento della rivoluzione bolscevica:

«e la fine del salmo sarebbe che, dopo qualche tempo, ritorneremmo all’antica condizione, al vecchio modo capitalistico di produzione».

Questo perché

«la produzione rimarrebbe “mercantile” e resterebbe inalterato il sistema della produzione per la vendita, anzichè essere sostituito da quello comunistico della produzione pel consumo. Il quale non può essere che internazionale.»

Non possiamo che notare che queste riflessioni Bevilacqua le fa nel 1920, oltre un anno prima che Lenin desse il via alla NEP, rinunciando nei fatti a una politica economica socialista.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

C’è uno spettro in Italia…, lo spettro del comunismo!?
No, non consolarti, ottimo, ma nervoso borghese; l’interrogativo non è per te e tanto meno per la tua gioia. C’è un «esclamativo» dinanzi che è una spada, aguzza e solida. Vedi, se tu fossi sensato, quell’esclamativo te lo dovresti augurare infisso nelle carni sino in fondo, in pieno cuore magari, per essere già finito, già morto, per non essere – oppure per essere comunisticamente l’Individuo o… filosoficamente il Nulla con Leibnitz se credi nella prima monade, con Schelling se all’identità assoluta del subbiettivo con l’obbiettivo ti senti ancora portato. Non scherzo, bada. Sarei tentato di difenderti, anzi, per la tua pena. Ingiusta e vile, quanto sono ingiusti e vili tutti gli attributi calunniosi del tuo nome. Che sei tu, o borghese, se non una rappresentanza della Storia? Ti caricano di una volontà, di una potenza, di una forza che le tue spalle non reggono. Pensa: ti accusano, nientemeno, di una violenza storica; tu, proprio tu, che sei nato legittimamente dalla storia e che nella storia, altrettanto legittimamente, morrai.

Scarica gratis: C’è uno spettro in Italia di Giuseppe Bevilacqua.