«Perduto in questo mondaccio, urtato dalle gomitate delle folle, sono come un uomo stanco il cui occhio vede indietro, negli anni profondi, soltanto disinganno e amarezza, e davanti a sé solo una bufera che non racchiude nulla di nuovo, né insegnamento, né dolore.»
Pervaso da questo stato d’animo, Baudelaire, nell’ultimo decennio della sua vita, annota pensieri, riflessioni, sfoghi su fogli sciolti, in inchiostro rosso, nero o blu, talora a matita. L’edizione francese del 1920 dei Diari intimi (Journaux intimes. Fusées. Mon cœur mis à nu), inserita nel 2010 in “Gallica”, la biblioteca informatica della Bibliotèque Nationale de France, ci fornisce preziose informazioni sulla trasformazione di queste note sparse in un’opera postuma. Alla morte di Baudelaire, Auguste Poulet-Malassis, suo editore ed amico (nel 1857 aveva stampato Les fleurs du mal attirando, assieme all’autore, gli strali della censura), eredita i manoscritti e, ordinandoli arbitrariamente, incolla i fogli volanti su quaderni di un formato più grande, che fa rilegare poi in marocchino. Crea così due raccolte: una contiene i 22 Fusées (Razzi), l’altra le 95 note di Mon cœur mis à nu (Il mio cuore messo a nudo), composte a partire dal 1862.
Il titolo scelto da Baudelaire per la prima raccolta, riportato su ogni pagina del manoscritto, rimanda alla rapidità dei fulminanti appunti e nel contempo al concetto di élévation («Fuggi ben lontano da questi ammorbanti miasmi; va a purificarti ne l’aria superiore, e bevi, come un puro e divino liquore, il chiaro fuoco che riempie i limpidi spazî.», aveva intimato il poeta al proprio spirito in “Elevazione”, terza lirica de I fiori del male); il titolo della seconda raccolta parrebbe invece ispirato dall’amato Edgar Allan Poe, che Baudelaire con le sue traduzioni aveva contribuito a far conoscere in Europa. In Marginalia (1844-1849), annotazioni sparse simili a quelle di Fusées, Poe aveva infatti scritto (XXIV):
«Se qualche ambizioso volesse rivoluzionare d’un tratto il mondo del pensiero, dell’opinione e del sentimento umano io gliene offro il mezzo.
La via ad una gloria immortale è aperta dritta avanti a lui. Non ha che a scrivere ed a pubblicare un piccolissimo libro dal titolo semplice, qualche parola appena: «Il mio cuore messo a nudo». Ma il piccolo libro deve mantenere tutte le sue promesse.»
Poulet-Malassis conserva gelosamente fino alla morte (1878) le annotazioni di Baudelaire, senza mai pubblicarle. La prima menzione dei Diari intimi (titolo scelto non dall’autore, ma dagli editori)risale al 1884, quando sul supplemento al n° 57 della rivista “Livre” appare la notizia che i due manoscritti erano stati messi all’asta e aggiudicati per meno di 600 franchi nel luglio 1878. Eugène Crépet (1827-1892), critico letterario ed amico di Baudelaire, nel 1887 ne pubblica un’edizione non integrale nelle Œuvres posthumes. Seguono altre due ristampe, più complete, nel 1908, ed infine quella del 1920, i cui curatori hanno potuto utilizzare i manoscritti originali forniti dal bibliofilo che li aveva conservati fino a quel momento, M. Gabriel Thomas.
Nei Diari intimi troviamo rapide annotazioni, dal tono provocatorio, sui temi più svariati, dal “Bello” («il tipo perfetto di Bellezza virile è Satana»), alla Chiesa («Non potendo sopprimere l’amore, la Chiesa ha voluto almeno disinfettarlo, e ha istituito il matrimonio.»), alle istituzioni («Se un uomo ha del merito, a che decorarlo? Se non ne ha, si può decorarlo, perché ciò gli darà lustro.»), alla cultura («Le mie opinioni sul teatro. Ciò che ho sempre trovato di più bello in un teatro, nella mia infanzia e ancora adesso, è il lampadario.»). Il ribelle e anticonformista Baudelaire prende di mira con il suo sarcasmo poeti e soprattutto romanzieri del suo tempo (di George Sand, ad esempio, scrive «È stupida, è pesante, è pettegola. Ha, nelle idee morali, la stessa profondità di giudizio e la stessa delicatezza di sentimento delle portinaie e delle mantenute» e di Voltaire «Voltaire, o l’anti-poeta, il re dei grulli, il principe dei superficiali, l’anti-artista, il predicatore delle portinaie»); attacca uomini politici, sovrani («I dittatori sono i domestici del popolo, nulla di piú – fottuta parte, d’altronde») e perfino le idee repubblicane che pure, nel 1848, lo avevano portato a battersi sulle barricate parigine («Non c’è altro governo ragionevole e sicuro che il governo aristocratico. Il 1848 fu divertente soltanto perché ognuno fabbricava utopie come castelli in aria.»). Il suo bersaglio privilegiato è però la borghesia, parimenti avversata da bohémiens e dandies, accusata di sostituire i valori del passato con un unico idolo, il denaro, preparando un futuro in cui «tutto ciò che non sarà la passione per Pluto sarà reputato un’immensa ridicolaggine.»
In questo mondo materialistico, in cui Baudelaire non si riconosce e che a sua volta lo respinge e lo ferisce, come traspare dal riferimento all'”umiliazione“ ricevuta con la censura de I fiori del male, non c’è posto per il poeta che, al contrario dei romanzieri, è votato ad un’arte che non crea profitto.
