Pubblicato da Treves nel 1906 e dedicato a Gabriele D’Annunzio. Dedica che è quanto mai pertinente se si pensa a come l’autore si dedichi con estremo impegno all’elaborazione stilistica che trova ampio riscontro nel repertorio tipicamente dannunziano. Metafore, chiasmi, sinestesie, aggettivazioni a occhiello e ritmi ternari permeano tutto il testo di un’artificiosità evidente.
Al centro del romanzo abbiamo tre personaggi: Bertrano, autore di un libro, La morale della morte, il Duca che vive isolato in un castello vicino a un paese e a una vallata di difficile identificazione, e Zoilo, amico tisico del Duca. Tra ammiccamenti col superuomo nietzschiano, Bertrano vorrebbe portare verso l’esperienza della morte proprio Zoilo. Il Duca consapevole delle dinamiche insane da lui stesso scatenate si blinda nel suo castello assieme a Zoilo e con una serie di flashback (che ricordano quelli che già vedemmo in La fiamma fredda) dissipa i misteri relativi al suo passato che ruotano attorno al suo matrimonio con Laus che anni prima si era allontanata da castello.
Punto di svolta del romanzo appare il tentativo di entrare in politica da parte del Duca, che entra nella Camera del Regno in rappresentanza dei suoi villici. Questa esperienza sembra portata nella vicenda soprattutto per esprimere le fobie dell’autore per la città e per le masse; l’ingresso del neodeputato a Roma è dipinto a tinte fosche e quanto mai tenebrose che cupamente si dipanano per svariate pagine. Il tentativo di potersi fare interprete delle istanze e dei bisogni dei contadini che l’hanno eletto naufraga miseramente e il duca torna precipitosamente alle sue montagne.
Il racconto si avvia al finale, attraverso nuove “alchimie” di Brentano che causano una reazione epilettica nel Duca, col ritorno di Laus con Zoilo, che era stato suo amante, ormai moribondo.
Eugenio Montale nel 1927 scrisse un articolo sui romanzi di Benco nel quale esprime apprezzamento su Nell’atmosfera del sole, assieme ad altri saggi, perché “alla passione di patria non resta addietro la sciolta cincinnità della scrittura rispetto all’ambizione e lo sfarzo del dettaglio”. E Elio Vittorini, riprendendo quei concetti espressi qualche anno prima da Montale scrive su «Pegaso» del giugno 1932 un articolo su Silvio Benco nel quale rimarca che il limite artistico dei romanzi di Benco risieda proprio nella loro natura prevalente di saggi. Dice Vittorini: “Poco più che ventenne Benco si dedicava al romanzo. Certo da ambizioso giovane che non riusciva a trattenere e far fruttare tutte le proprie forze entro le rime obbligate del giornalismo. La sua vocazione s’era tuttavia determinata da tempo per il giornalismo e nel giornalismo.
Ma qualcosa di più vasto, di più arioso nella sua stessa vocazione, ossia nel suo ingegno, lo attirava oltre e forse avrebbe potuto trovare il suo corso in un giornalismo per l’appunto più vasto, senza portarlo a cercare la bontà di un estuario nel romanzo. Comunque sia Benco cercò il romanzo, e tra gli anni 1900 e 1906 ne pubblicò due, La fiamma fredda e Il castello dei desideri, i quali risentono della medesima mentalità immaginativa […]. Nel Castello dei desideri è narrata la lugubre avventura di un nevrastenico ed epilettico, il Duca Ulrico, che abbandonato dalla consorte […] si consola della propria solitudine ricorrendo ad amicizie spaventose: quella del tisico Zoilo che gli muore nel castello dopo una serie di orge rusticane […]; quella del sinistro Bertano che si è assunta la parte, mezzo stirneriana, mezzo apocalittica, di moralista della morte e medico delle anime a rovescio”. “[…] un’atmosfera tempestosa […] si addensa poi sul finale aggravata dalla cadenza di marcia funebre dell’intero romanzo […]. Eppure sarebbe bastata un po’ d’ironia per farci accettare quelle battaglie […] Di scarso valore artistico ma non inferiori ai coetanei romanzi di D’Annunzio […] rivelano ispirazione libresca e refrattarietà della fantasia a sviluppare vicende e persone nel tempo.”
Vittorini sottovaluta, secondo me, pur avendola presente, la contestualità dell’epoca nella quale Benco è assolutamente immerso, sia dal punto di vista stilistico che da quello filosofico. Le idee, che sono quelle preponderanti all’inizio del ’900, e che lasciano poco spazio all’ironia, prendono corpo attraverso i personaggi che rimangono però scarsamente vitali, mere incarnazioni di tentativi stilistici. Per questo Vittorini, e prima di lui Montale, hanno ragione nel dire che i romanzi di Benco “si riducono a valore di «saggi» di «studi di costume»; ricadendo nei limiti di un genere letterario che oggi è incontrastato campo del giornalismo ma che giornalismo e basta non si può definire”.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Incipit del libro:
— Ma l’hai tu amata davvero? – domandò quegli che staccava più alto fra i tre, ed era l’autore d’un libro lucido e contagioso, La morale della morte.
L’interrogato sollevò il capo un istante; ma come incontrò quegli occhi, lo riabbattè subito sul petto; le spalle si strinsero, oppressero il torace e vi ricacciarono la voce; non ne uscì che un filo, un filo argentino e tremebondo che si smarrì miseramente nell’aria robusta della montagna.
— In verità, io non posso dirvi se l’ho amata….
Ascendevano insieme alla montagna, il Duca coi suoi due ospiti, Zoilo e l’autore de La morale della morte. Dalla ben pettinata prateria, gemmea di rugiade, i loro passi li portavano verso la boscaglia d’abeti che, nera, recinta da una trincea di felci agitanti i loro verdi flabelli in disordine, ergeva la sua gigantesca prole d’alberi: tronchi nudi, scheletrite cime, fratellanza claustrale d’individui nati a destino solitario. La gaiezza del prato occhieggiava verso i margini della selva con un folleggiar di papaveri purpurei; ma la selva non ammetteva nel suo mistero se non un’erbetta rara e nana, tratteggiante coi suoi filetti teneri le radure del terreno bruno, smosso qua e là dall’erculeo sforzo delle radici e striato d’antiche spoglie giallognole. La immobile milizia degli alberi difendeva il silenzio; ma bastavano le sbracciate felci a frustrare la curiosità dei papaveri.
Scarica gratis: Il castello dei desideri di Silvio Benco.