«Nelle sere e nelle notti di luglio più non si sente il grido della quaglia o della gallinella, gli usignoli non cantano nelle forre boscose, non odorano i fiori, ma la steppa è pur sempre bella e piena di vita. Non appena il sole è tramontato e la nebbia avvolge la terra, l’angoscia del giorno è dimenticata, tutto è perdonato, e la steppa col suo vasto petto lievemente respira. Forse pel fatto che nelle tenebre l’erba non vede la propria vecchiezza, si leva da essa un allegro giovanile crepitio, che di giorno non c’è; scricchiolii, sibili, sfregamenti, i bassi, i tenori, e i soprani della steppa, tutto si fonde in una ininterrotta vibrazione monotona, in mezzo alla quale è bello abbandonarsi ai ricordi e ai rimpianti».
Il titolo della raccolta rimanda alla vera protagonista del primo racconto, la steppa, qui dichiaratamente musa ispiratrice di Čechov: «tu senti la sua ansiosa disperata invocazione: un cantore! un cantore!». L’amore per i suoi paesaggi, nutrito dall’autore fin da bambino quando li contemplava andando verso Kniajaja, nel Donec, dal nonno paterno, l’aveva portato nel 1877 a compiere un viaggio in Ucraina, traendone l’ispirazione per questo suo racconto, il primo pubblicato non su un quotidiano ma su una rivista letteraria, «Severnyj Vestnik», nel marzo 1888. Čechov, che si vergognava dei suoi precedenti bozzetti umoristici tanto da nascondersi dietro uno pseudonimo, in una lettera del 4 febbraio 1888 ad Aleksandr Lazarev-Gruzinskij mostra invece tutto il suo orgoglio per La steppa:
«Ho consumato molta linfa, molta energia e molto fosforo: ho lavorato con fatica e con tensione, estirpando tutto da me […] è il mio capolavoro, non sono in grado di fare di meglio».
Il lettore attraversa con Čechov la steppa ucraina seguendo Jegòruška, un ragazzino di 9 anni che a malincuore lascia la “città di N…, capoluogo di distretto nel governatorato di Z” e la madre (è orfano di padre) per frequentare “non sapeva dove” il ginnasio. Viaggia dapprima su “una vettura senza molle e sgangherata”con lo zio materno, Ivàn Ivànyč Kuzmicjòv, un mercante sul cui volto perfino nel sonno «era espressa la durezza dell’uomo d’affari», e un vecchio prete ortodosso, padre Cristoforo Sirìjskij, “uomo dolce, volubile e scherzevole”. Quando essi, impegnati nella vendita di una partita di balle di lana, dopo aver raggiunto il convoglio che le trasporta affidano Jegòruška ai conducenti dei carri, il narratore li abbandona per seguire il ragazzino ed i suoi nuovi compagni, il vecchio Pantelèj, Jemeljàn, il cantore divenuto afono, l’attaccabrighe Dỳmov, Kirjùcha, l’operaio ammalatosi in fabbrica, ed altri, ognuno con la sua storia e con le mille altre ascoltate viaggiando.
Il viaggio occupa l’intero racconto, dedicato in larga parte al paesaggio ucraino arido e spopolato che lentamente scorre davanti agli occhi di Jegòruška, rattristandolo con la sua monotonia, evidenziata dalle anafore («e sempre quelle stesse mulacchie volavano sulla steppa insieme allo stesso nibbio che batteva maestosamente le ali. Sempre più l’aria si appesantiva»),affascinandolo con le sue variazioni cromatiche dal giorno alla notte o terrorizzandolo durante un violento temporale. Una natura ostile e minacciosa, ma anche fonte di vita, in simbiosi con i personaggi soprattutto quando, personificata, si anima accanto a loro:
«la steppa, le colline e l’aria non sopportarono più quell’oppressione e, perduta la pazienza, stanche, tentarono di respingere da sé il giogo. Di là dalle colline, inaspettatamente si affacciò un nuvolo cinerognolo e ricciuto. Esso scambiò un’occhiata colla steppa – quasi dicesse: io son pronto, – e fece cipiglio.»