«Mentre attraversavo il boulevard e mettevo un po’ di precipitazione nello scansare le carrozze, la mia aureola si staccò e cadde nel fango del selciato. Per fortuna ebbi il tempo di raccoglierla; ma un’idea disgraziata s’insinuò, un istante dopo, nel mio spirito: che questo fosse un cattivo presagio; e da allora quell’idea non ha piú voluto lasciarmi; non mi ha dato tregua per tutta la giornata»
In questa nota, bozza di “Perdita d’aureola”, il più famoso dei suoi poemetti in prosa (pubblicato postumo nel 1869 nella raccolta Petits poèmes en prose ou Le Spleen de Paris), Baudelaire evoca la crisi della figura del poeta con l’efficace immagine della caduta “nel fango del selciato” dell’aureola; questa, simbolo nell’iconografia religiosa della santità, diviene qui emblema dell’altissimo ruolo che le società del passato avevano universalmente attribuito al poeta.
Baudelaire vive la sua condizione di isolamento come un destino segnato fin dall’infanzia (in Nota autobiografica «Sentimento di solitudine, fin dall’infanzia. Nonostante la famiglia – e in mezzo ai compagni, specialmente – il senso d’un destino eternamente solitario.»), ma anche come un segno distintivo orgogliosamente ostentato: «Grandi fra gli uomini sono soltanto il poeta, il prete e il soldato. L’uomo che canta, l’uomo che sacrifica e quello che si sacrifica. Il resto è fatto per la frusta.»
A partire dalla nota LXXXVII di Mon cœur mis à nu, i primi sintomi della malattia che l’avrebbe portato alla morte, lucidamente avvertiti da Baudelaire («Ho coltivato il mio isterismo con godimento e con terrore. Ora, ho sempre le vertigini, e oggi, 23 gennaio 1862, ho subíto un singolare avvertimento: ho sentito passare su di me il vento dell’ala dell’imbecillità.») lo portano a concentrare le proprie riflessioni su temi legati alla sua condizione, all’ineluttabile e per lui drammatico trascorrere del tempo, alla fede. Nella nota “Igiene. Condotta. Metodo”, egli formula con la solennità di un giuramento i suoi nuovi proponimenti:
«Giuro a me stesso di prendere d’ora innanzi le regole seguenti per norme eterne della mia vita:
Dire tutte le mattine la mia preghiera a Dio, riserva d’ogni forza e d’ogni giustizia, a mio padre, a Marietta e a Poe, quali intercessori; pregarli di comunicarmi la forza necessaria per compiere tutti i miei doveri e di concedere a mia madre una vita abbastanza lunga perché possa gioire della mia trasformazione; lavorare tutto il giorno, o almeno finché le forze me lo permetteranno; confidare in Dio, cioè nella Giustizia stessa, per la riuscita dei miei progetti; dire ogni sera una nuova preghiera, per chiedere a Dio vita e forza per mia madre e per me; fare quattro parti di tutto ciò che guadagnerò – una per la vita quotidiana, una per i miei creditori, una per i miei amici e una per mia madre; – obbedire ai principî della più rigorosa sobrietà, il primo dei quali è la soppressione di tutti gli eccitanti, di qualunque specie.»
Troviamo nelle ultime note disposizioni dettagliate riguardanti i suoi beni, promemoria per richieste di pagamento ai suoi editori e perfino la ricetta per preparare uno sciroppo, il “Lichene d’Islanda”; non mancano veloci appunti su possibili soggetti di drammi, di saggi e di romanzi che esprimono l’ansia di sfruttare al massimo il poco tempo rimastogli componendo opere, forse le ultime, in grado di garantire a lui ed alla madre l’agiatezza ma soprattutto di procurargli quell’immortalità cui ora più che mai anela.
Nell’annotazione conclusiva, quello che ne I fiori del male era evocato come «Ipocrita lettore, – mio simile – fratello» (“Al lettore”), diviene un interlocutore privilegiato, l’unico in grado di comprendere il poeta che, parafrasando la Bibbia, spera di riscattarsi grazie al suo amore per lui (o per lei):
«Se avessi voluto dimostrare che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili, il lettore avrebbe il diritto di dirmi, come alla scimmia di genio: «Sei un malvagio!». Ma io ho voluto provare che tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili. Molto, dunque, mi sarà perdonato, perché ho molto amato… il mio lettore… o la mia lettrice.»
La traduzione, del 1944, accurata e tuttora apprezzabile per la scorrevolezza e la modernità delle scelte lessicali, è di Decio Cinti (Forlì, 1879 – Firenze, 1954), del quale è possibile leggere una nota biografica, a cura di Paolo Alberti, nella pagina a lui dedicata.
Sinossi a cura di Mariella Laurenti
Dall’incipit del libro:
Razzi. – Anche se Dio non esistesse, la religione sarebbe pur sempre santa e divina.
Dio è il solo essere che per regnare non abbia nemmeno bisogno di esistere.
Ciò che è creato dallo spirito è piú vivo della materia.
L’amore è il gusto della prostituzione. Non c’è anzi alcun piacere nobile che non si possa ricondurre alla prostituzione.
In uno spettacolo, in una festa da ballo, ciascuno gode di tutti.
Che cos’è l’arte? Prostituzione.
Il piacere di trovarsi tra le folle è un’espressione misteriosa del godimento della moltiplicazione del numero.
Tutto è numero. Il numero è in tutto. Il numero è nell’individuo. L’ebbrezza è un numero.
Il gusto della concentrazione produttiva deve sostituire, in un uomo maturo, il gusto della dispersione.
L’amore può derivare da un sentimento generoso: il gusto della prostituzione; ma presto è corrotto dal gusto della proprietà.
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