Notturno del tempo nostro fu messa in scena all’Arena del Sole di Bologna il primo aprile 1933 dalla compagnia, da poco formatasi, di Palma Palmer, pseudonimo suggerito da D’Annunzio all’attrice Giulia Fogliata, reduce dal recente successo dell’interpretazione di Sonia in Zio Vania di Čechov e di Elisabetta in Famiglia Barrett di Besier. Soprattutto durante le rappresentazioni milanesi il successo fu notevole, sorretto dalla maestria dell’esperto commediografo e dall’interpretazione della Palmer del personaggio di Marisa, interpretazione che fu definita dalla critica “limpida, sincera e brillante”.
Data alle stampe l’anno successivo, la commedia resta interessante anche dopo tanti anni, retta da un dialogo che si mantiene vivo per tutti i tre atti. Il tema che Bevilacqua intende affrontare è quello della morale della donna del suo tempo, in anni nei quali aveva raggiunto il successo il romanzo Gli indifferenti di Moravia. Il commediografo milanese sembra infatti reagire all’apparenza cinica di Moravia, esplorando l’arido e convulso suo tempo; vuole riaffermare la fede nel bene e nell’amore che non è curiosità sensuale né patto di reciproca libertà né mercato di anime e di corpi. Al vorticoso trascorrere delle giornate Bevilacqua, che vuole proporsi come scrittore che ha idee e non comiche smanie, prospetta una parola di sicura attesa per un domani dove la donna tornerà se stessa, al suo pudore e alla sua missione. La protagonista Marisa, figura di nervi e sensibilità, si muove su uno sfondo che non è però quello tipico della morale e del pudore. I risultati sono sì moraleggianti, ma non si intravede la noiosa censura del moralista. Infatti non credo si possa dire che la protagonista Marisa si penta dei suoi comportamenti arditi. La sua è piuttosto una trasformazione, non tanto in conseguenza a un’esperienza di “male” ma per la ricerca di una esperienza di “bene”.
È evidente che le tesi del Bevilacqua sono oggi “datate” ma la commedia conserva un qualcosa di appassionatamente cavalleresco, per cui la notazione di certi tratti di corruzione sfuma in una esaltazione non tanto della donna “di ieri” in confronto con quella “di oggi” ma dell’essenza della femminilità che non andrà mai dispersa ed è destinata a prevalere per sempre. La soluzione della commedia appare quindi pienamente accettabile proprio perché lo scrittore non si sforza di mascherare o attenuare drammaticamente la trasformazione della protagonista Marisa, la quale invece risulta animata proprio dalla sua stessa pena e dalle sue contraddizioni. E la lotta tra due generazioni, che è un tema sostanzialmente universale, può trovare quindi elementi pacificatori che vanno verso i valori umani più genuini, dove l’amore non è né impeto né spasimo ma alleanza e comunione di pensiero. Certamente per il lettore del nuovo millennio la rivalutazione della femminilità devota può risultare addirittura fastidiosa, ma contestualizzando l’opera nel suo tempo si può dire che prevalgano gli elementi innovativi, per esempio nei dialoghi liberi e normalmente crudi, e nell’assoluta schiettezza, sempre pervasa da una vena di malinconia, con la quale persone e ambienti sono esplorati e descritti.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit della commedia:
ATTO PRIMO
La vasta terrazza sul mare di un lussuoso albergo, protetta dal sole da un variopinto telone. Da un lato, tra vasi di piante, un pianoforte. Tavolini e poltrone in vimini. Nel fondo, l’infinito quasi opalino per l’ossessionante fulgore del sole. Pomeriggio. Ambiente balneare, mondano, spregiudicato.
SCENA I.
ADRIANA – il CAMERIERE – DORA
ADRIANA (elegante, in pigiama, entra dalla sinistra. Siede, si alza, è irrequieta; si leva la mantellina di velluto scarlatto e la depone su d’una seggiola, accanto al pianoforte).
CAMERIERE (che, evidentemente, l’ha seguita, compare subito dopo. Con titubanza): — Se la signorina permette…
ADRIANA (indispettita). — Il direttore mi fa anche seguire? Non scappo! Non posso scappare in pigiama…
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