Il tutto filtrato dallo sguardo infantile di Jegòruška, che trasforma il mulino in uno “stregone”, i contadini in “enormi giganti”, padre Cristoforo in Robinson Crusoe. Talora, però, l’amore di Čechov per questo paesaggio prende il sopravvento, così come il suo sguardo su quello del ragazzino, e la descrizione si fa lirica:
«Quando si contempla a lungo il cielo profondo, senza staccarne gli occhi, pensieri e sentimenti ti si fondono nella coscienza della solitudine. Cominci a sentirti irrimediabilmente solo, e tutto ciò che prima consideravi come a te vicino e familiare diventa infinitamente remoto e privo d’interesse. Le stelle che guardano dal cielo già da migliaia d’anni, lo stesso incomprensibile cielo e la caligine, indifferenti alla breve vita dell’uomo, quando rimani con essi a faccia a faccia e ti sforzi di penetrarne il significato, opprimono l’anima col loro silenzio; quella solitudine che aspetta ciascun di noi nel sepolcro ti viene alla mente, e l’essenza della vita si presenta disperata e terribile»
Anche i personaggi de La steppa sono visti attraverso gli occhi di Jegòruška, incuriosito da ogni nuovo incontro che spezza la monotonia del viaggio, affascinato dai truci e fantastici racconti di Pantelèj su bande di ladri dai lunghi coltelli, dalla storia d’amore di Konstantìn, l’uomo dal «sorriso straordinariamente buono […] dal lungo naso, dalle lunghe braccia e dalle lunghe gambe»e soprattutto dalla leggendaria figura dell’inafferrabile Varlàmov, ricco possidente che tutti cercano e di cui tutti parlano fin dall’inizio, ma che fa la sua sospirata apparizione solo al cap VI. Tutti i personaggi, anche quelli che solo fugacemente incrociano il convoglio, vengono descritti con pochi ma efficaci tratti, così come appaiono a Jegòruška: dal «giovane ebreo piuttosto basso, rossiccio di capelli, con un gran naso ad uccello e uno spazio calvo tra i capelli ruvidi e crespi» al «vecchio mandriano, lacero e scalzo, con in capo un berretto spesso, una sacchetta sudicia al fianco e un lungo bastone a uncino, – in tutto e per tutto una figura dell’Antico Testamento», alla donna di cui dapprima egli sente solo la voce ma che poi appare con «lunghi piedi, e lunghe gambe come un airone».
In questo affresco dell’umanità che popola la steppa ucraina non manca nessuna classe sociale: servi della gleba, contadini oppressi dalla miseria, operai, borghesi incrociati durante le soste nei villaggi come il “signore” con «un abito di seta cruda stirato di fresco, e il mento rasato e azzurrino» o la signora «pienotta e attempatella con uno scialle di seta bianca»,o ancora «il bottegaio, grasso, dalla faccia larga e la barba rotonda, un Grande Russo»; viene evocata anche l’alta società (incarnata dagli unici personaggi descritti nei dettagli, il mitico Varlàmov e l’affascinante contessa Dranìtskaja), che per Jegòruška assume una dimensione fiabesca: «bevevano il tè da samovari d’argento, mangiavano ogni cosa più straordinaria (per esempio, d’inverno, a Natale, si servivano lamponi e fragole) e ballavano accompagnati da un’orchestra che suonava giorno e notte.»
«Avrei voglia di gridar forte che il destino ha condannato me, un uomo celebre, alla pena di morte, che tra qualche semestre qui nell’anfiteatro comanderà un altro. Vorrei gridare che sono avvelenato; nuovi pensieri che non conoscevo prima hanno avvelenato gli ultimi giorni della mia vita e continuano a pungere il mio cervello come zanzare.»
Il protagonista e narratore del secondo racconto, Una storia noiosa (Dalle memorie di un vecchio), pubblicato sempre sulla «Severnyj Vestnik» nel novembre 1889, è il sessantaduenne Nikolàj Stjepànovič (“il cognome non importa”), prestigioso docente dell’università di medicina e medico di fama internazionale, che ci schiude il suo animo in un impietoso confronto fra un passato di gloria, agiatezza, affetti e passione per l’insegnamento («non c’è sport, divertimento o gioco che mai mi abbia procacciato tanto godimento come il far lezione») e un presente di noia, decadimento fisico, incomunicabilità, ristrettezze. Nikolàj Stjepànovič ci racconta nei dettagli una sua giornata, identica in tutto per tutto alle altre: l’insonnia notturna, la visita mattutina della moglie, il percorso verso l’università, l’incontro con i colleghi, le lezioni, il rientro a casa per lavorare nel suo studio, la cena, la visita serale della moglie e di nuovo l’insonnia notturna, in un circolo che parrebbe destinato a non finire mai. Inaspettatamente, però, tutto cambia.
Mia moglie, terzo racconto della raccolta, pubblicato sulla «Severnyj Vestnik» nel gennaio 1892, ha come protagonista Pàvel Andrèjevič, un ingegnere benestante che, abbandonato l’impiego al ministero dei trasporti, si è ritirato in campagna, nei pressi del villaggio di Pjòstrovo, per potersi dedicare in tranquillità alla stesura di una «Storia delle strade ferrate». La sua misantropia, nata dalla convinzione di essere circondato da«persone incivili, retrograde, apatiche, nella più gran parte disoneste; o, se anche oneste, sventate e senza serietà, come per esempio mia moglie….», lo porta ad isolarsi sempre più; un atteggiamento costantemente giudicante gli impedisce di entrare in contatto con gli altri, compresa la moglie che egli a suo modo continua ad amare ma che, pur vivendo nella stessa casa, evita i contatti con lui. La vicenda, narrata dallo stesso Pàvel Andrèjevič, copre l’arco di una sola giornata, in cui dapprima una lettera anonima, poi un dialogo con la moglie, ed infine due incontri, determinano in lui un radicale cambiamento.
«io rievoco tutte le circostanze di questa strana, bizzarra giornata, unica nella mia vita, e mi sembra veramente d’aver perduto il cervello o d’esser diventato un altro uomo. Gli è come se quello ch’ero fino al giorno d’oggi mi fosse ormai estraneo.»
La traduzione della raccolta, apprezzabile anche a distanza di quasi un secolo (è del 1930), nonostante qualche arcaismo e termini ora usati con diversa accezione, come “tristamente”, qui sinonimo di “tristemente”, è di Zino Zini (1868-1937). Laureatosi a Torino dapprima in giurisprudenza, poi in lettere ed infine in filosofia, si impegnò in politica fin dai tempi dell’università, dapprima nel partito socialista, poi in quello comunista. Insegnò filosofia nei licei torinesi e per alcuni periodi anche all’università, collaborando nel contempo con numerose riviste, come La riforma sociale, la Gazzetta letteraria, Il campo, Il grido del popolo, poi con L’ordine nuovo (su richiesta di Antonio Gramsci, suo ex studente universitario) e La stampa. Nel 1921 scrisse il programma dell’Istituto di cultura proletaria, sezione italiana del moscovita Proletkult, di cui divenne direttore. Autore di numerosi saggi letterari e filosofici, dopo aver subito, nel 1922, una brutale aggressione fascista, abbandonò l’attività politica, iniziando una collaborazione dapprima con la casa editrice Paravia, per la quale curò traduzioni di classici filosofici e pedagogici, poi con la Slavia (La steppa. Racconti) e con la UTET, dedicandosi a scrittori norvegesi, francesi e russi. Per una più dettagliata biografia, si rimanda alla voce Zini, Zino dell’Enciclopedia Treccani, curata da Francesco Giasi.
Sinossi a cura di Mariella Laurenti
Dall’incipit del libro:
Dalla città di N…, capoluogo di distretto nel governatorato di Z…, sul far d’un mattino di luglio, uscì rotolando con fragore sulla strada postale una vettura senza molle e sgangherata, una di quelle vetture antidiluviane sulle quali viaggiano ora in Russia sol più i rappresentanti di commercio, i mercanti all’ingrosso e i preti poveri. Essa rimbombava e scricchiolava ad ogni più piccolo movimento; un secchio appeso dietro al suo fondo le rispondeva tristamente, – e già da questi rumori, e dai miserabili lembi di cuoio che ballonzolavano sulla sua carcassa spelata, si poteva giudicare della sua vetustà e della sua buona disposizione ad andarsene a pezzi.
Nella vettura sedevano due abitanti di N…: l’uno il mercante Ivàn Ivànyč Kuzmicjòv, rasato, cogli occhiali e il cappello di paglia, che rassomigliava più a un impiegato che a un mercante, l’altro il padre Cristoforo Sirìjskij, priore della chiesa di san Nicola a N…, un vecchietto piccolo dai capelli lunghi, in caffettano di tela grigia, con un cilindro a larghe falde e una cintura di colore ricamata. Il primo di essi era assorto in qualche pensiero e scrollava il capo per cacciar la sonnolenza; sulla sua faccia la durezza abituale all’uomo d’affari contrastava colla bonarietà della persona che si è or ora congedata dai suoi e ha trincato copiosamente; il secondo invece contemplava ammirato coi suoi occhietti umidi il mondo del buon Dio e sorrideva di un così largo sorriso che questo sembrava raggiungere le falde del suo cilindro; il suo viso era rosso e appariva intirizzito. Tutti e due, tanto Kuzmicjòv quanto il padre Cristoforo, andavano a vender la lana. Prendendo congedo da quei di casa si erano poco prima rimpinzati di pasticcini alla crema acida e, nonostante fosse di buon mattino, avevano anche bevuto… In entrambi la disposizione dell’animo era eccellente.
Scarica gratis: La steppa di Anton Pavlovič Čehov.













